Giorgia Sallusti
Dopo l'incidente nucleare che l'ha colpito nel 2011, il distretto di Fukushima ha vissuto anni di oblio, paura e spopolamento. Ora sta provando gradualmente a ripartire: ci sta riuscendo grazie a una comunità che ha voglia di incontrarsi per riabitare le sue strade.
È domenica e la sala ristorante del community center Michinoeki Namie è piena di famiglie che si ritrovano per pranzo. L’edificio è nuovissimo, si sente ancora profumo di legno nuovo. La sala, molto grande, ospita tavolini all’occidentale dove tutti siedono in attesa di sentir chiamare il proprio numero d’ordine. Le salette più piccole, alla giapponese, sono occupate da bambini che sonnecchiano sui tatami mentre i rispettivi genitori si godono la tranquillità del fine settimana. Le specialità di oggi sono gli yakisoba con carne di manzo e “salsa speciale Namie” e i bianchetti kamaage shirasu serviti su riso bianco. Il sake, così come il riso, il pesce e la frutta, è locale: viene dalle campagne e dalla costa di Fukushima. I terreni sono stati decontaminati dal fallout atomico grazie alla rimozione degli strati superficiali su cui si era sedimentato il cesio-137 o radiocesio.
Gli studi successivi hanno dimostrato che il programma di decontaminazione è stato efficace nelle aree trattate, sebbene il sessantasette percento del radiocesio sia rimasto su tutti i paesaggi boschivi. La persistenza dell’isotopo radioattivo è ovviamente un pericolo per la salubrità delle zone coinvolte oltre che un ostacolo alla ripresa delle attività economiche legate allo sfruttamento del legname. Nei campi su cui il programma ha avuto successo, tuttavia, le coltivazioni sono riprese e, almeno per ora, sembrano mantenere tutti gli standard sanitari richiesti.
“L’11 marzo 2011, le onde dello tsunami alte quasi quindici metri si abbattono sulla terraferma giapponese a una velocità di settecentocinquanta chilometri orari”.
Tutti i prodotti serviti in tavola possono essere anche acquistati al mercato che occupa l’altra ala dell’edificio, in cui a dare il benvenuto c’è la mascotte Ukedon, una ciotola di riso sorridente con una testa di salmone per cappello. Oltre al market e al ristorante, ci sono anche negozi che vendono le eccellenze locali, come il sake che la famiglia Suzuki produce fin dal periodo Edo (1600–1868) e la ceramica Ōborisōma. Lo tsunami del 2011 ha spazzato via l’antica distilleria, che ora è stata ricostruita per continuare la produzione del famoso sake Iwasaki Kotobuki. Anche i laboratori di ceramica, attivi dal Diciassettesimo secolo, sono stati ricostruiti intorno a Namie, e i maestri ceramisti continuano a produrre i delicati celadon smaltati di azzurro.
A sinistra: il supermarket di Fukushima. A destra: le mele di Fukushima dal negozio del signor Satō.
Namie è una piccola cittadina situata sulla costa della prefettura di Fukushima, in una zona chiamata Hamadōri. Dopo il grande terremoto del Tōhoku e lo tsunami che ha colpito la centrale nucleare di Fukushima Daiichi nel 2011, tutti i cittadini sono stati evacuati, e soltanto da un paio d’anni Namie è tornata alla vita e sta cercando faticosamente di rinnovarsi.
Michinoeki Namie (“stazione stradale di Namie”) è un centro di ritrovo per la comunità inaugurato nell’agosto del 2020, incorniciato dalle montagne a ovest e dall’oceano a est, destinato a essere il punto di riferimento delle persone che desiderano tornare a vivere nella regione. Oltre ai pannelli solari, il community center di Namie utilizza l’energia prodotta presso il Fukushima Hydrogen Energy Research Field (FH2R), una delle basi di produzione di idrogeno più grandi al mondo, allestita per l’illuminazione e il fabbisogno della cittadina. Non è raro trovare sulle strade le nuovissime stazioni di rifornimento per l’energia a idrogeno. Il centro è anche l’hub di partenza per la costruzione di una comunità che funzioni come smart city, le cui attività collettive e familiari siano alimentate da energie rinnovabili. Perché il nucleare, qui, non è più una possibilità.
