Davide Piacenza
Con l’uscita di scena dal governo statunitense, si chiude una delle parabole politiche più imprevedibili della Storia: quella dell'icona della Silicon Valley liberal che diventa un simbolo del populismo di destra, passando per la conquista di Twitter. Ma cos’è successo – davvero – a Elon Musk?
La prima volta che i pavimenti in marmo della Trump Tower hanno sentito il suono dei passi di Elon Musk, il calendario segnava il 14 dicembre 2016: il neo-eletto Donald Trump aveva convocato all’ultimo piano del suo grattacielo di rappresentanza una processione di capitani tech, in quella che un ingenuo New York Times aveva definito la puntata di un ipotetico “Ballando con le Stelle della Silicon Valley”. Seduto allo stesso tavolo di Tim Cook, Sheryl Sandberg e Larry Page, il giovane Musk, in un abito grigio fumo, era la quintessenza del nerd timido e un po’ impacciato. D’altronde i motivi per sentirsi in imbarazzo non gli mancavano: durante la campagna elettorale aveva dichiarato di credere “abbastanza fortemente” che Trump non fosse “la persona giusta” per guidare gli Stati Uniti d’America; per tutta risposta Laura Ingraham, propagandista in lizza per il ruolo di capo ufficio stampa della Casa Bianca che poi andrà a Sean Spicer, aveva coordinato una campagna di disinformazione trumpiana diretta a Tesla e SpaceX, accusate di frodare i contribuenti in nome dell’energia alternativa.
Eppure quello era il giorno in cui la Silicon Valley, ancora in bilico tra fede cieca nel sol dell’avvenire algoritmico e utopia punk, metteva il primo piede dentro il casinò del populismo di Trump: meno di un mese dopo, Trump si sarebbe insediato per la prima volta nello Studio Ovale, e il nemico-amico Musk avrebbe preso posto in due organismi consultivi del governo – il Manufacturing Jobs Initiative e lo Strategic and Policy Forum – ufficialmente per poter “mitigare i danni dall’interno”. Questo primo matrimonio, però, come tante unioni giovanili, non era destinato a durare: il 1° giugno 2017, dopo l’annuncio del ritiro dagli Accordi di Parigi da parte dell’amministrazione Trump, Musk aveva comunicato la fine della liason direttamente sul medium d’elezione della coppia, Twitter: “Lascio i consigli presidenziali. Il cambiamento climatico è una cosa vera. Lasciare Parigi non fa bene né all’America né al mondo”.
Ma certi amori fanno giri immensi, specie se di mezzo ci sono miliardi di fondi governativi. Nel triennio successivo del primo mandato di Trump, Musk ha alternato bastone e carota: è stato critico sui dazi sull’acciaio ma ha incassato apprezzatissimi sgravi fiscali; andava a Washington a discutere la costruzione di nuove Gigafactory di Tesla ma, come successo alla fine del 2019, prima di incontrarsi col presidente, nei corridoi della Casa Bianca, lo definiva “un dannato cretino”. Più che Elon Musk, Groucho Marx, insomma: “Questi sono i miei principi. Se non ti piacciono, ne ho degli altri”.
Ma di principi più stabili, il miliardario diventato nel frattempo l’uomo più ricco del mondo, è infine riuscito a trovarne: è accaduto prima durante la pandemia, un momento spartiacque per molti, quando le sue aziende hanno provato in ogni modo ad aggirare i divieti sanitari, e poi soprattutto nel 2024. È l’anno in cui il businessman autodefinitosi moderato e sostenitore di Barack Obama ha iniziato a spostarsi sempre più decisamente a destra, passando da un pugno di apparizioni pubbliche con Trump a diventarne il gran visir de facto, ospite fisso nei comizi del MAGA e amplificatore dei punti chiave della campagna elettorale. Secondo i registri federali, Musk prima dell’Election Day di novembre ha convogliato 288 milioni di dollari in comitati pro-Trump, consacrandosi come primo fra i super-donors dei Repubblicani.
Un matrimonio di interesse, dunque più saldo di quello passionale di un tempo: Trump, caduto e risorto, aveva bisogno di un braccio operativo nel mondo del tech che potesse amplificare i suoi sermoni; Musk, reduce da un annus horribilis per le sue società in Borsa e dalla compravendita di un social media, Twitter, che iniziava a rivelarsi un buco nell’acqua, necessitava di una sponda politica per rimanere sulla cresta dell’onda.
