In difesa del doppiaggio - Lucy
articolo

Valerio Magrelli

In difesa del doppiaggio

Se il doppiaggio è molto vituperato dai cinefili più giovani, i sottotitoli sono intollerabili agli spettatori più anziani. Ma al di là delle preferenze generazionali, anche i sottotitoli hanno molti svantaggi.

“Doppiare, o non doppiare, questo è il dilemma. Nel corso di un film, è forse più nobile sopportare i sottotitoli composti dall’esperto traduttore, oppure conservare la propria lingua contro il mare degli scrupoli, e combattendo contro di essi spazzarli via con un coraggioso doppiaggio?” Credo che neanche Amleto avrebbe saputo risolvere un problema tanto amletico: come guardare una pellicola straniera? Per meglio dire, è preferibile affidarsi ai sottotitoli o doppiarla?

Cominciamo col dire che si tratta di un problema enormemente vasto, che investe l’estetica e l’economia, il cinema e il teatro, nonché la lirica (basti dire che le opere di Wagner furono spesso tradotte e rappresentate in italiano). Ormai da anni molte università erogano corsi di specializzazione e master vuoi per Traduzione e adattamento delle opere audiovisive e multimediali per il doppiaggio e il sottotitolaggio, vuoi per Uso del testo filmico nella didattica della traduzione. Come se non ci fosse abbastanza carne al fuoco, l’arrivo dell’IA ha poi ulteriormente complicato le cose, minacciando di sostituirsi al ruolo dei doppiatori. Davanti a studi tanto numerosi e approfonditi, mi limiterò a qualche osservazione,  nata da un saggio intitolato La Parola braccata (Il mulino, 2018) e prima ancora da un antico lavoro di sottotitolaggio (Uccellacci e uccellini di Pasolini in francese).

Quasi cinquanta anni fa, il Fondo Pasolini di Roma mi invitò a correggere i sottotitoli francesi di questo film. Accolsi la proposta senza immaginare quanto un’esperienza del genere si sarebbe rivelata utile per la mia attività di traduttore. Data l’assoluta ignoranza in materia, venni affidato a un esperto del settore, Olindo Caramazza. A dire il vero, non ho più trovato traccia del suo nome, ma dubito che un mese e passa di lavoro in coppia fosse soltanto frutto delle mie allucinazioni. In ogni caso, se ho rievocato l’avventura, fu perché mai come in quel caso toccai con mano cosa effettivamente significasse organizzare il testo tradotto in base a un ristretto numero di priorità, ossia alla “dominante” cui parla la critica. Indubbiamente è raro imbattersi in un testo tale da esigere un impegno come quello richiesto da un’opera di Pasolini, insieme regista e poeta. Non per niente l’autore, autentica eccezione culturale nel panorama cinematografico del Novecento, nasceva come poligrafo: lirico, sì (e in una lingua originariamente “altra” dall’italiano, come il friulano), ma anche critico, narratore, drammaturgo. Difficile insomma immaginare un regista che, per quanto legato alle immagini, abbia impresso alla parola un peso maggiore.

Potremmo dire insomma che poche volte la sfida traduttoria dei sottotitoli è apparsa con tanta chiarezza. Avendo purtroppo perduto i materiali della lavorazione, non potrò riportare alcun esempio. Il succo del discorso, comunque, sta nel fatto che il compito affidato alla nostra strana coppia non consisteva nel predisporre dei sottotitoli, bensì nel ritoccare quelli già esistenti. Mentre mi apprestavo a indossare i panni del maestro dalla penna rossa e blu, mi accorsi però che la questione era assai più complessa. Davanti alla versione francese di Uccellacci e uccellini, che la mia committenza aveva evidentemente ritenuto difettosa, non si trattava tanto di intervenire sulla correttezza della traduzione (che non presentava particolari errori), quanto sulla sua pertinenza.

“Cominciamo col dire che si tratta di un problema enormemente vasto, che investe l’estetica e l’economia, il cinema e il teatro, nonché la lirica (basti dire che le opere di Wagner furono spesso tradotte e rappresentate in italiano)”.

E qui tocchiamo il vivo del problema. La vera mansione era un’altra: avrei piuttosto dovuto valutare i sottotitoli in base alla loro capacità di selezionare le principali unità di informazione presenti nell’originale. Non si trattava cioè di migliorare la traduzione, quanto di incrementarne la densità comunicativa. Il tutto, in base a un criterio che andavo scoprendo man mano: la durata temporale e la lunghezza alfabetica dei sottotitoli. Capii allora che mi ero imbattuto un nuovo tipo di metrica, da me ribattezzata “crono-metrica”. Fu infatti necessario, proprio come accade nella versificazione, misurare le unità di una frase, ma misurarle inoltre, eccoci al punto, in relazione alla durata della sequenza filmica. Entrava dunque in gioco un ulteriore ed esigentissimo requisito di cui tenere conto: il tempo di lettura dello spettatore medio.

