Il cinema americano sa ancora raccontare chi sta ai margini? - Lucy
articolo

Emiliano Dal Toso

Il cinema americano sa ancora raccontare chi sta ai margini?

05 Febbraio 2025

Sin dai tempi della New Hollywood, il cinema americano ha saputo raccontare le storture della propria società attraverso personaggi fragili o alienati. Oggi invece?

Ogni epoca di guerre genera un cinema che cerca di capire il proprio tempo. Il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti di George W. Bush diedero inizio a un massiccio attacco aereo contro l’Iraq, un’azione bellica insensata e giustificata dall’illusione delle presunte armi di distruzione di massa. Mai trovate. In quegli anni, vivevo il conflitto partecipando a manifestazioni e  girotondi davanti al mio liceo, ma soprattutto attraverso i film americani che vedevo al cinema. Non erano opere esplicitamente politiche o ambientate in zone di guerra, ma raccontavano l’America di allora, con i suoi traumi e conflitti interni. Due titoli su tutti: La 25ª ora di Spike Lee, che catturava lo stordimento di New York dopo l’11 settembre, e Elephant di Gus Van Sant, che ritraeva senza enfasi e con sguardo gelido la strage in una high school americana. Questi film non raccontavano la guerra in Iraq ma, in modi diversi, parlavano di ciò che l’aveva resa possibile: il senso di vulnerabilità, l’alienazione, la cultura della violenza come risposta al trauma. La violenza del film di Van Sant è immotivata, senza ragioni apparenti e per questo ancora più inquietante; quella del film di Spike Lee è soprattutto una promessa che sembra destinata a esaudirsi al termine della notte, quando il protagonista entrerà in carcere. La violenza, agita o presentita, inspiegabile o studiata, è però in entrambi i film in dialogo con la cronaca e la società. È una violenza generazionale (gli adolescenti), istituzionale (le carceri e la scuola), esistenziale (l’illegalità come scorciatoia per una vita florida). 

Il racconto della violenza calata in un determinato contesto culturale e storico, priva di abbellimenti e di eroismi, con personaggi tormentati, cupi e alienati, appartiene alla tradizione del cinema americano, in particolare alla generazione più innovativa del Dopoguerra, quella dei registi della New Hollywood, che si è sviluppata a partire degli anni Settanta. Martin Scorsese, con film come Taxi Driver (1976) e Mean Streets (1973), esplorò il lato oscuro della società americana, portando sullo schermo contesti urbani degradati. Paul Schrader, sceneggiatore di Taxi Driver e regista di American Gigolo (1980), si concentrò su storie intime e angoscianti, spesso attraversate da dilemmi morali e spirituali. Michael Cimino, con Il cacciatore (1978), affrontò il trauma della guerra del Vietnam e il suo impatto sui veterani, con un realismo crudo e momenti di lirismo visivo. Francis Ford Coppola, invece, realizzò opere epiche come Il padrino (1972-1974) e Apocalypse Now (1979), che affrontano temi universali di potere, corruzione e follia umana, intrecciandoli con le turbolenze socio-politiche dell’epoca.

“Ogni epoca di guerre genera un cinema che cerca di capire il proprio tempo”.