È interessante notare come lo stesso Elon Musk ha descritto questo suo testacoda politico e culturale, giustificandolo anzitutto con una vignetta postata a più riprese sul suo profilo X; nel cartoon, opera del biologo gender critical Colin Wright, c’è un omino che nel 2008 è al centro-sinistra sulla linea del continuum dei posizionamenti politici; nel 2012, pur stando fermo, il suddetto omino si trova al centro perché il suo “fellow liberal” è scappato a sinistra; nel 2021, il personaggio è al centro-destra, col suo ex compagno ormai fermamente woke che gli dà del “bigotto”. Per Musk questa è una scappatoia semplice: non sono io che sono diventato di destra, sono loro che si sono radicalizzati a sinistra. Ma come tutti gli alibi affrettati, anche questo è traballante: al netto di ogni considerazione sulla sinistra d’oltreoceano, non si può prendere sul serio una vignetta che mostra i conservatori statunitensi in posizione ferma e immutabile negli anni che vanno dalla presidenza Obama al trumpismo, segnati da colpi di Stato per impedire di registrare i risultati di libere elezioni e un’aperta, ribadita ostilità allo Stato di diritto.
La verità ultima del trasformismo muskiano è ignota, ma certamente più vicina a un dato oggettivo: puntando sul cavallo pazzo Trump, Musk ha visto la chance di colonizzare il governo degli Stati Uniti, eleggendolo a nuova Marte verso cui dirigere i suoi sforzi e proclami. E così il 20 gennaio 2025, il giorno della restaurazione di Trump alla Casa Bianca, un ordine esecutivo ha istituito il Department of Government Efficiency (o DOGE, con acronimo che ammicca al mondo delle criptovalute, il nuovo collante ideologico della destra online), indicando nella sua missione il fine di “mettere il pilota automatico alla burocrazia”. Pur senza un incarico ufficiale, Musk ne è diventato il simbolo, l’animatore e il capo plenipotenziario, che imbraccia una motosega ai comizi come simbolo machista di taglio agli sprechi della spesa pubblica: nei primi cento giorni, oltre 38mila dipendenti pubblici hanno ricevuto una scarna email di licenziamento generata da un algoritmo proprietario di Musk, o scritta da uno dei giovanissimi collaboratori delle sue aziende prestati alla nuova branca governativa; dopo quattro mesi, secondo Reuters il DOGE ha tagliato il 12% della forza lavoro federale d’America. Un’avventura che è arrivata alla sua fine in queste ultime ore, quando Musk ha affidato a X uno scarno comunicato di addio al suo ruolo di nemesi dei conti pubblici: “Ora che il mio periodo da consulente governativo speciale sta giungendo al termine, vorrei ringraziare il presidente @realDonaldTrump per l’opportunità di ridurre gli sprechi nella spesa”. Una chiusa in sordina e segnata da un clima di rapporti tesi tra Trump e colui che fino a poco tempo fa si definiva il suo first buddy, primo amico, ma che ultimamente dietro le quinte ha criticato scelte, leggi e piani di spesa della Casa Bianca.
Il DOGE, però, è stato il cambio di passo decisivo della parabola del sudafricano, che certo non era nuovo a influenzare il governo degli Stati Uniti: il Pentagono aveva usato i satelliti di Starlink in Ucraina; la NASA si era servita dei satelliti di SpaceX per le missioni; diverse città si erano affidate persino alla sua Boring Company per nuovi treni superveloci. Ma niente gli aveva mai permesso di poter decidere direttamente dove destinare i soldi della prima superpotenza mondiale, e a cosa invece chiudere i rubinetti.
Certo, ufficialmente Musk ha connotato l’attività del DOGE come una resistenza eroica al malvagio woke, tagliando programmi di insegnamento orientati all’antirazzismo e all’identità di genere, ma nella realtà la sua motosega ha fatto danni a ogni livello, spesso irreparabili: ha tagliato programmi umanitari internazionali, interrompendo interi programmi di vaccinazione in Africa, e bloccato le attività dell’agenzia per la protezione dei consumatori; ha messo i bastoni fra le ruote ai programmi di ricerca scientifica e oncologica e generato un putiferio mandando a casa i dipendenti del programma di gestione nucleare statunitense.
Poi, qualcosa si è rotto. Non è semplice dire quando, anche perché i retroscena che vogliono l’entourage trumpiano poco disposto a tollerare il protagonismo di Musk si susseguono fin dalla scorsa estate, ma è successo. La crisi di questo deleterio luna park tecnocratico ha superato le soglie di allerta nel pieno della crisi dei dazi di marzo: la supply-chain di Tesla, dipendente da batterie e terre rare cinesi, ha portato a un tracollo in Borsa e verosimilmente a storie tese fra i gemelli del gol della destra Usa. Fino ad arrivare al discorso del Qatar Economic Forum dello scorso 20 maggio, quando Musk stesso ha siglato la fine del suo impegno diretto a Washington: “Spenderò molto meno in politica; credo di aver fatto abbastanza”.
