Acciacchi, incidenti, operazioni, farmaci, omeopatia, medici: quello che un corpo subisce negli anni ha delle conseguenze a volte inaspettate.
A 17 anni ero un pezzo pregiato, voglio dire ambito dal mercato farmaceutico. Infatti, caso pressoché unico nell’Italia del boom, non avevo assunto neanche una aspirina in vita mia. Figlio di una pediatra omeopata, ero stato coltivato a dosi uniche, arnica e belladonna. Terreno vergine, insomma. I risultati, tutto sommato, erano buoni, a parte il fatto che, per guarire dal morbillo, impiegai più di sei mesi.
Tuttavia, sempre a 17 anni, venni cacciato dall’Eden, e per di più senza compagna. Ho dedicato a queste vicende il mio primo libro in prosa, Nel condominio di carne, quindi non mi soffermerò sui dettagli. Dico soltanto che la mia motocicletta era ferma a un passaggio a livello e venne investita in pieno da una Ford Taunus che procedeva contromano. Il che mi consente di parlare della madre di mia madre, in quanto vedo in lei il tratto distintivo del mio intero destino. Questa da me amatissima signora, ormai ottantenne, era solita accompagnare le sue amiche coetanee nell’annuale viaggio verso Lourdes. La sua, però, era una situazione particolare, in quanto, unica tra tutte le compagne, godeva di ottima salute. Godeva, dicevo, fino al momento in cui, giunta davanti alla famosa scalinata del santuario, scivolò malamente rompendosi una gamba, per poi morire. Ecco, credo che per certi versi sia questo lo stemma araldico in cui riconosco molti dei miei incidenti, ovvero un’inquietante commistione di paradosso e verità: io investito da fermo (quando tutti ti dicono di non correre, “mi raccomando”), lei, al contrario, ferita sul luogo prediletto della salvezza e della salvazione (“liberaci dal male”).
Ahimè, quell’incidente ebbe ripercussioni fatali sul mio rapporto con l’omeopatia. Infatti, a causa di una discussione con il mio medico, mi trasformai in un talebano della farmaceutica hard. Ma la beffa era in agguato. Un giorno, colpito da una colica renale, piombai in un pronto soccorso urlando ed esigendo la precedenza assoluta su tutti gli altri, peraltro agonizzanti. Quando alla fine il medico di guardia mi visitò, pensò bene di consigliarmi qualche cura alternativa, aggiungendo: “Hai mai provato l’omeopatia?” Chiusa questa stagione (cui devo, tra l’altro, la mia prima esperienza cinematografica, come ho spiegato in un libro su Fellini), torniamo alla gestione quotidiana del mio fisico. Miopia, e dunque collirio, terribili verruche contratte in piscina, e dunque punture ustionante-repellenti, tre denti del giudizio inclusi nell’osso mascellare, e dunque anestesia totale. Mi fermo un attimo su quest’ultimo argomento, poiché nell’occasione mi risvegliai, perfettamente immobile, aware, a metà operazione – vedi il poemetto consacrato all’orrore col titolo L’anti-Mazur.
L’awareness, o consapevolezza intraoperatoria, si verifica quando un paziente è cosciente durante un intervento in anestesia generale, senza riuscire a muoversi. La percentuale di eventi del genere è considerata rara, stimata intorno allo 0,1-0,2% o 1 su 19.000 pazienti in anestesia generale”. Beh, qui devo ammettere di aver fatto la mia porca figura: quasi uno su ventimila!
(L’età incipiente e soprattutto incontinente mi induce a una tardiva confessione deontologica: una quarantina d’anni fa, aiutai uno scrittore inedito a pubblicare la sua raccolta presso un’importante casa editrice di cui ero consulente. Pochi mesi dopo, questi stroncò un mio libro, accanendosi in particolare sulle pagine dell’Anti-Mazur. Per certi versi, anche incontrare persone del genere è stata una forma di lunga malattia. To be continued).
Strano, però; io vanto ben 14 operazioni in anestesia generale, e in questo campo mi vedo come un generale russo della seconda guerra mondiale, col petto in fuori piastrellato di medaglie e onorificenze. Tuttavia, ho patito sofferenze talvolta anche maggiori senza ricorrere a una simile protezione. Tra queste, voglio e devo ricordare almeno l’atroce incontro con la piorrea. Riporto dal mio Condominio: “Ma bisognava correre ai ripari, e dovetti affrontare il ricovero. La sua denominazione era leziosa, qualcosa tipo radotage, tricotage, curetage. E tuttavia sapevo che il nome serviva soltanto a mascherare la brutale irruzione delle cesoie. Perché si trattava né più né meno che di potare la vigna purpurea delle mie gengive. Edward mani di forbice fa provviste fra i denti. E via, zic zac, a sfoltire e profilare quei merletti di sangue e filamenti. Ora sì, che le bianche scogliere di Dover si ergono candide per scintillare al sole, le pareti smaltate. Le vedi da lontano, che salutano il viaggiatore. Adieu!”
