La boxe a Cuba è una cosa seria - Lucy
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Valerio Corzani

La boxe a Cuba è una cosa seria

A Cuba, la boxe è molto più di uno sport: è una parte fondamentale dell’identità del paese. Un viaggio nelle palestre dell’Avana, tra palazzi fatiscenti, Hemingway e giovani promesse (anche femminili).

“Vivere all’Avana è come vivere dentro un teatro, con molte persone che ci abitano e stanno sempre in scena”, dice Pedro Juan Gutierréz, autore della Trilogia sporca de l’Avana

Siamo nel suo bell’appartamento affacciato sul Malecon, all’ottavo piano di un edificio piuttosto malconcio, tanto che al momento di congedarci si raccomanderà di fare le scale: “l’ascensore non è sicuro”. Dalla sua terrazza, però, il colpo d’occhio è magnifico: da una parte l’oceano, dall’altra la città e sotto, molti piani sotto, San Lázaro, uno dei quartieri più difficili della città.

È anche questo forse il “teatro” a cui fa riferimento Gutierréz nelle sue pagine: un teatro che coincide con la vita, perché le rovine dell’Avana sono vive e non permettono il lusso della malinconia.

E sono alcune delle parole chiave della sua letteratura – vita, teatro, appunto, e corpo – che useremo come sestante, per andare a scovare una delle piccole utopie che “sopravvivono” in questa strana città.

La boxe a Cuba è una cosa seria - Pedro Juan Gutierréz ritratto nella sua terrazza.

Pedro Juan Gutierréz ritratto nella sua terrazza.

Una capitale piena di macerie, di palazzi diruti che stanno in piedi per miracolo, e che pure concede ad alcune comunità l’occasione di trovare un senso, giorno dopo giorno. Andiamo a conoscerne una che ha a che fare con una materia “povera” di mezzi: muscoli, testa, desideri, sogni e un’infinita determinazione di andarseli a prendere, questi sogni.

“Boxeo de Amor” è un bolero di Juan Arrondo interpretato da uno dei maestri della musica romantica, il cubano Ñico Membiela, nel 1958. In questo bolero la metafora dell’incontro erotico, paragonato a un incontro di boxe, viene cadenzata dall’unico riferimento sonoro che poteva essere attinto dall’immaginario del ring: la campana che avvia il round.

Una sezione fiati portentosa, la voce melliflua di Membiela e un testo che si svolge sul conteggio dei dieci secondi necessari a un pugile per evitare il knock out. È solo una canzone, certo, ma alcune canzoni raccontano di legami strettissimi. In questa, quello tra la gente di Cuba e la boxe. Perché a Cuba il pugilato è una cosa seria.

Lo schiamazzo di una quindicina di ragazzini e ragazzine si placa appena René Pedroso fa un cenno. “Questa palestra è attiva dal 1938. Di qui sono passati campioni olimpionici, campioni del mondo, campioni centroamericani, panamericani. Tutte le squadre cubane più importanti hanno saltellato e si sono battute su questo ring”. René Pedroso, allenatore ed ex pugile professionista, ora ha 59 anni, ma è entrato in questa palestra quando ne aveva 14. 

“La mia vita è qui”, dice. Pedroso chiacchiera volentieri, si vede che ci tiene ai suoi ragazzi. “Sono stato un pugile della nazionale dal 1979 al 1992. E anch’io ho cominciato sudando in questa palestra”. Lo dice con un moto d’orgoglio e ne ha ben donde perché non solo la storia della boxe, ma dell’intero movimento sportivo nell’isola, nasce in questo luogo: la palestra Rafael Trejo, fondata a fine anni Trenta nel quartiere di Habana Vieja. 

Non è semplice scovare un posto del genere. La struttura cade in rovina e, se non sai che c’è, non dà nell’occhio: un’arena all’aperto incastonata al centro di un cortile con sedute sui due lati, il tutto pressato tra un paio di condomini a tre livelli con finestre che danno sull’area di allenamento. La palestra ha solo un piccolo ingresso, due murales con vecchie foto e un piccolo ufficio buio. Subito dopo aver passato la reception c’è il ring.

“Le rovine dell’Avana sono vive e non permettono il lusso della malinconia”.