Nei giorni seguenti, i fund-raiser Repubblicani hanno silenziosamente rimosso il suo nome dalle email dirette al pubblico, e Politico ha descritto la sensazione di “un fantasma che si aggira per i corridoi della West Wing”. Musk non è sparito subito dal DOGE, beninteso, continuando a operare in sua presenza “uno o due giorni a settimana” fino all’annuncio del 28 maggio, ma si è quietamente allontanato dal ruolo di poster boy del trumpismo. E, nel farlo, ha permesso di tirare un sospiro di sollievo a buona parte del governo: i leader del gabinetto di Trump, più e meno ostili al patron di Tesla, hanno talvolta apertamente ignorato alcune delle sue mosse più reclamizzate, come quella in cui a febbraio aveva imposto a tutti i dipendenti federali di inviare ai loro responsabili email settimanali di riepilogo del lavoro svolto, oppure – come accaduto al consulente per il commercio internazionale Peter Navarro – si sono visti dare del cretino in pubblico da Musk per dispute sui dazi.
La verità è che, viste le dimensioni degli accordi prematrimoniali, anche il conscious uncoupling fra Trump e il suo wonder boy è stato particolarmente difficile: Starlink è ufficialmente catalogata come “infrastruttura critica” per il governo americano; il Pentagono sta valutando la fattibilità del Golden Dome – un sistema di difesa nazionale contro i missili ipersonici – e SpaceX, come si diceva, fa comunella da tempo con la NASA. Il New Yorker ha definito questa co-dipendenza “oligarchia da sultanato”, una forma barocca di tardo-capitalismo in cui il presidente-sovrano scambia commesse governative con influenza tecnocratica.
“Poi, qualcosa si è rotto. Non è semplice dire quando, anche perché i retroscena che vogliono l’entourage trumpiano poco disposto a tollerare il protagonismo di Musk si susseguono fin dalla scorsa estate, ma è successo”.
Di certo c’è che Tesla, fiore all’occhiello del muskismo, ha perso il 28% del suo valore in Borsa dall’inizio dell’anno: il rallentamento dell’attività politica può essere una manovra transitoria per rassicurare il mercato e gli azionisti? Difficile dirlo, anche perché Musk è uno che brucia i ponti.
Prima ancora di prendere le redini del DOGE, il fondatore di Tesla aveva immaginato un ambiente di lavoro in cui i tagli erano associati a grafiche e tabelloni segnapunti da videogioco, per rendere la spending review federale una sorta di macabra partita alla PlayStation. Una direzione perfettamente coerente con la sua psiche di adolescente mai completamente cresciuto e perennemente insicuro, che da una parte cerca la consacrazione ideale sotto le insegne della libertà d’espressione e dall’altra si accanisce contro i reporter sgraditi.
L’aspetto veramente fondativo della bromance più chiacchierata della contemporaneità, ha notato la penna raffinata di Kyle Chayka, è che sembra in tutto e per tutto “basata su una serie di tratti caratteriali e fissazioni personali condivisi”. Sia Musk che Trump sono capitani d’azienda impulsivi e autarchici, inclini alla menzogna seriale e alla persecuzione sistematica dei propri nemici, sia negli affari che in politica. “Sono due titani dell’imprenditoria, noti non tanto per ciò che hanno costruito, quanto per quel che vogliono demolire”, scrive Chayka.
Più che un matrimonio di interesse, quello che ha segnato la prima fase della seconda presidenza Trump è stato un matrimonio di conflitti di interesse, in cui il taglio della torta è stata la lisergica conferenza stampa alla Casa Bianca che Trump ha tramutato in una televendita per Tesla lo scorso 11 marzo, salendo a bordo di una Model S e lodandone gli interni. Ma i due contraenti sono notoriamente volubili, e ogni loro legame era, è, e sarà ancora fatto per raggiungere un inevitabile punto di rottura. Di Trump ce n’è solo uno: gli altri devono accontentarsi di ruoli da comprimari, con tutto quel che ne consegue.
Nel Conte di Montecristo di questo Elon Dantès non ci sono redenzioni possibili. Come il disperato protagonista del romanzo di Dumas confida all’abate Faria, “a tutti i mali ci sono due rimedi: il tempo e il silenzio”. Una volta tanto, Musk sembra aver scelto il secondo.
Davide Piacenza
Davide Piacenza è giornalista e collabora a diverse testate. Il suo ultimo ultimo libro, che riprende temi della sua newsletter settimanale “Culture Wars”, si intitola La correzione del mondo (Einaudi, 2023).
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