“Nel gennaio 2024, a tredici anni dal sisma, ho visitato la no-go zone intorno alla centrale nucleare ormai inattiva, con in mano per tutto il tempo un contatore geiger e periodici controlli ai check-point per analizzare i dati e i livelli di radiazione”.
Namie è la prima tappa di un viaggio attraverso la prefettura di Fukushima e lungo i margini della no-go zone evacuata dopo l’incidente alla centrale. Questo del Tōhoku è l’unico incidente nucleare, dopo Cernobyl’, a essere stato classificato di livello 7, il più grave della scala di riferimento INES (scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici, International Nuclear and radiological Event Scale). Alle 14:46 dell’11 marzo 2011, un sisma sottomarino di magnitudo 9 della scala Richter colpisce le profondità dell’Oceano Pacifico a settantadue chilometri dalla costa giapponese del Tōhoku, scuotendo i recessi del mare per sei lunghissimi minuti. Circa quaranta minuti dopo, le onde dello tsunami alte quasi quindici metri si abbattono sulla terraferma a una velocità di settecentocinquanta chilometri orari.
I resti della centrale nucleare Fukushima Daiichi.
Al momento della scossa, nella centrale nucleare Fukushima Daiichi a Ōkuma – che dava lavoro a intere comunità locali, ma la cui energia veniva risucchiata tutta dalla capitale Tōkyō – si mette in moto la procedura di SCRAM, ovvero l’arresto d’emergenza di tutti i reattori come sistema di sicurezza. La centrale utilizza i generatori autonomi, che si sono attivati dopo che il sisma ha interrotto l’approvvigionamento di elettricità, per raffreddare in emergenza i reattori. Quando l’onda dell’oceano raggiunge la centrale, scavalcando le protezioni, allaga tutti gli impianti e mette fuori uso i generatori che alimentavano il sistema di raffreddamento dei reattori 1, 2 e 3 e la linea elettrica che li collegava ai reattori 5 e 6. È così che si perde il controllo dei primi tre reattori attivi al momento del terremoto, con il susseguente meltdown completo tra il 12 e il 15 marzo, seguito da quattro esplosioni causate da fughe di idrogeno. Una gran parte della prefettura di Fukushima viene presto evacuata, man mano che le radiazioni sono rilasciate attraverso il vento lungo i territori di Futaba, Ōkuma, Namie, Minami Sōma e tutte le altre cittadine adiacenti.
Nel gennaio 2024, a tredici anni dal sisma, ho visitato la no-go zone intorno alla centrale nucleare ormai inattiva, con in mano per tutto il tempo un contatore geiger e periodici controlli ai check-point per analizzare i dati e i livelli di radiazione, generalmente tra 0.1 e 5 microsievert per ora. Infatti le radiazioni, dopo il meltdown alla centrale, si sono sparse col vento raggiungendo la superficie disponibile – strade, campi, tetti – e chiunque passi per quelle zone deve mantenerne sotto controllo il livello, sia con un contatore portatile che rileva il dato – e che tenevo sempre a portata di mano – sia nei punti di controllo gestiti dai tecnici. I microsievert che vengono rilevati sono usati come unità di misura per il danno biologico provocato dalle radiazioni su un organismo.
A sinistra: controllo del livello di radiazioni ai check-point. A destra: Laboratori di ceramica nella zona di Ōbori, ormai abbandonati e ancora contaminati dalle radiazioni.
Molte delle zone evacuate nel 2011 sono state decontaminate, e nuove case sono state costruite lungo le strade e vicino alle stazioni dei treni. Parecchie delle finestre sono buie e nascondono stanze disabitate, perché quasi nessuno vuole tornare qui: anche superando la paura delle radiazioni – in tre giorni di permanenza nelle zone decontaminate intorno a Namie e Futaba, se ne assorbe una quantità minore o pari a una lastra dentale – di lavoro non ce n’è. Le foreste, e nella prefettura di Fukushima ce ne sono molte, non si possono decontaminare, e ora sono popolate da scimmie e cinghiali che cercano cibo nei villaggi i abbandonati. Come nell’area di Ōbori, che prima era abitata da famiglie di ceramisti e ora ospita soltanto vasi e porcellane, alcune ancora intatte nelle vetrine dei laboratori. Qui, appena si scende dalla macchina, il contatore comincia a rilevare quantità sempre più alte di radiazioni. I villaggi di questa zona sono a ridosso delle foreste e forse rimarranno delle ghost town per sempre. Le case che sono ancora in piedi dal terremoto vengono pian piano demolite. Su alcune strade nei dintorni Ōkuma si può transitare velocemente ma non è consentito scendere dalla macchina, né abbassare i finestrini.
