Paolo Massari
Americano, un po’ faulkneriano e un po’ salingeriano, pubblicato da Adelphi: “L’ultima cosa bella sulla faccia della terra” ha tutto per diventare un caso editoriale. Un’intervista per conoscere meglio il suo autore, Michael Bible.
L’ultima cosa bella sulla faccia della terra è in libreria solo da qualche settimana ma ha conquistato fin da subito l’attenzione di lettori e librai. Poco si sa del suo autore, Michael Bible, e forse anche questo elemento – oltre alla fiducia in Adelphi – contribuisce alla sua attrattività. E di certo è seducente, di fronte alla mole di titoli e proposte, l’idea stessa di poter scoprire un nuovo scrittore, su cui neanche Google sembra capace di svelare troppo – tanto che, digitando Michael Bible, si instilla (erroneamente) il dubbio: Forse cercavi: Michael Bublé.
È ragionevole pensare che presto anche il motore di ricerca si adeguerà, capendo che Bible non è un errore di battitura per Bublé, ma il nome a cui corrisponde un possibile nuovo fenomeno editoriale.
Faulkner, O’Connor, Salinger, Banks: sono gli ascendenti letterari illustri attribuiti a questo romanzo dai suoi primi lettori, anche sui social. Un esercizio suggestivo, non sempre utile di per sé, che però rappresenta anche un segnale: Bible ha una voce, una sua voce, personalissima, rispetto alla quale, a momenti, sembra di scorgere modelli e punti di riferimento.
La moltiplicazione dei punti di vista; la scelta della brevità come strada per dare un respiro più intenso al romanzo; l’importanza del tempo, vero protagonista, più o meno occulto, di tutte le storie. E ancora: ciò che da una storia resta fuori, e che può essere importante come quello che invece rimane. L’ambiguità, come modo di stare al mondo. Sono solo alcune delle suggestioni nate da una conversazione con lo scrittore americano, impegnato proprio in questi giorni in un tour in Italia con cui ha fatto tappa a Pordenone, Milano e Torino.
L’ultima cosa bella sulla faccia della terra è un romanzo polifonico, composto da varie tessere che però hanno tutte lo stesso centro: la storia – terribile – del giovane Iggy, che ha dato fuoco a una chiesa, ucciso diverse persone, e si è salvato solo per aver capito, nel momento estremo, di voler continuare a vivere: brevi romanzi nel romanzo in cui voci diverse prendono la parola da altri tempi e luoghi, esplicitati nei titoli. Da dove proviene l’esigenza di moltiplicare l’orizzonte della narrazione, i punti di vista?
Volevo esplorare varie angolazioni e livelli della stessa tragedia. Come l’hanno vissuta i diversi personaggi, ma anche come è stata percepita nel tempo. Sia a livello, per così dire, civico, sia a livello personale. L’interno e l’esterno. Molti scrittori che in inglese chiamiamo High modernists, come William Faulkner e Virginia Woolf, hanno sviluppato nei loro romanzi queste prospettive mutevoli. Nel cinema si cita spesso Rashomon, ma più di recente registi come Hong Sang-soo hanno esplorato strutture simili con una complessità ancora maggiore.
Nel tuo libro la Costante è la definizione di uno stato d’animo allo stesso tempo transitorio e permanente, di sospensione e angoscia, che anima alcuni dei personaggi chiave. Iggy, nelle ultime ore prima della condanna a morte, si esprime così: “Alla base di tutto c’era la Costante. Il tempo e la migliore amica del tempo, la transitorietà”. Tra una tessera e l’altra del romanzo, quanto pesa il tempo?
C’è una poesia di un grande scrittore del Sud, Robert Penn Warren, che dice così: “Raccontami una storia. In questo secolo e momento di mania, raccontami una storia. Che sia una storia di grandi distanze e di luce stellare. Il nome della storia sarà Tempo, ma non devi pronunciare il suo nome. Raccontami una storia di profonda gioia”. In un certo senso, il tempo è il soggetto segreto di tutte le storie.
