Alejandro Zambra
21 Maggio 2024
Alejandro Zambra racconta Juan Emar, scrittore d'avanguardia, ironico e visionario, troppo a lungo dimenticato: "Ieri" è il suo primo romanzo tradotto in Italia, a novant'anni dalla pubblicazione.
In un passaggio del suo diario di gioventù, Juan Emar dice che se fosse nato nell’antica Grecia avrebbe dedicato la sua vita interamente all’arte, in una solitudine perpetua e deliziosa, interrotta soltanto dagli “antipatici Giochi Olimpici”. Si vede già che da sempre sognava una vita consacrata alla creazione, non voleva però essere uno scrittore, o meglio, non voleva comportarsi come uno scrittore, ma dedicarsi all’ozio puro, alla ricerca vera; a captare senza paura il mistero, l’incertezza. Questa vita consacrata all’arte e all’introspezione è quella che cogliamo nel narratore di Ieri, che deambula per la città fittizia di San Agustín de Tango (la Macondo o la Yoknapatawpha di Emar, il cui nome suona abbastanza familiare all’orecchio cileno: San Agustín de Tango) alla ricerca di una “conclusione” o illuminazione che gli sfugge sempre di mano.
All’anagrafe Álvaro Yáñez Bianchi – “Pilo” per gli amici – e poi, negli anni da critico d’arte, Jean Emar, ovvero J’en ai marre, che in francese significa “Sono stufo”, Juan Emar non è stato contemporaneo di Pindaro ma di André Breton e non è nato nel Paese di Omero ma in quello di Vicente Huidobro e di Pablo Neruda, per citare due poeti nemici tra di loro che furono suoi amici, soprattutto Huidobro, al quale tuttavia si attribuisce questa frase amichevole come una pugnalata alle spalle: “Pilo scrive con i piedi”. Neruda, invece, nel 1970 scrisse un generoso prologo farcito di elogi che iniziava così: “Ho conosciuto intimamente Juan Emar senza conoscerlo mai. Lui ha avuto grandi amici che non furono mai suoi amici”.
Juan Emar ha pubblicato poco, tardi e in maniera strana: nel giugno 1935, all’età di quarantuno anni, autopubblica tutto d’un colpo tre romanzi geniali (Miltín 1934, Un año e Ieri, probabilmente il migliore dei tre) e quasi subito dopo, nel 1937, Editorial Universitaria pubblica Diez, che per me è uno dei migliori libri di racconti della letteratura ispano-americana, anche se lo dico dal Cile e dal futuro, certo, perché nel presente di Emar il libro trovò appena qualche lettore; fu una batosta poco più decorosa di quella ricevuta per i suoi romanzi, assoluti fallimenti di critica e pubblico.
Oggi appare enigmatico che un aristocratico e milionario, figlio di un direttore di giornale ed ex senatore, abbia fallito in una maniera così eclatante, senza riscuotere nemmeno il pietoso riconoscimento di qualche influente aggancio. Una spiegazione ovvia ma insufficiente potrebbe ritrovarsi nell’intransigenza da acerrimo avanguardista che ha contraddistinto Emar, così come non lo ha sicuramente aiutato la sua avversione nei confronti della critica letteraria, o meglio nei confronti dei critici letterari, che lo ha portato a inserire, per esempio, nel suo romanzo Miltín 1934, un’invettiva contro Alone, il critico che avrebbe potuto elevarlo al cospetto dell’opinione pubblica (Alone, sì, era questo lo pseudonimo di Hernán Díaz Arrieta, l’arbitro dei costumi della letteratura cilena, romanzato poi in modo spiritoso da Bolaño in Notturno cileno con lo pseudonimo di Farewell). Il suo disdegno per i critici era leggendario (“Non voglio sentire i commenti di critici e ancora critici, non voglio sapere l’opinione di esseri che fanno di ciò che leggono una professione per guadagnarsi da vivere”) e si estendeva anche al mondo dell’arte. Infatti, nei suoi testi sull’arte, Emar era solito scagliarsi contro buona parte dei suoi colleghi (ricordo una scena molto divertente in cui cita il caso di un critico sprofondato nell’angoscia perché era incapace di discernere se i frutti che aveva visto in una natura morta fossero mele o prugne).