Nei campi tra Namie e Futaba si scorgono centinaia di grossi sacchi neri lasciati al sole. Al loro interno è stata stipata, per il programma di bonifica, la terra rimossa dai lotti coltivati oramai coperti di radiazioni; i sacchi poi verranno depositati in magazzini appositi per il contenimento trentennale. Passati i trent’anni, nessuno sa davvero cosa succederà. Mentre attraverso le valli della regione, saltano all’occhio i vasti impianti di pannelli solari di cui adesso sono ricoperti quei vecchi campi di riso che non si possono più coltivare. La regione ha come progetto a lungo termine di contare sull’energia green al cento percento entro il 2041.
“Le case di Namie sono state spazzate via in fretta, e l’unico edificio di allora che si vede oggi, parzialmente in piedi, è la scuola elementare di Ukedo, ora trasformata in un museo”.
Se si viaggia lungo la costa si vedono le protezioni in cemento costruite appositamente per proteggere le città da eventuali tsunami futuri. Sono alte circa sette metri; l’onda che ha travolto Fukushima nel 2011 arrivava a quindici. Le case di Namie sono state spazzate via in fretta, e l’unico edificio di allora che si vede oggi, parzialmente in piedi, è la scuola elementare di Ukedo, ora trasformata in un museo. I computer e i libri sono ancora incastrati sulle travi del soffitto e nei buchi dei muri, il pavimento in parquet della palestra si è gonfiato e innalzato per alcuni metri, e altrove è sprofondato, l’acqua del mare è arrivata fino al secondo piano. Da una finestra, in lontananza, spunta la centrale nucleare, a poco meno di sei chilometri. L’orologio della torre segna ancora, e segnerà per sempre, l’orario in cui il mare si è mosso fin qui, le 15:38 dell’11 marzo 2011, meno di un’ora dopo la scossa sismica.
A sinistra: Scuola elementare di Ukedo. A destra: Stazione dei pompieri. L’entrata danneggiata dal terremoto è stata forzata per permettere ai mezzi di uscire per le emergenze.
Qui tutti i bambini e le bambine si sono salvati: le maestre e i maestri, al momento del sisma, hanno preso l’immediata decisione di far scappare i piccoli verso le colline vicine, una camminata improvvisata di qualche chilometro (in alcuni casi senza scarpe e senza giacche) che ha salvato loro la vita. In altre scuole non si è potuto contare sulla stessa prontezza di spirito. Non è rimasto nessuno a darne testimonianza.
Ripartire è difficile. A Futaba, nella zona della stazione della linea Jōban riattivata da poco, si costruiscono nuove case per chi ha deciso di tornare nelle cittadine in cui è nato e cresciuto. È tornato perfino lo shift supervisor del reattore Daiichi della centrale, protagonista dei tentativi di salvataggio dei reattori nelle ore più disperate durante lo tsunami, e tra i pochi che sono riusciti a salvarsi. È tornato a Futaba anche Takasada-san, che è fuggito dalla sua casa sulla costa non appena ha sentito il terremoto come reagendo a riflesso condizionato, per poi vederla spazzata via meno di un’ora dopo da un’onda abnorme. Ora vive in una delle case nuove, e frequenta spesso gli eventi del nuovissimo santuario shintō che sostituisce quello distrutto.
La vita non è la stessa di prima – la moglie non è voluta tornare – ma si è fatto nuovi amici e va avanti con ottimismo. La signora Keiko, che pure oggi vive a Futaba, non può abitare nella sua vecchia casa, gravemente danneggiata dal sisma. Un mese dopo l’evacuazione le hanno consentito di entrare per recuperare solo quello che poteva infilare in una busta di plastica. Ora vive in una delle casette nuove, ma non conosce più nessuno. Di molti degli amici e dei vicini di una vita ha perso le tracce in dieci anni fatti di riallocazioni e traslochi. Per lei, ricostruire la comunità è ancora un percorso in salita. A Namie però il community center è sempre affollato, le famiglie fanno la spesa e comprano prodotti locali, forse per darsi lavoro e speranza. Anche io ho mangiato riso di Fukushima e la famosa “salsa Namie”, e ho comprato una bottiglia di sake.
