Emiliano Ceresi
07 Settembre 2024
Il film di Grassadonia e Piazza, con Servillo e Germano, racconta il mondo tragico e insensato di Matteo Messina Denaro attraverso le insolite lettere e i pizzini del boss latitante.
Di Iddu, terzo lavoro alla regia firmato dalla coppia Fabio Grassadonia-Antonio Piazza, si ha la sensazione che si parli meno di quanto il duo meriterebbe. Eppure la loro pellicola precedente (Sicilian Ghost Story), aveva mostrato indiscutibili le doti dei cineasti nel dosare fantasmi e realtà – “La realtà è un punto di partenza, non una destinazione” recita qui l’esergo del film.
Al tempo, ne aveva scritto giusto il «New York Times» definendolo senza attenuazioni un’“eccelsa commistione di naturale e soprannaturale, fantasy e attualità”, un’opera in grado di riflettere cioè “gli orrori di un rapimento di Mafia attraverso un prisma, quello del primo amore”. E del resto i due già nel 2013 con Salvo avevano conquistato la Semaine de la Critique del Festival di Cannes vincendo il Gran Prix e il Prix Révélation.
C’è di che guadagnarne: chi entrerà in sala potrà conoscere, magari libero da condizionamenti eterodiretti, il lavoro di due registi con uno stile e insieme un’idea artistica solida, coerente, certo diversa dal cinema circostante.
Anche Iddu, in effetti, è in parte un film “di mafia” come pure un film di scrittura e spettri – quello della paternità, per esempio, che su tutti aleggia, infestando gli incubi dei protagonisti, e che assume le sembianze ingombranti di un’eredità. È il principio della successione al trono o, meglio per ricorrere al lessico dialettale di questo lignaggio, dal Padrino a “U’ Pupu”.
E di nuovo il fondale di questa pellicola, che chiude la trilogia aperta con Salvo, è una Sicilia trattata senza indulgenza.
Lo ha dichiarato uno dei registi polemizzando sui mancati sovvenzionamenti al film da parte della regione e notando come ormai agli autori italiani si richiede “Un campo lungo su Cefalù e un controcampo su Taormina” – alludendo amaro a una deriva inclinata verso il mercimonio turistico che sempre più pare essere incoraggiata anche al cinema.
In questo film, al contrario, l’isola ricorda invece quella tratteggiata da Sebastiano Vassalli nel suo Il cigno quando scriveva di un luogo in cui: “si vedevano colline grige o gialle di tufo, senza nemmeno un albero, e inerpicati a mezza costa o sul cocuzzolo di quelle colline c’erano certi paesi assurdi ed evanescenti dove nessuna persona sana di mente […] sarebbe mai venuta a viverci per una scelta”.
Qui la natura, quando affiora, è quella dei campi siciliani, dedali assolati dove guardie e ladri si nascondono, come dentro un western.
All’atmosfera, d’altronde, contribuiscono pure le musiche composte dal siciliano Colapesce, che per certe scelte di commento deve aver pensato all’opera di Ennio Morricone. E del western, oltre alle pistole e alle musiche, il film contiene i soprannomi allusivi dei personaggi che però in questo caso sono svuotati di ogni densità epica – come Lappana, ovvero un ‘pesce poco acuto’ e altri che in questa sede non si vogliono svelare.
Il racconto è imperniato attorno a due personaggi dissimili almeno quanto tra loro invescati nel patto oscuro che li lega. C’è Catello Palumbo, saltimbanco ridicolo dalla cultura traballante e dai modi affettati interpretato da un Toni Servillo misuratissimo nel tenere in equilibrio tragedia e ridicolezza, ma nel segno marcato di un’accentuazione della prima.
È un ex preside di provincia, un ex massone, un ex costruttore, un ex politico: “Sei solo un ex, sei morto” gli grida la moglie accogliendolo, per così dire, all’uscita di galera tra i debiti di una casa arrangiata e in cui pure sta per nascere un figlio.
In Catello si riconosce quel tipo umano che già tempo fa, la vicenda ha luogo nei primi anni Duemila, era stato perfettamente delineato da Leonardo Sciascia: “La Sicilia, forse l’Italia intera […] è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa”.
La simpatia, in questo film, è però tutt’uno col sarcasmo, un’ironia che trascolora verso il nero senza mai intuire sbocchi di luce.
Quando, dopo essere tornato, Catello appare ricco di propositi, la moglie lo inchioda ai suoi fallimenti pecuniari senza concedergli scampo: “è un residuo vitale delle tue cellule, schiuma di superficie”. E non sono battute neutre queste, ma gesti di aggressione, o magari di autodifesa, se è vero come osserva Catello che da queste parti è “il ridicolo a uccidere – e molto più delle pallottole”.