Un ring che fa effetto, perché ci si sono allenati tutti i maggiori campioni cubani: Mario Kindelán, Félix Savón e Teófilo Stevenson. Quest’ultimo nel 1976 vinse il suo secondo oro ai Giochi di Montreal. A quel punto lo si poteva già considerare un eroe nazionale a Cuba: quello del resto fu anche il momento in cui Stevenson andò più vicino a firmare un contratto da professionista.

I promoter statunitensi gli offrirono cinque milioni di dollari per sfidare il campione mondiale dei pesi massimi Muhammad Ali nella sua prima esibizione da professionista, il che lo avrebbe reso il secondo pugile a passare dalle Olimpiadi al debutto da professionista, con in palio la corona mondiale dei massimi, dopo Pete Rademacher. Stevenson rifiutò: “Cosa valgono cinque milioni di dollari, quando ho l’amore di otto milioni di cubani?”. 

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“Quelli che vedi allenarsi ora sono ragazzi che arrivano da una scuola qua vicino – mi spiega René – li alleno e appena finiamo, li riporto a scuola. Sono piccoli, ma dopo le cinque del pomeriggio arriva il turno dei tredici-quattordicenni e dei quindici-sedicenni, mentre agli adulti e ai professionisti è riservata la mattina, a volte la sera”.

È solo da un anno che i pugili cubani possono partecipare a competizioni professionistiche. Nel 1962, pochi anni dopo la Revolución, Cuba vietò lo sport professionistico, ritenuto contrario ai principi rivoluzionari. Di qui il gran rifiuto di Stevenson e di altre stelle del pugilato cubano che pure venivano continuamente blanditi dalle sirene statunitensi. La natura amateur della boxe cubana non gli ha tuttavia impedito di primeggiare a livello mondiale, soprattutto alle Olimpiadi e ai Mondiali di pugilato (rispettivamente 41 ori e 80 titoli, un dominio assoluto).

Perché, quindi, questa svolta recente? Per evitare fughe all’estero di campioni del boxeo, certo, ma anche per introdurre un’altra fonte di reddito per gli atleti, le loro famiglie, gli staff tecnici. Al momento ci sono più di 20.000 pugili a Cuba, oltre a circa 500 allenatori e 200 strutture di allenamento. Da queste parti il pugilato è una faccenda molto seria…

“Praticare la boxe è importante perché responsabilizza i ragazzi, li porta a impegnarsi costantemente e li introduce ai valori che gli serviranno per la vita, anche se non faranno della boxe il loro mestiere”.

René non riesce a finire questa frase che un ragazzino lo investe con un reclamo pieno di affanno. Si chiama Juan e urla che non accetterà di subire altri torti. Pedroso, scuote la testa, rassicura il bimbo e mi guarda  perplesso: “È molto talentuoso, veloce e aggressivo, ma è anche indisciplinato. Dovrei lavorare con lui a lungo, per tirarci fuori qualcosa di buono. Il talento non basta…”. Se lo avesse sentito suo padre probabilmente Juan sarebbe finito in punizione per qualche giorno.

Lo sport a Cuba non serve solo a sgranchirsi o a tenersi in forma. Non è un modo di dire, ma un’ un’attitudine costante e, per molti bambini, è davvero una forma di riscatto: un modo per salire la scala sociale con una velocità che nessun altro settore del paese permette. Forse la musica, ma in musica non sempre vince il migliore (c’è pur sempre di mezzo il mercato discografico, il pubblico, il carisma …), nello sport invece vince il più forte.

Giraldo Córdova Cardín, un grande pugile rivoluzionario (il 26 Luglio 1953 partecipò con Castro all’attacco alla Caserma Moncada, che segnò l’inizio dell’insurrezione contro il dittatore Fulgencio Batista) ripeteva spesso un motto che per la gioventù cubana è ancora attuale: “siamo abituati a combattere fin da bambini!”. 