“Sulla prefettura di Fukushima continua a ristagnare una nube densa che quasi non ha più niente a che fare con la radioattività: è la distruzione del suo sistema economico e sociale”.
Tuttavia sulla prefettura di Fukushima continua a ristagnare una nube densa che quasi non ha più niente a che fare con la radioattività: è la distruzione del suo sistema economico e sociale, da regione industriale e agricola in pieno sviluppo a luogo da cui si fugge alla ricerca di nuove possibilità, lontano dallo stigma. Quando il primo ministro Kishida Fumio ha dato il via libera allo sversamento dell’acqua che da anni serve al raffreddamento del nucleo radioattivo della centrale, sui media internazionali si sono rincorsi titoli sensazionalistici, fomentati dalla campagna che la Repubblica popolare cinese porta avanti in chiave anti-giapponese. Quella di Kishida diventa ”una decisione estremamente egoistica e irresponsabile” nelle parole del portavoce del ministero degli Esteri della Cina Wang Wenbin, nonostante l’Agenzia internazionale per l’energia atomica abbia studiato la situazione prima di confermare lo sversamento.
L’acqua viene trattata per contenere i livelli di trizio, l’isotopo radioattivo, a circa millecinquecento becquerel per litro, cioè meno di un settimo del valore che le linee guida dell’Oms considerano accettabili per l’acqua potabile. Eppure l’impronta della condanna su Fukushima – non solo per l’area della centrale nucleare, ma per l’intera prefettura – resta lì, immobile, indelebile. Il governo sudcoreano appoggia l’operazione giapponese nel quadro di un riavvicinamento diplomatico tra Seoul e Tōkyō, ma l’opposizione è sul piede di guerra e cavalca le manifestazioni antinucleari in tutto il paese. Al di là di come la si pensi, uno dei problemi di chi vive a Fukushima riguarda i pescatori e gli agricoltori della zona, che dal 2011 vedono il prodotto della loro terra e del loro mare boicottato, rifiutato, consumato solo nei mercati locali. Un pescatore di Iwaki ha raccontato il suo punto di vista al quotidiano Asahi Shinbun: “Non si tratta più nemmeno di sapere se il rilascio delle acque è sicuro dal punto di vista scientifico, o degli indennizzi del governo. Si tratta dell’opinione pubblica. E quindi della propaganda politica”.
Su un edificio rimasto in piedi dalla scossa, un murale con i ritratti di alcune persone scomparse durante il terremoto.
Nel frattempo il Ministro dell’Economia, del Commercio e dell’Industria, Nishimura Yasutoshi, è sulle pagine dei quotidiani giapponesi in foto che lo ritraggono mentre mangia un sashimi di platessa pescata al largo delle coste di Fukushima. Il Giappone assicura che la maggior parte dei radionuclidi a eccezione del trizio sono rimossi attraverso un processo di purificazione prima che l’acqua finisca in mare e se ne dice sicuro anche il premier Kishida Fumio, immortalato in pausa pranzo nel suo ufficio con un pasto a base di frutti dello stesso mare e accompagnati dal riso raccolto nelle campagne di Fukushima.
L’opinione pubblica, intanto, si focalizza sulla causa umana del disastro, guardando alla Tōkyō Electric Power Company (TEPCO) per la gestione dell’emergenza, e alla conseguente risposta del governo. Le critiche, espresse da chiunque senza distinzioni di classe o età, sono sfociate nelle proteste contro l’uso dell’energia nucleare nel paese tout court. La sensazione che le autorità giapponesi abbiano minimizzato le conseguenze delle radiazioni si ritrova nelle parole di Murata Mitsuhei, ex ambasciatore giapponese in Svizzera: “Io la chiamo la malattia del Giappone. Prima ci nascondiamo, poi rimandiamo e poi non ci assumiamo alcuna responsabilità”. Nella locuzione inpei shugi (’tendenza a nascondersi’) sta l’attitudine delle autorità giapponesi a mistificare o celare le informazioni ritenute vitali, secondo il motto koto nakare shugi (’preferire la tranquillità a ogni costo’). Quando si scatena il dibattito, il Giappone si interroga anche sulla questione della libertà di parola in merito alla sicurezza nazionale.