L’arguzia di Catello però è un’arma ormai spuntata: “L’intelligenza è sopravvalutata” le dice caustica la moglie con un tono che ben si sarebbe attagliato, per paradossale rispecchiamento, a quello altrettanto rassegnato e sapienziale di un Jep Gambardella.
“Il racconto è imperniato attorno a due personaggi dissimili almeno quanto tra loro invescati nel patto oscuro che li lega”.
Quando, oltrepassata la soglia del penitenziario, Catello riceve dall’alto una cacca di piccione: il suo spirito farsesco lo porta a interpretarlo come “un segno del cielo”, un buon auspicio, ma è patente come l’ex preside sia il primo a non credere alla sua stessa recita. E Servillo ha raccontato, parlando della sceneggiatura, di quanto per un attore sia prova “eccitante” quella di misurarsi con un “personaggio che recita” in continuazione.
All’altro capo, in tutti i sensi, c’è Matteo, l’ultimo grande boss latitante, ispirato al personaggio (gli occhiali da sole perenni, i manifesti per strada con il suo volto e a lui dedicati) di Matteo Messina Denaro e interpretato da un Elio Germano inedito nella sua essenzialità scabra come nell’impastata calata trapanese (del resto poco o mai sentita al cinema).
A differenza di Catello, Matteo è infatti un uomo sprovvisto di umorismo per sua stessa ammissione, essenziale, tutt’altro che mondano. Vive asserragliato in un appartamento, foderato di libri e intercapedini, dove trama grottescamente all’ombra delle tapparelle. Sotto questo aspetto la scelta degli ambienti, che nei tratti dei personaggi-maschera preme invece alquanto sul pedale del grottesco, è molto misurata nel restituire lo squallore dei rifugi dei mafiosi – la mitomania inelegante del loro lusso (ritratti con incoronazioni, arredi ampollosi) si intuisce alle spalle, ma la macchina da presa non indugia e non si compiace troppo della caricatura.
Come scriveva Emiliano Morreale: “il boss transnazionale che emerge dalla Jacuzzi tra arredi hi-tech” è in verità una figura rassicurante e “da consumare senza inquietudine”. A inquietarci, di un mafioso, è sempre più quello che di lui ci somiglia nella sua condotta borghese.
Le ore d’aria che Matteo riesce a concedersi sono rese struggenti da un sole martellante con la camera che lo inquadra dal basso della sua prigionia autoimposta: mostrandoci così tutti i glumi, l’angoscia, di un animale braccato tra le pareti confinarie di un angusto terrazzo.
Un’irrequietudine che si insidia nei suoi incubi o in forma di allucinazione, come con l’amletico spettro di Don Gaetano, il padre che lo perseguita in ogni suo gesto criminoso. Anche qui però non c’è alcuna mitizzazione dell’inevitabilità del proprio destino; in un immaginario dialogo oltremondano con Don Gaetano, che lo ha eletto suo successore già bambino in seguito a una sanguinosa prova di coraggio, Matteo gli grida la comune condizione di bestie: “Sei stato sepolto in mezzo alle pecore e io sto vivendo come un sorcio!”.
D’altra parte dall’ eredità sono escluse le donne, anche quando decisamente avrebbero la tempra per riceverla, come dimostra il temibilissimo e accigliato personaggio interpretato da Antonia Truppo, che già si era dimostrata credibilissima, e per un ruolo assai affine, in Lo chiamavano Jeeg Robot.
E sono poi, quelli del boss, sfoghi ormai troppo tardivi di insubordinazione, a quel padre che gli aveva additato la sua strada nell’ascolto e nell’obbedienza.
A preoccupare Matteo, insomma, sono soprattutto gli spettri da cui è inseguito, molto più dello Stato che dovrebbe provare a catturarlo. Toni Servillo in conferenza stampa ha detto in proposito che il film dovrebbe ingenerare nello spettatore un solo interrogativo “molto semplice”: “Come è stato possibile?”
Nella noia della solitudine, il boss pilota macchine ai videogiochi, ma più spesso scrive (dettando) o legge L’Ecclessiaste, il migliore tra i libri della Bibbia perché “dice le cose come stanno”, ovvero, che “Il felice è chi non è ancora nato”. Altre volte siede al tavolo a comporre un enorme puzzle della Sicilia a cui però manca un pezzo: nel vuoto di senso Matteo non può che riprodurre se stesso.
Come si è poi scoperto, anche Matteo Messina Denario coltivava letture borghesi – confermate dalla cospicua quantità di libri rinvenuti nei suoi covi – e possedeva inclinazioni cinefile, che sono state ricostruite su «Snaporaz» da un bellissimo articolo di Emiliano Morreale, che è massimo esperto del nostro cinema di mafia.