Pur nella diversità stilistica e tematica, era un cinema che guardava in faccia l’America e raccontava i suoi fantasmi, anche attraverso la vita delle persone comuni. Oggi, nell’epoca delle piattaforme e degli algoritmi, seppur all’interno di un contesto sociale, storico e politico mutato, viene da chiedersi: il cinema americano è ancora capace di farlo? Oppure i suoi nuovi autori, pur talentuosi, hanno perso quella capacità di riflettere sul presente? Durante e dopo gli otto anni della presidenza di Barack Obama (2008-2016), il cinema americano pare aver continuato la sua esplorazione della società, interrogandosi spesso sui traumi ancora aperti della guerra in Iraq e sugli strascichi dell’11 Settembre. In questa fase, emergono film che affrontano direttamente il tema della guerra, come The Hurt Locker (2008) di Kathryn Bigelow e American Sniper (2014) di Clint Eastwood, dove i protagonisti – soldati, non eroi – affrontano il peso della guerra, tanto sul campo di battaglia quanto nel loro ritorno a casa. Allo stesso tempo, opere come Nella valle di Elah (2007) di Paul Haggis e The Messenger (2009) di Oren Moverman spostano l’attenzione sulle conseguenze altre del conflitto, concentrandosi su persone comuni che cercano di fare i conti con traumi difficili da elaborare. In altri casi, il racconto si espande in direzioni nuove e audaci, anche da un punto di vista formale: Redacted (2007) di Brian De Palma, per esempio, esplora la brutalità della guerra in Iraq attraverso un approccio visivo frammentato e sperimentale. Il film si presenta come un collage di fonti diverse, tra cui video di soldati, reportage giornalistici, blog e telecamere di sorveglianza, per raccontare una storia ispirata a un caso reale: lo stupro e l’omicidio di una giovane ragazza irachena da parte di soldati americani. De Palma utilizza questa struttura narrativa per mettere in discussione il controllo e la manipolazione dell’informazione nei conflitti moderni, ponendo un’attenzione critica su come le atrocità vengono raccontate (o nascoste) dai media. Un’opera controversa e provocatoria, che sfida lo spettatore a riflettere sul ruolo della verità e sul costo umano della guerra, mescolando mezzi di comunicazione diversi – dalle riprese amatoriali alle clip di YouTube – per restituire un ritratto inquietante dei media e mettere in discussione uno statuto di verità che le immagini non riescono a restituire fino in fondo. E poi ci sono i tre Batman di Christopher Nolan, che amplificano il senso di ossessione e paranoia che domina l’America post-Undici Settembre, trasformando Gotham in una versione distorta ma riconoscibile della società americana (proteste di Occupy Wall Street comprese). Questi film, pur diversi tra loro, riflettono la capacità di un certo cinema americano, e anche di certi blockbuster, di restituire un’immagine per nulla consolatoria, ma opaca – se non critica – della propria società, raccontando lo spaesamento e le difficoltà di chi, fragile o perdente, cerca il proprio posto in un contesto segnato dalle iniquità, dal caos e dall’incertezza. Tuttavia in quel periodo storico, accanto a queste opere, si registra una crescente inclinazione verso racconti che guardano al passato o che celebrano personaggi iconici. Con il successo dei biopic e della serialità delle piattaforme online, si consolida un nuovo paradigma: gli showrunner diventano figure chiave nel processo di scrittura (e produttivo), e il concetto di storytelling prende il posto di quello di scrittura cinematografica. In questo contesto, il cinema americano perde progressivamente quella capacità che l’aveva caratterizzato a partire dalla nascita della New Hollywood, ovvero la volontà di raccontare senza enfasi le storie di persone comuni. Durante la recente presidenza di Joe Biden (2020-2024), è emerso e si è consolidato quello che si può considerare l’unico vero filone impegnato del cinema statunitense contemporaneo: il “nuovo femminismo”. Un movimento di rinnovata consapevolezza che mira a sfidare le narrative patriarcali tradizionali e a promuovere una rappresentazione più inclusiva, complessa e autentica delle donne. E in cui i personaggi femminili vengono esplorati in tutta la loro complessità, con storie che spaziano dal personale al politico, dalla vulnerabilità alla forza. Questa tendenza, prima di tutto culturale, radicata negli scandali del #MeToo e nel successivo dibattito, ha orientato profondamente le scelte produttive di Hollywood, portando alla formalizzazione di un filone che non si limita a rappresentare conflitti di genere, ma che cerca di esaminare in modo più ampio il sistema di potere e di oppressione insito nella società americana. Tra i film di questa corrente spicca Promising Young Woman (2020) di Emerald Fennell, una black comedy feroce ed esagerata che si distingue per la sua capacità di canalizzare il desiderio di rivalsa delle donne nei confronti di un patriarcato subdolo e opprimente. La protagonista è una figura tragica e ambigua, che – al pari dei reietti e degli alienati della New Hollywood – si offre come specchio delle crepe profonde di un’intera società. Da allora, il cinema neofemminista ha prodotto una sequenza di opere centrali per comprendere il cinema americano dei primi anni Venti. Film come Barbie (2023) di Greta Gerwig, Don’t Worry Darling (2022) di Olivia Wilde e Blonde (2022) di Andrew Dominik riattualizzano il conflitto tra i sessi, mettendo in luce le disuguaglianze sottese alle dinamiche di potere. In alcuni casi, queste opere ricorrono al registro satirico, come fa Gerwig, esprimendo all’interno di una commedia pop un messaggio decisamente critico nei confronti del patriarcato; in altri, si spingono verso toni più cupi, come accade in Blonde, e grotteschi, come nel recentissimo The Substance (2024) di Coralie Fargeat. Il cinema neofemminista può piacere o no, ma ha un grande merito: quello di dare particolare risalto – assieme alle diseguaglianze di genere – alla società che i personaggi abitano e al rapporto che intrattengono con essa. Le protagoniste di questi film si collocano, in un certo senso, nel solco dei grandi personaggi del cinema americano. È un cinema che recupera dalla New Hollywood lo spirito meditabondo e una certa urgenza analitica, seppur con notevoli differenze estetiche, formali, produttive. In un’epoca in cui biopic e i prodotti delle piattaforme sembrano dominare il mercato, il nuovo femminismo cinematografico emerge come una delle poche forze capaci di rispondere a quel vuoto, riaffermando l’importanza di raccontare il presente attraverso le vite degli esclusi, dei fragili e dei ribelli.