Non a caso nel 2013 si discute la cosiddetta “legge sui segreti di Stato” a protezione delle informazioni sensibili, che resta però molto ambigua riguardo cosa costituisca effettivamente materia di danno alla sicurezza. Una conseguenza arriva subito: il World Press Freedom Index 2016 di Reporter Senza Frontiere declassa il Giappone sulla libertà di stampa al settantaduesimo posto su centottanta paesi; la legge costa al paese undici posizioni rispetto all’anno precedente e ben sessantuno rispetto al 2010, prima del disastro.
“La prefettura, con uno spirito di rinnovamento e uno sforzo collettivo che è visibile perfino a un occhio straniero, tenta di rimettersi in piedi”.
Le notizie che sono state divulgate, nonostante tutto, hanno avuto anche un sorta di patina grottesca: quando le forze di autodifesa (SDF) hanno inviato elicotteri per scaricare l’acqua di mare sulle costruzioni nel disperato tentativo di raffreddare le barre di combustibile surriscaldate del reattore Daiichi, sono diventate il simbolo del fallimento. Nelle parole di Yoshida Masao, all’epoca direttore dello stabilimento, sembravano “una cicala che fa la pipì”: l’immagine di minuscoli getti d’acqua che si disperdono senza pietà nel vento prima di colpire gli edifici ha suscitato disperazione unita a scherno in molti giapponesi.
Oggi i resti della centrale Daiichi sono mantenuti in condizioni stabili, e le autorità governative confermano che la possibilità di nuovi incidenti è praticamente vicina allo zero. Braccia robotiche sono impiegate per disostruire i reattori dal debris atomico – nessuna persona può avvicinarsi alla centrale senza rischi gravi o letali – ma il programma procede lentamente. Al momento i reattori delle unità 1, 2 e 3 sono mantenuti a temperatura costante grazie all’acqua, tra i 15 e 35 gradi centigradi. Quand’anche il flusso di acqua si interrompesse, ci vorrebbero circa due settimane prima che i reattori raggiungano la temperatura limite di ottanta gradi, lasciando alle squadre di sicurezza tutto il tempo per reagire di conseguenza.
La centrale dopo il disastro è stata commissariata, e ora la gestione d’emergenza è guidata da un consorzio al cui interno resta la TEPCO, assieme al governo giapponese, le agenzie di controllo per il nucleare e alcune aziende internazionali. Il lavoro di questo consorzio è previsto in essere per almeno altri trent’anni, insieme a società locali che nel frattempo lavorano alla ricostruzione e alle agenzie che distribuiscono informazioni tentando di arginare eventuali fake news e il panico da radiazioni.
La scuola elementare di Ukedo, ora museo, vista dalla costa. Nel terreno tra la spiaggia e la scuola sono stati piantati nuovi alberi.
Eppure, restano ancora delle zone oscure. L’efficacia della strategia di decontaminazione giapponese sulla dispersione dei flussi radioattivi attraverso le zone montuose esposte ai tifoni non è stata quantificata, e se si calcola che la maggior parte della contaminazione iniziale da radiocesio resta immagazzinata tra i boschi, potremmo doverci preoccupare della futura dispersione di radiazioni a valle durante gli eventi erosivi. E dato che il ripopolamento di Fukushima è ancora allo stadio iniziale (sono tornate mento del trenta percento delle persone evacuate), il governo si pone la questione se decontaminare una piccola percentuale dell’area contaminata valga lo sforzo, il costo e la quantità di rifiuti generati da dover smaltire.
Ma le persone, anche poche, stanno tornando e a loro va garantita una vita dignitosa e sicura. A quanto pare il cibo lo è: nella lista dei cinquantacinque paesi che dopo il meltdown hanno imposto restrizioni all’importazione di prodotti alimentari da Fukushima, ora ne sono rimasti solo quattordici. La prefettura, con uno spirito di rinnovamento e uno sforzo collettivo che è visibile perfino a un occhio straniero, tenta di rimettersi in piedi. Non è ancora molto, ma abbastanza per festeggiare con un bicchiere di sake. Di Fukushima, naturalmente.
Giorgia Sallusti
Giorgia Sallusti (Roma, 1981) è libraia, yamatologa, traduttrice. Scrive di libri e culture per Il manifesto e Altri animali di cui è anche editor, occupandosi di Giappone, oriente e femminismi.
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