Quella del professionismo non è l’unica rivoluzione recente della boxe a Cuba. Basta dare un occhio al plotoncino di bimbi allenati da Pedrosa per notare che a indossare i guantoni ci sono anche due bimbe, per nulla intimorite dall’esuberanza dei compagni. Ce n’è una in particolare, Maria, che a René sta molto simpatica, perché ha una verve instancabile e un’eleganza nei gesti da fuoriclasse. L’allenatore le spiega con calma che prima di colpire il sacco da 70-80 libbre deve imparare tutti i passi per approcciarsi al sacco con la giusta postura.

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Eppure, fino a pochi mesi fa, le donne non potevano boxare. Se lo facevano, era in competizioni clandestine. La boxe era uno sport da maschi. Nella migliore delle ipotesi, si trattava di una forma di “iperprotezione”, come mi ha detto un giovane pugile della palestra. Altri, tuttavia, l’hanno definita senza mezzi termini una discriminazione, in un paese in cui i ruoli di genere sono difficili da sradicare, e nonostante la retorica del governo proclami l’uguaglianza assoluta.

Tra le contraddizioni del castrismo ci sono sempre state cospicue quote di misoginia e machismo. Ci si atteneva a una visione obsoleta della femminilità, la stessa sposata dalla defunta moglie di Raúl Castro, Vilma, che era a capo della Federazione delle donne cubane (FMC) e, a quanto pare, riteneva che i volti delle donne cubane fossero troppo preziosi per essere ammaccati dal pugilato. 

Poi il 5 Dicembre scorso di colpo cambia tutto: le autorità sportive cubane hanno dato il via libera alle donne. “Questo è un momento cui ci stiamo preparando da diversi anni”, ha detto Alberto Puig de la Barca, vicepresidente della Federazione cubana di boxe. Solo un paio di settimane dopo, in un’altra delle palestre della capitale, con un forte job di destro, Eliani García Polledo (50 kg), si è aggiudicata il primo incontro ufficiale di boxe femminile a Cuba.

“Basta dare un occhio al plotoncino di bimbi allenati da Pedrosa per notare che a indossare i guantoni ci sono anche due bimbe, per nulla intimorite dall’esuberanza dei compagni”.

Uno dei giudici l’ha annunciato all’altoparlante decretando la decisione “unanime” che l’ha vista prevalere su Reynabell Grant, di Guantanamo. “Mi sento super orgogliosa. Vincere una competizione ufficiale è un sogno che si avvera per me. Noi donne aspettavamo questa possibilità da molto tempo”, ha detto, subito dopo il match, Eliani, 27 anni, che vive e si allena nei dintorni de l’Avana ed è madre di una bambina di 2.

È stata la prima a vincere, e probabilmente anche la prima a sognare di andare agli imminenti Giochi centroamericani e caraibici, in programma a San Salvador, tra la fine di giugno e i primi di Luglio. “Noi donne combattiamo sempre per qualcosa – ha aggiunto negli spogliatoi l’allenatrice Namibia Flores Rodríguez, una veterana della boxe cubana – per crescere i nostri figli, per aiutare le nostre famiglie, per essere indipendenti”.

Ripenso alle parole di René… al suo riferimento ai “valori”. Si vede dagli occhi di questi bimbi e di queste bimbe che questa palestra gli sta facendo bene. La boxe considera la violenza che abita l’uomo e non la nega, ma la piega a una forma estetica, la educa in uno spazio, la espone come arte, la domina imponendole ritmo. Scandali, pettegolezzi, e corruzione, non hanno minato la credibilità di questa disciplina.

La “scuola cubana” incentra tutto l’insegnamento sulla tecnica, sui colpi dritti e lunghi, non sulla potenza o il dolore da infliggere all’avversario. Non si sale sul ring finché non si è imparato a tirare diretti, montanti (lo swing) e ganci con la giusta tecnica. Perché il pugilato non è picchiare qualcun altro, ma educare noi stessi, agire su quel pezzo di mondo che ci è stato concesso, l’unico del quale siamo sovrani, il solo che, in fondo, ci appartiene fino alla fine: il nostro corpo. 

È questo il nucleo filosofico di questa pratica: comprendere come il corpo di ciascuno sia l’unica estensione sulla quale una singola coscienza possa agire. E comprendere come questo valga per noi significa accettare che anche per l’altro sia così.