La dentatura fu suddivisa in otto settori, tra alto e basso, destra e sinistra, dentro e fuori: il margine delle gengive venne ritagliato in quattro lunghe giornate, proprio alla stregua di una campagna militare. Tra l’una e l’altra di queste, un unico dolore ininterrotto, inaudito, io steso a letto al buio per quasi una settimana. Questo per dire come il parametro dell’anestesia generale non sia affatto affidabile. E torno alla spaventosa crisi che accompagnò il mio primo attacco di colica, quando, rinnegando l’omeopatia per la prima volta, mi trasformai in Valerio l’Apostata. Uscii da quelle pene grazie a un dottore che arrivò a suggerirmi l’ingestione di 6 bottiglie d’acqua oligominerale ogni giorno. Anche qui c’è una diramazione di racconti, che si apre a Roma, con una prova generale del direttore d’orchestra Leonard Bernstein.
Andai a teatro invitato all’ultimo momento da un amico, dopo aver già bevuto i soliti due litri mattutini, e confesso che dovetti fuggire dopo l’inizio del secondo tempo, per arrivare rumorosamente a un gabinetto e liberarmi di quell’intollerabile liquido. Ancora: ricordo che poco dopo andai a sciare con due bottiglie di Ferrarelle nello zaino, bottiglie (in vetro) che regolarmente infrangevo. Insomma un Tartarino di Tarascona sulle Dolomiti. Per fortuna, tutto andò per il meglio e finalmente espulsi il calcolo, come poi altri. Non posso però tacere dello sgomento che afferrò il mio oculista, dopo una visita successiva di qualche mese alla liberazione dai materiali litici. Non riusciva a capacitarsi: quale catastrofe si era abbattuta sul fondo della mia retina? Chiedeva, chiedeva, e io niente. Finché mi ricordai dei miei spropositi idraulici, scoprendo che, senza saperlo, avevo sottoposto gli occhi a una pressione terribile. In breve, i due bulbi mi stavano per scoppiare… La cosa mi colpì talmente, che composi una poesia mai pubblicata in raccolta, e che mi fa piacere riproporre:
Storia dell’acqua
L’occhio è un tamburo che sotto la pressione
si tende. È la ranocchia che prova a farsi bue,
mongolfiera, pneumatico, zampogna.
Vista-vescica,
le lenti degli occhiali
cederanno alla spinta dei tuoi flutti,
gli argini smotteranno e straripando
il fiume dello sguardo
spazzerà pietre e immagini
per allagare il mondo.
Siamo in chiusura e non ho ancora detto nulla del mio piede destro. Il mio piede sinistro (My Left Foot. The Story of Christy Brown) è un film del 1989 diretto da Jim Sheridan, che racconta la vita di uno scrittore e pittore irlandese, Christy Brown (interpretato da Daniel Day-Lewis), nato con un handicap fisico molto grave: l’unica parte del corpo che era in grado di controllare era il piede sinistro, e proprio con quello iniziò a scrivere e dipingere. La mia storia, a ogni modo, è completamente diversa. Tutto comincia con la gamba sinistra, che nel corso del tempo va incontro a quattro distinti interventi chirurgici. Uscito dall’ultimo, mi faccio visitare dal mio, ormai amico, ortopedico, che riesce ancora una volta a sbalordirmi (l’occasione precedente fu quando, all’uscita da una operazione particolarmente cruenta, esclamò sorridente: “Questo è il lavoro che più mi piace fare. Macelleria messicana”). Riuscì a sbalordirmi perché mi disse che, se la gamba sinistra era finalmente a posto, ora iniziava il problema vero e proprio, costituito dal mio piede destro. Infatti, dopo un quarantennio di sovraccarico, quel mio pezzo di corpo aveva ceduto definitivamente. Era da buttare. E allora? Allora bisognava procedere prima a un intervento riparativo, poi a uno distruttivo. Non so quale dei due mi spaventasse maggiormente. Ripara, distruggi… Ma non si poteva distruggere direttamente (adoro le scorciatoie)? Sì, però non ne valeva la pena. Nel frattempo avrei usato un austero bastone e soprattutto immani plantari.
Morale della favola, non ho ancora deciso: amputare o non amputare? Ho preso tempo, sono passati due anni, e ho deciso di affidarmi a un giovane fisioterapista, che a forza di esercizi mi ha fatto passare il dolore. Dunque, come il protagonista di Blade Runner che fugge insieme alla sua amata replicante, potrei davvero dire del mio piede: “Non sapevo per quanto tempo saremmo stati insieme. Ma chi è che lo sa?”