Ma chiudo questa lunga parentesi per tornare al confronto tra sottotitoli e doppiaggio.

Oggi i sottotitoli stanno ampliando il loro raggio d’azione. I giovani, ormai, seguono sempre più spesso film e serie tv in lingua originale, mentre le sale cinematografiche superstiti alla Pandemia danno maggiore spazio a questo tipo di pratica, un tempo assai poco diffusa. La controprova sta nell’accanita resistenza opposta dal pubblico più maturo: ho amici settantenni che non accetterebbero mai di vedere un film senza doppiaggio. A titolo di pura curiosità, riporto l’opinione di un anziano che si rifiuta di guardare film asiatici sottotitolati, come se la distanza linguistica modificasse l’incidenza della sfera acustica. “Ma scusa”, ho ribattuto, “vorresti forse dirmi che riesci a capire anche una sola sillaba pronunciata in un film inglese?” Questa però è un’altra storia.

Proseguendo nel nostro discorso, forte è la tentazione di affermare che il doppiaggio (pur nella sua illustre tradizione italiana di lontana ascendenza fascista) risulterebbe meno rigoroso e perciò da rifiutare in blocco. Mi piacerebbe sostenerlo, e tuttavia, da un punto di vista strettamente teorico, la cosa non risulta accettabile. Lo prova un celebre aneddoto centrato su Stanley Kubrick – non sono certo di questo remoto ricordo, ma se non fosse veritiero, me ne scuso in anticipo. In breve, mi risulta che il grande regista fosse invitato, nel 1997, a presentare una sua ampia retrospettiva a Venezia, e che il suo ospite precisasse, come cosa ovvia, che naturalmente tutte le pellicole sarebbero state sottotitolate. “Allora non se ne parla nemmeno”, avrebbe risposto Kubrick: “Dopo tutta la fatica impiegata per curare le immagini, non voglio certo un pubblico che si concentri tutto sulla scrittura”. Al che gli organizzatori provvidero a recuperare tutte le copie doppiate.

Ebbene, se custodisco con tanto zelo un racconto probabilmente sognato, è perché molti anni dopo visitai una mostra su Kubrick al Palaexpo di Roma, rimanendo stupefatto davanti ad alcune fotografie prese sul set di Spartacus. Illustravano un campo di battaglia con centinaia di morti sparpagliati lungo le colline, ognuno dei quali aveva un numero che lo contraddistingueva. In tal modo, il demiurgo poteva collocarlo a suo piacimento, come un macchiaiolo con le sue singole macchie di colore. 

Raramente mi sono imbattuto in una simile ossessione visiva. Certo, si potrebbe dire che ogni regista è, per definizione, caratterizzato da una comprensione ottica del mondo. Eppure l’assunto non è del tutto vero. Infatti, a differenza di altri per cui prevale la trama, il mondo psicologico, l’atmosfera narrativa, gli autori come Kubrick si consacrano alla resa visiva, e pertanto è lecito credere che considerino il sottotitolo alla pari di uno sfregio, di un taglio, di una lacerazione impressa nel vivo di un’opera essenzialmente scopica.

Così, nel secolare dibattito tra doppiaggio e sottotitoli, la soluzione è semplicemente impossibile, in quanto si tratta di optare tra l’immagine e il suono. Viene da pensare al mito di Ercole al bivio, con l’eroe costretto a scegliere tra due strade che si biforcano. Così torniamo al dilemma di Amleto: cosa vogliamo seguire, e cosa invece trascurare? L’ideale sarebbe vedere ogni film per due volte, la prima doppiato, la seconda sottotitolato, ma dubito che il procedimento incontrerebbe il favore del  pubblico.

C’è inoltre da precisare che la tecnologia sta modificando il rapporto tra le due tecniche. Basta digitare in rete “sottotitoli” per scoprire ad esempio che: “Ora puoi aggiungere i sottotitoli al tuo video in tre modi diversi: 1. Puoi digitarli manualmente 2. Puoi generare automaticamente i sottotitoli (usando il nostro software di riconoscimento vocale) 3. Puoi caricare un file e aggiungerlo al tuo video. Qualunque opzione tu scelga, sarai quindi in grado di apportare facilmente modifiche ai tuoi sottotitoli. Puoi modificare la tempistica dei sottotitoli, cambiare il colore, il carattere e la dimensione dei sottotitoli, apportare modifiche al testo dei sottotitoli stessi”. 

Quanto all’altra strada, sempre su internet una qualsiasi azienda ci spiega: “Nel doppiaggio automatico […] non tutti i video possono essere doppiati correttamente o in modo accurato. Al momento, il tono e l’emozione dell’audio originale non vengono trasferiti ai doppiaggi; pertanto, la funzionalità opera meglio sui contenuti che non si basano sull’espressività. Poiché le versioni doppiate vengono generate automaticamente, potrebbero contenere imprecisioni dovute a errori di pronuncia, accenti, dialetti o rumori di sottofondo nel video originale. Potremmo anche avere difficoltà a tradurre nomi propri, modi di dire ed espressioni gergali. Si potrebbero inoltre verificare problemi con il riconoscimento vocale, ad esempio la sincronizzazione tra la voce originale e quella del doppiaggio. Tu o una persona che parla la lingua di destinazione potete rivedere le versioni doppiate prima della pubblicazione”.