È una cosa che afferro meglio qualche giorno più tardi, quando raggiungo la Finca Vijia. Una fazenda in cima a una collinetta nel centro rurale di San Francisco de Paula, a una quindicina di chilometri da l’Avana. Si tratta del vero fortino caraibico della memoria di Ernst Hemingway, nonché il luogo dove lo scrittore ha vissuto per molti anni, integrandosi con la gente del luogo e invitandovi amici da ogni parte del mondo.

Qui Hemingway, o “Jemingüey” come lo chiamavano gli abitanti del villaggio, scrisse Il vecchio e il mare si lasciò infiammare da passioni vecchie e nuove: la sua macchina da scrivere Corona 3, i cocktail, i combattimenti tra i galli, la pesca in alto mare e lo sport. 

“È questo il nucleo filosofico di questa pratica: comprendere come il corpo di ciascuno sia l’unica estensione sulla quale una singola coscienza possa agire”.

Lo sport per lo scrittore statunitense consisteva sostanzialmente in una sola disciplina, la boxe. Ci sono testimonianze nella casa museo di San Francisco de Paula che ce lo consegnano in entrambi i ruoli: maestro e allievo.

I ragazzi del posto potevano entrare nella tenuta di Hemingway senza scarpe e senza camicia e, alle volte, Hemingway dava loro lezioni di pugilato, un po’ come fa ancora oggi René. Lo scrittore si impegnava a insegnare come schivare i colpi. Lui pure ne riceveva qualcuno, ma non li restituiva.

Quell’omone sorridente, in ottima salute, anche se sempre molto sudato, incitava gli sfidanti a colpirlo, avvertendoli li, però, che avrebbe resistito a qualsiasi colpo. Gli altri ragazzi del quartiere gli si mettevano intorno e gridavano. Lui, sorridente, faceva da allenatore.

Un pomeriggio Félix Sosa, uno dei ragazzini più grandi della combriccola che frequentava la Finca, incrociò i guanti con Patrick, il secondo figlio di Hemingway. Appena iniziò il match, tutti si accorsero che Félix spesso colpiva col ginocchio. Lo scrittore suonò il round, li separò e disse allo scorretto: “Così non si fa…Ora ti insegno io…”.

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A quel punto Hemingway fece per indossare i guanti, ma Félix si sfilò i suoi e uscì correndo dalla tenuta. Qualche giorno più tardi lo scrittore lo mandò a chiamare per non farlo sentire in colpa.“Non mi ricordo – raccontò molti anni più tardi Gilberto Enríquez, uno dei componenti di quella brigata di ragazzini, che Jeminguëy abbia mai fatto un gesto cattivo”

Ma anche Hemingway andava a lezione di boxe, appunto, e da maestro arrogante si trasformava in allievo mansueto. Per mantenersi in forma a Finca Vigía, poteva infatti contare su Kid Mario, il massaggiatore. Mario Sánchez Cruz si chiamava in realtà Agustín Sánchez Cruz, ma fin da piccolo lo avevano chiamato semplicemente così, “Mario”. Poi, quando si dedicò al pugilato, il soprannome si trasformò in “Kid Mario”.

Era fiero di mostrare una mezza dozzina di tessere, tutte vecchie e rattoppate, che occupavano una delle tasche della sua camicia. In questo modo poteva dimostrare in qualsiasi momento di essere una persona “integrata” – che all’epoca voleva dire “interna alla rivoluzione”, dunque rivoluzionaria. 

Kid Mario era stato campione dei pesi welter negli anni ’30 e ’40, prima di diventare massaggiatore a domicilio. Hemingway si interessò a lui per la prima volta quando lo sentì raccontare che aveva combattuto contro Gene Tunney, grande boxeur statunitense, e poco dopo lo assunse. 

Dopo una piccola session di saltelli e stretching i due presero a boxare con guanti Everlast da 16 once. Si lanciavano una palla da 12 libbre per rinforzare i muscoli delle braccia e del petto. Hemingway pesava 200 libbre e aveva un pancione che Kid Mario attribuiva alla quantità di alcol assunta dallo scrittore. “Questo però non gli impediva di mantenersi in forma”, aggiungeva.