Durante la stagione della New Hollywood, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, una meravigliosa generazione di registi — Martin Scorsese, Robert Altman, Francis Ford Coppola, Alan J. Pakula, Hal Ashby — ha eletto, come dicevamo, personaggi emarginati a simbolo di un’America in crisi. Film come Taxi Driver, Un uomo da marciapiede, Cinque pezzi facili o Il laureato (che da questi in parte si discosta, ponendosi come spartiacque tra la vecchia Hollywood e i nuovi autori) mostravano un Paese disilluso, attraversato da tensioni sociali e morali irrisolte. Questi film esprimevano la frustrazione di una generazione che si trovava a fare i conti con il fallimento del Sogno Americano – e, ovviamente, con i propri fallimenti. Oggi, questa eredità sembra raccolta da pochi. L’industria cinematografica, dominata dalle piattaforme di streaming online, sembra tesa più a celebrare miti e vincitori, o a rimestare nel torbido della cronaca nera, trascurando la complessità morale e l’ambizione artistica. L’industria sembra aver sposato logiche produttive che privilegiano il prodotto alla visione autoriale (anche se alcuni grandi autori, tra cui Scorsese e Fincher, hanno lavorato con soddisfazione con le piattaforme di streaming). Tuttavia, alcuni autori contemporanei hanno raccolto l’eredità di quella stagione. Registi ormai non più emergenti come Sean Baker, i fratelli Safdie, e “vecchi leoni” come Martin Scorsese o Paul Schrader, rappresentano un’eccezione. Il loro cinema si ricollega a quella tradizione che usava i perdenti come portatori di uno sguardo critico sull’America.

“L’industria cinematografica, dominata dalle piattaforme di streaming online, sembra tesa più a celebrare miti e vincitori, o a rimestare nel torbido della cronaca nera, trascurando la complessità morale e l’ambizione artistica”.

Sean Baker è forse il regista che più di ogni altro ha saputo portare avanti  quello spirito della New Hollywood. Film come The Florida Project (2017), Red Rocket (2021) e Anora (2024), ultima Palma d’oro al Festival di Cannes, raccontano la periferia americana con uno sguardo crudo e compassionevole. I suoi personaggi, spesso ai margini del sistema economico e sociale, sono osservatori di un sogno che non li include. In The Florida Project la storia di una bambina che vive con la madre in un motel vicino a Disneyworld diventa metafora delle disuguaglianze economiche che segnano l’America contemporanea. I fratelli Safdie, in Good Time (2017) e Uncut Gems (2019), raccontano invece un’America metropolitana fatta di individui che inseguono ciecamente il successo (e la sopravvivenza), ma si trovano intrappolati in un sistema che li consuma. I loro personaggi sono tragici e incapaci di sfuggire alla loro rovina, ma profondamente desiderosi di riscattarsi. E poi c’è Martin Scorsese, che continua a essere un punto di riferimento. The Wolf of Wall Street (2013) e Killers of the Flower Moon (2023) mostrano come egli non abbia mai smesso di interrogare la società in cui vive. The Wolf of Wall Street è il ritratto iperbolico di un “vincitore” che incarna i peggiori eccessi del capitalismo americano. Ma oltre la satira, il film è una spia inquietante di un sentimento pre-trumpiano, di un’America che celebra acriticamente il mito del “self-made man”. In Killers of the Flower Moon, che racconta del genocidio degli indiani Osage, Scorsese torna invece alla Storia americana per riflettere sulla brutalità di un sistema fondato sulla violenza e sull’avidità e su un Paese che non sa fare i conti le proprie radici di oppressione e razzismo. È una storia che, evocando le ingiustizie di ieri, ci ricorda quelle di oggi. Il cinema americano, nei suoi momenti migliori, ha saputo trovare nel racconto delle sue marginalità il modo più efficace per interrogarsi sulla propria identità. Che si tratti dei personaggi alienati della New Hollywood o delle figure fragili e non integrate raccontate dai registi contemporanei, questi personaggi indicano le crepe di una civiltà che mostra una certa stanchezza. Oggi, il racconto dei perdenti è un atto di resistenza in un’America sempre più polarizzata, in cui il sogno di mobilità sociale sembra sempre più lontano e irraggiungibile. In un’epoca dominata dalla celebrazione della perfezione sui social media e dal mito del successo a ogni costo, il cinema dei perdenti ci ricorda che l’umanità sta proprio nelle imperfezioni, nelle contraddizioni, nelle battaglie quotidiane. Raccontare queste storie è un modo per riaffermare l’esistenza di persone comuni, troppo spesso trascurate dal cinema, con desideri, fallimenti alle spalle e sogni infranti. Il cinema dei perdenti, oggi, è una necessità. E finché ci saranno registi disposti a raccontarli, l’America avrà uno specchio in cui guardarsi.

Emiliano Dal Toso

Emiliano Dal Toso è giornalista e critico cinematografico. Collabora con diverse testate scrivendo soprattutto di cinema.

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