Iddu è un film senza spiragli: non nell’amore, l’amicizia, lo Stato, nemmeno nell’innocenza come quella ingenua, ma autentica, del bidello della scuola, che può essere sacrificata senza pentimenti per sanare la girandola dei torti.
Non appena è iniziata la sua libertà, Catello è contattato dagli apparati dei servizi segreti, che lo invitano, ricattandolo col suo passato, a collaborare proprio alla cattura dell’ultimo dei grandi latitanti, giusto quello a cui ha fatto da padrino alla prima comunione.
Dopo l’ennesima confisca (prima la Mercedes, poi l’albergo di lusso per il quale aveva un progetto di costruzione con annessi piscine e centri benessere) Catello comprende di non avere scelta – anche a costo di divenire “l’infame degli infami”, ossia “un iscariota”.
Inizia così a stabilire un contatto epistolare con Matteo, provando a blandirlo e a vellicarne il narcisismo con infarinature classicheggianti quanto vacue, ma soprattutto tentando di colmare, con tutti gli orpelli retorici e sentimentali di cui è provvisto, la nicchia vuota lasciata dalla morte del Padre.
Incubo ritornante di Matteo, infatti, è la fallita custodia della statua greca de L’Efebo di Selinunte, “oggetto transizionale” mancato perché donatogli da Don Gaetano e che, recuperato dallo Stato, è ora custodito tra le teche del Museo Civico del Paese di Castelvetrano.
Matteo, intanto, sempre più avvolto in una spirale disforica che lo porta a ignorare i familiari e un figlio su cui non riversa eredità, si sente gratificato da questi scritti – tra i due protagonisti inizia una corrispondenza epistolare. In fondo, lo si è inteso, Matteo è un moralista di stampo pessimista che avverte nel procedere delle generazioni un collasso verso la “degradazione”: un narciso conservatore.
Attribuendo (e sbagliando) prestigio culturale al proprio interlocutore, il boss arricchisce le proprie missive con parabole bibliche e formule artate cui vorrebbe tendere al lirismo: è la malcelata ambizione letteraria a rendere sopportabile, ora, la sua condizione. Tanta è la gratificazione che, per cifrare lo scambio di entrambi, Matteo scomoda, anche negli pseudonimi, i testi sacri.
Molto riuscite le scene in cui, dettando le lettere alla sua misteriosa assistente (una minimale e bravissima Barbara Bobulova) questa segnala al boss quando l’uomo viene meno al suo standard stilistico, potremmo dire, al suo tenore – “babaluso”, per esempio, è una troppo grave caduta per le ambizioni contenute nella sua penna.
Ma Matteo è scrittore abile anche quando è in grado di declinare i registri, modulandoli, in base all’interlocutore con cui si rapporta. Tra i due protagonisti inizia quasi una gara di affabulazione che pare prescindere le reali intenzioni palesando, piuttosto, il loro costante desiderio di mostrarsi più intelligenti delle persone che hanno attorno.
Ed è questa scelta, quella delle lettere distribuite da una macchina di pizzini, a rendere Iddu un film di mafia (siamo in verità più dalle parti della commedia umana) diverso dagli altri italiani recenti: la ricerca e lo scavo filologico, iniziato nel 2020 quando il titolo (così come Denaro) era ancora Il Latitante, è un accesso unico e inedito (certo nel cinema) all’inverosimile miseria che si cela dietro questa tragedia, finalmente ricondotta alle sue quotidiane impellenze.
Sotto questo aspetto, il film esaudisce l’auspicio di Falcone che invitava a guardare alla mafia non come un “mostro”, “una piovra” o “un cancro”, bensì come qualcosa che ci “rassomiglia”.
Tramite lo scambio che avviene nelle lettere anche i loro personaggi si incontrano e la messa in scena, prima così diametrale, assume gli stessi contorni cromatici. È Catello però, man mano che il film procede, a essere sempre meno istrionico e, insieme, sempre più simile al suo corrispondente meno “spiritoso”.
E tutto del resto era già nelle fonti: in quelle lettere di Matteo Messina Denaro al misterioso personaggio di Svetonio, il carteggio con un ex sindaco di Castelvetrano messo in piedi da Servizi Segreti, e meritamente portate all’attenzione da Stampa Alternativa: prove inedite sorprendenti perché fatte di “flussi di coscienza” alquanto venati da una baroccheggiante ambizione letteraria. E pare, tra l’altro, che quello scolastico fosse uno dei maggiori rimpianti di Messina Denaro: “la mia rabbia maggiore è che ero un bravo studente, solo che mi sono distratto con altro”.
Ultimo dei film italiani inseriti in concorso: Iddu merita di sicuro la scoperta in sala – e magari per avviare così la conoscenza con una coppia di registi “senza eguali né gemellaggi” capaci di comporre un paesaggio umano, che poi è il nostro, desolante e mai indulgente.
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