Quella per la boxe era una passione antica. All’età di 10 anni Hemingway fu vittima di un episodio di bullismo e, da quel momento, decise di salire sul ring per apprendere un “metodo di difesa”. Molti anni più tardi, nel 1929, qualche decennio prima di trasferirsi a Cuba Ernest Hemingway fu sconfitto in un incontro di boxe. E non da un nerboruto avversario, ma da uno scrittore gracilino, Morley Callaghan. Il tutto sotto l’arbitrato di Francis Scott Fitzgerald. 

Quest’ultimo, tra l’altro, è il protagonista di un racconto inedito di tre pagine, ritrovato di recente in un baule a Key West, la residenza di Hemingway in Florida, in cui Francis Scott Fitzgerald è un pugile dal volto tumefatto che lascia vittorioso, ma fisicamente distrutto, il ring. L’infatuazione per questa “disciplina implacabile”, come la definiva Hemingway, non poteva non seguirlo anche alla Finca Vijia, dove avrebbe trovato in Kid Mario una specie di guru gentile. 

“All’età di 10 anni Hemingway fu vittima di un episodio di bullismo e, da quel momento, decise di salire sul ring per apprendere un ‘metodo di difesa’”.

Da quel piccolo gioiello rurale che è la dimora di Jeminguéy e da San Francisco De Paula, prendo un taxi collettivo (una Dodge del 1954 tenuta come fosse nuova, anche se si nota che la carrozzeria turchese è oramai al decimo strato) e torno a l’Avana.

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Ho un appuntamento in un’altra palestra piazzata in Calle Miguel, nella sezione più interna del Centro Habana, al limitare del Barrio Chino, l’antico quartiere che accolse quasi centocinquantamila cinesi tra il 1847 e il 1874. È il “Gymnasio de Boxeo Centro Habana”, dove sono stato il giorno prima, più o meno all’ora di cena. Solo che dentro il Gymnasio, a quell’ora, c’era soltanto il guardiano che sorvegliava il suo piccolo ufficio, il ring e i murales pieni di scritte e ritratti di grandi pugili cubani, Félix Savón, Teófilo Stevenson.

È un posto ancora più angusto della palestra Rafael Trejo, più disadorno e cadente. Ma non per questo privo di fascino. “L’allenamento – mi aveva spiegato il guardiano – finisce verso le sette di sera, se vieni domani alle cinque del pomeriggio, incontri sia gli allenatori che i ragazzi”.

Quindi eccomi qua, il giorno dopo, a varcare il portoncino che delimita la calle dalla palestra – nient’altro che un cortile tra i palazzi – per provare a conoscere un’altra palestra. Solo che stavolta, appena entrato, uno degli allenatori mi viene incontro sbracciandosi, mi fa segno di seguirlo e mi fa entrare nel piccolo ufficio in penombra di fianco alll’entrata. Mi chiede un’offerta per la palestra mentre controlla che nessuno dei suoi colleghi lo abbia seguito e che il guardiano non sia nei paraggi. Gliela nego, e da quel momento non mi rivolgerà più la parola.

Il resto della session nel Gymnasio sarà solo lavoro per la mia macchina fotografica. L’impegno e l’entusiasmo dei bimbi è sempre lo stesso. Il loro sguardo minaccioso quando combattono e quando provano i passi sembra una posa per darsi coraggio. I guantoni sono grandi come il loro busto, eppure appena iniziano le schermaglie, la liturgia di questo sport non può fare a meno di illuminarne i volti.

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Fuori l’Avana comincia a spegnersi, invece, perché di notte molte strade sono quasi al buio. Il Malecon, questa terrazza vista mare spazzata da un vento potente o, costantemente, da una brezza leggera – è solo sei isolati più in basso.

Per raggiungerla devi passare davanti a palazzi sgangherati e confrontarti ancora una volta con la vita rasoterra degli avaneri, le arterie di fili elettrici penzolanti, gli sguardi della gente appoggiata ai balconi. Con la vita che si srotola insomma, come in un round di boxeo.

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Le foto sono di Valerio Corzani, l’autore di questo articolo.

Valerio Corzani

Valerio Corzani è presentatore, autore radiofonico e critico musicale. Voce di Radio 3, collabora con «Il Manifesto» e Bloogfoolk. 

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