“Juan Emar ha pubblicato poco, tardi e in maniera strana: nel giugno 1935, all’età di quarantuno anni, autopubblica tutto d’un colpo tre romanzi geniali”.
Forse i libri che ha pubblicato in vita sono stati i Giochi Olimpici di Juan Emar, ai quali ha promesso di non gareggiare mai più in futuro, di non pubblicare nient’altro e trasformando la non pubblicazione in una specie di missione o religione (“Il mio rifugio consisteva nel non pubblicare, no, non pubblicare mai più finché altri, che io non avessi conosciuto, mi avrebbero pubblicato seduti sui gradini della mia tomba”). È chiaro: non voleva essere scrittore ma scrivere e questo è quello che ha fatto durante gli ultimi vent’anni della sua vita, che ha dedicato interamente a Umbral, il suo più grande progetto.
“Continuo a scrivere tutti i giorni” dice in una lettera del 1959. “Vado già per la pagina 3332. Quando verrà pubblicato offrirà un’enormità di tomi. Quando? Dopo la mia morte!!”. Il manoscritto arrivò a superare le cinquemila pagine e, conformemente alla sua volontà, il primo tomo di Umbral è apparso postumo, nel 1971, per la casa editrice argentina Carlos Lohlé. Successivamente, nel 1996, trentadue anni dopo la morte di Emar, la sua monumentale opera è stata finalmente pubblicata in versione integrale, cinque tomi che raccolgono un totale di 4135 fitte pagine (che con caratteri di dimensione normale avrebbero potuto raggiungere facilmente le seimila o settemila).
Non è questo, tuttavia, un biopic hollywoodiano e nemmeno una miniserie di Netflix. O forse sì, ma non è ancora finita, siamo appena a metà: a tuttora è quasi assurdo oggigiorno presentare Emar come uno scrittore dimenticato, perché la sua opera non è mai stata, per così dire, sufficientemente ricordata. Nonostante diverse tonnellate di tesi di dottorato e l’attuale possibilità di accedere liberamente alle versioni digitali dei suoi libri (la Biblioteca Nazionale del Cile ha caricato quasi integralmente la sua opera su alcuni appannati ma gratuiti file pdf), Juan Emar è ancora lontano dall’occupare il posto che merita nella letteratura cilena e la faccenda è ancora più grave nel panorama ispano-americano, poiché nonostante sia stato pubblicato in Argentina e in Spagna, la sua opera è ancora un fenomeno o un epifenomeno fondamentalmente cileno, il che aggiunge un velo di ironia alla sua vicenda, visto che sono pochi gli scrittori appartenenti alla letteratura cilena con una formazione internazionale come quella di Juan Emar, il quale, solo per fare un esempio, ha conosciuto per filo e per segno e in prima persona le avanguardie francesi del Ventesimo secolo.
Sono già in molti, tuttavia, i lettori cresciuti leggendolo e ammirandolo. La prima volta che ho letto El pájaro verde (‘L’uccello verde’), il più conosciuto dei suoi racconti, avevo quattordici anni e non riuscivo più a smettere di ridere, ma è stato quando sono arrivato all’università che ho cominciato a leggerlo sul serio ed è nato il mio amore per lui, anche se dovrei parlare piuttosto di poliamore, perché eravamo sei o sette gli innamorati di Juan Emar, e del fatto inaspettato che lo stavamo scoprendo tutti insieme, ogni venerdì, nelle lunghe e intense lezioni di un professore di poco meno giovane di noi che amava Emar con ampia e ragionata follia.
Quella di Emar era, ovviamente, un’avanguardia antica, tradizionale e così, in parte, noi la leggevamo, ma nonostante la sua fedeltà ai procedimenti, ai trucchi e ai lemmi avanguardisti, non si spiegava allora e non spiega oggi il nostro amore per la sua opera, che non ci suonava antica ma rabbiosa e precocemente contemporanea, come forse lo stesso Emar sperava o supponeva, a giudicare dalle costanti e amare riflessioni sulla posterità e la fama letteraria presenti, per esempio, in Miltín 1934 (“Perché dare tanta importanza agli uomini degli anni 2000 e successivi? E se si rivelano un branco di cretini?”).