Ma torniamo alla sottotitolazione. In questo caso, il professionista deve tenere conto dei tre “ritmi” che, secondo alcuni studiosi, caratterizzerebbero tale procedimento: ritmo visivo del film (definito dai tagli del regista), ritmo del discorso degli attori e infine ritmo di lettura del pubblico (dato che il materiale di partenza, e quindi i punti in cui gli interpreti aprono e chiudono la bocca per pronunciare i dialoghi, resta lo stesso). Attenzione però: tutto ciò riguarda solo il versante linguistico del problema, cui occorre aggiungere la questione strettamente visiva. Già nel 1982 Lucien Marleau ha difatti segnalato che le brusche, frequenti apparizioni e sparizioni delle iscrizioni luminose fanno subire all’occhio una lunga serie di microtraumi. Poiché la media di un lungometraggio era allora di circa 900 sottotitoli, “un film di due ore, ossia di 7.200 secondi, assesta allo spettatore uno choc visivo ogni 3 secondi circa”. È a questo autentico bombardamento ottico che siamo sottoposti, se vogliamo ascoltare la voce originale degli attori stranieri…

Stranieri, ma non solo. Riprendendo il tema del doppiaggio, tra gli esempi più assurdi troviamo Domenica d’agosto, un bel film del 1950 diretto da Luciano Emmer. Al suo primo vero ruolo cinematografico, Marcello Mastroianni venne doppiato da Alberto Sordi! Quanto alle sviste dei sottotitoli, mi limito a segnalarne una che ho scoperto la settimana scorsa guardando la serie Succession, stagione 3, episodio 6, minuto 35’49: l’attrice dice, in inglese, “Berlusconi” mentre il sottotitolo recita “belarusian”, ossia “bielorusso”. Non male.

Resta comunque una questione pressante: presso il pubblico che pure, lo si è detto, ne fruisce sempre più ampiamente, il sottotitolaggio viene ancora recepito in forma passiva. Lo dimostra quella deprecabile “invisibilità” cui ancora oggi il sottotitolatore è condannato, assai più che non il suo collega letterario. Proprio per contrastare e contestare tale situazione, Markus Nornes, negli anni Novanta, lanciò un progetto di sabotaggio dell’industria culturale. Rifacendosi a uno studio di Philip E. Lewis a sua volta ispirato a Jacques Derrida, egli propose la realizzazione di “sottotitoli abusivi”, consistenti in una serie di manomissioni testuali e grafiche grazie alle quali strappare la traduzione dalla sua posizione di oscurità, rivelando il sostrato ideologico del suo impiego. Rimasi folgorato dalla sua parola d’ordine: “Tutti i sottotitoli sono corrotti” (me ne occupai in un saggio intitolato La Parola braccata, Il mulino, 2018).

“Così, nel secolare dibattito tra doppiaggio e sottotitoli, la soluzione è semplicemente impossibile, in quanto si tratta di optare tra l’immagine e il suono. Viene da pensare al mito di ‘Ercole al bivio’, con l’eroe costretto a scegliere tra due strade che si biforcano”.

Ma come esercitare, sul piano operativo, interventi del genere? Forse è semplicemente impossibile, ha risposto Kathleen Davis. Oltre che al decostruzionismo di Derrida, sarebbe allora opportuno rifarsi al situazionismo di Guy Debord, se è vero che il suo concetto di détournement intendeva appunto intralciare certi alienanti e dispotici meccanismi legati alla comunicazione di massa. L’esempio più immediato potrebbe essere rappresentato dal personaggio di un fumetto che pronunci discorsi sulla lotta di classe, o da inserti pubblicitari che contengano analisi contro il consumismo. Così contraffatti, alterati, straniati, i testi o le immagini produrrebbero un violento scarto di senso, svelando la vera natura politica di quanto Debord intendeva con “società dello spettacolo” e Nornes condannava come mercato capitalista.

Benché difficilmente praticabile, la tecnica dei “sottotitoli abusivi” servirebbe comunque a rendere gli spettatori coscienti della logica che governa dispositivi solo apparentemente neutri. Il che, per quanto datato, resta un progetto critico di rara intelligenza, per certi versi apparentabile alla pratica del found footage. Rispetto a questa prassi cinematografica, videografica e artistica di appropriazione, rielaborazione e ri-montaggio di immagini preesistenti, Nornes invita a manomettere il materiale scritto che talvolta scorre sulla superficie della pellicola. Le strade del boicottaggio sono infinite.

Valerio Magrelli

Valerio Magrelli è poeta, scrittore, francesista, traduttore e critico letterario. Il suo ultimo libro Exfanzia (Einaudi, 2022).

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