È anche un romanzo fatto di rapporti umani che si saldano con naturalezza attraverso il viaggio, il sesso, a volte la droga. Eppure, anche il triangolo erotico-amoroso che sembra unire Iggy, Cleo e Paul a un certo punto si dissolve. Perché?
Mi interessava capire come il tempo agisce su di noi. Come ci cambia ma per altri versi ci lascia immutati. L’amore e il dolore sono simili in quanto entrambi transitori. Crescono e si modificano con il passare del tempo. A volte diventano più profondi, altre volte finiscono.
Nel romanzo figurano anche personaggi minori che però restano impressi con i loro usi e i loro tic. C’è chi si rifugia nel complotto, chi nella tecnologia, chi addirittura suona al posto di parlare. Si arriva a evocare proprio “una comunità di persone che cercavano riparo dalla realtà”. È la realtà che è scadente o sono gli strumenti con cui la guardiamo a essere inadeguati?
Cerco di non dare giudizi su nulla. Mi affascina l’ambiguità. La parola “ambiguità”, in inglese, ha due significati. Uno è inesattezza. Una cosa può essere ambigua se è contorta o poco chiara. Ma ambiguità, soprattutto quando si parla di letteratura, significa avere una molteplicità di significati. Per me la realtà si sposta continuamente intorno a noi. I nostri sensi ci mentono. I nostri occhi non possono percepire veramente la realtà, ma la nostra mente crea delle inferenze, riempie i vuoti. Non esiste un significato fisso di nulla.
L’ultima cosa bella sulla faccia della terra è un romanzo dal respiro ampio e dal ritmo serrato: un atto di amore e di fiducia nei confronti della letteratura, che non risente di nessun contemporaneismo, non ammicca mai. Scelte letterarie tanto precise, come pesano, se pesano, nel contesto di oggi? Qual è l’immagine che ti ha spinto a scrivere questa storia?
Amo i romanzi brevi. Un grande romanzo breve può creare uno stato d’animo e un’eco che nessun lungo romanzo door stop può creare. A questo proposito guardo a Samuel Beckett. Ciò che si lascia fuori da una storia può essere importante quanto ciò che si decide di tenere dentro. Inoltre, mi piacciono i romanzi che si possono leggere in uno o due momenti. Può essere di grande impatto quando si legge qualcosa tutto in una volta invece che in un lungo periodo di tempo. Per me anche quei romanzi hanno il loro posto, naturalmente, ed è comunque un’esperienza che mi piace, da lettore. Preferisco, però, quando qualcosa di breve mi cattura e continuo a pensarci anche dopo aver finito. Un po’ come una buona poesia che, come si dice nel Sud, “ti si attacca alle costole”.
Qual è il tuo orizzonte di attesa, come autore, nei confronti dell’esistenza o meno di un pubblico di lettori?
Non ho aspettative particolari su come reagiranno i lettori al di là di un piccolo gruppo di amici.
Spesso penso a un amico in particolare, il mio amico Jimmy. Se scrivo qualcosa mi domando: “Piacerebbe a Jimmy?”
Se la risposta è sì, allora sento di aver fatto il mio lavoro.
Per i lettori italiani che in questi giorni stanno accogliendo con così tanto entusiasmo il romanzo, pubblicato nel catalogo Adelphi: quali sono i cinque libri che hanno fatto la differenza nella vita di lettore di Michael Bible?
Aspettando Godot di Samuel Beckett
Il cuore è un cacciatore solitario di Carson McCullers
Palme selvagge di William Faulkner
Ray di Barry Hannah
Il giovane Holden di JD Salinger
Paolo Massari
Paolo Massari ha un dottorato in italianistica. Il suo primo romanzo, Tua figlia Anita, è in uscita (Nutrimenti, 2023).
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