Chi è cresciuto copiando e incollando frammenti di testo al computer, ha assimilato con naturalezza l’uso del montaggio come procedimento compositivo; la bella e famosa definizione di bellezza di Lautréamont (“L’incontro fortuito sopra un tavolo di anatomia fra una macchina per cucire e un ombrello”) è, per noi, un’eredità avanguardista che ha formato e deformato la nostra idea di classico. È probabile, quindi, leggere le prime pagine di Ieri piuttosto in chiave “realista” ovvero come una denuncia parodica del conservatorismo nazionale, disgraziatamente così tanto familiare ai cileni. Forse è il suo indescrivibile senso dell’umorismo ciò che più attrae di Emar, un’ironia perfettamente riconoscibile, sebbene, come accade con tutti i grandi umoristi, spesso si finisca per ignorare quando tali autori parlino seriamente o per scherzo. In questo senso, Emar sta alla prosa come Nicanor Parra sta alla poesia cilena e forse la combinazione delle sue influenze spiega molte particolarità della nostra così spesso antiletteraria letteratura.
Nel suo prologo del 1970, Neruda paragona un po’ avventatamente Emar a Kafka, generando un blurb istantaneo e in qualche modo ingiusto, perché Emar non era il Kafka cileno, così come Neruda non era il Whitman cileno. I cileni della mia età hanno avuto la fortuna di leggere Emar senza la necessità di ricorrere a questi paragoni, nonostante ricordi una lezione nella quale ci siamo trovati a valutare se Emar fosse superiore a Cortázar, il quale, allora, a metà degli anni Novanta, era lo scrittore per eccellenza, il paradigma del superscrittore, apprezzato sia dagli esteti che dai concettualisti, dai vitalisti come dagli speculativi. Non siamo arrivati a nessuna conclusione, ma ricordo che qualcuno – non il professore, che quel pomeriggio si comportava con insolita cautela, limitandosi a godersi in relativo silenzio il suo trionfo, perché nel giro di poche settimane era riuscito a trasformarci in fanatici di Juan Emar – affermò che in futuro nessuno avrebbe letto Cortázar e che invece l’opera di Emar sarebbe stata posta al centro del canone letterario e noi tutti eravamo più o meno d’accordo.
Era un’idea temeraria e ovviamente nazionalista (o antiargentina, cosa che nel mio Paese a volte ha lo stesso significato), oltre che stupida, perché non c’era nessuna necessità di far competere fra loro i due scrittori che più adoravamo. Ma erano gli anni Novanta, un periodo terribile in cui per lo meno potevamo concederci il lusso di atteggiarci a Harold Bloom nelle discussioni che di solito finivano in scoppi di risate lisergiche.
Il visionario Juan Emar, senza dubbio, scriveva per i lettori del futuro ed è tanto arrogante quanto emozionante immaginare che quei lettori siamo noi, nati quindici o venti anni dopo la sua morte, in un Paese molto diverso e per certi sensi peggiore di quello che lui ha conosciuto. Forse però non siamo noi i suoi destinatari. Rileggendo, per esempio, alcuni passaggi di Umbral o l’allucinante, allucinato e affascinante finale “quantistico” di Ieri, ho l’impressione che Juan Emar non scrivesse nemmeno per noi. Sì: possiamo leggerlo e godercelo, credere di capirlo, ma in fondo sappiamo che i suoi libri verranno più e meglio letti, apprezzati e compresi dai lettori di un futuro che ancora non è arrivato.
Ringraziamo l’editore Safarà per questo estratto che viene da Ieri di Juan Emar tradotto da Bruno Arpaia (Safarà, 2024).
Alejandro Zambra
Alejandro Zambra è poeta e scrittore. Il suo ultimo libro è Messaggio per mio figlio (Sellerio, 2024).
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