La modernità ha illuso tutti di potersi realizzare in campo creativo, artistico e professionale. Oggi siamo afflitti proprio dalla mancata promessa che ci era stata fatta. Come siamo arrivati a questo punto? Se lo chiede Raffaele Alberto Ventura nel suo ultimo saggio, "La conquista dell'infelicità". Lo abbiamo incontrato per fargli qualche domanda.
Otto anni dopo la Teoria della classe disagiata (Minimum fax), Raffaele Alberto Ventura torna a interrogare quella stessa classe che aveva analizzato nel 2017. La conquista dell’infelicità (Einaudi) è un libro in continuità con il precedente, che mira ad approfondire ulteriormente le ragioni della crisi della classe media istruita. Se nella Teoria si descriveva il fallimento materiale di quest’ultima, ne La conquista Ventura indaga le origini culturali delle aspirazioni dei suoi membri – il bisogno di realizzarsi, di “diventare se stessi”, di competere per un capitale simbolico sempre più rarefatto.
La conquista dell’infelicità parte da un assunto: la classe disagiata non è un’anomalia passeggera, ma il sintomo di un sistema che collassa. Il riferimento è alla modernità, con tutte le sue promesse irrealizzabili. Il libro si muove tra analisi teorica e riferimenti culturali: da Amleto a Piccole donne, fino alla Metropolis di Fritz Lang, per mostrare come l’immaginario moderno abbia alimentato un’idea di libertà che oggi è logora al punto da renderci tutti infelici, in una corsa sfrenata per affermarsi, al termine della quale, saremo quasi tutti sconfitti.
Ci siamo incontrati in videochiamata. Raffaele è a Parigi, dove lavora come ricercatore presso il Laboratoire d’anthropologie politique dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Mi racconta che, dopo settimane di presentazioni, è già stanco di parlare del suo libro. Per fortuna, La conquista dell’infelicità è un testo dal respiro abbastanza ampio da permettere di ragionare su temi posti al di fuori del perimetro del libro: dall’attualità alle trasformazioni tecnologiche, dal mondo del lavoro alla crisi dell’immaginario collettivo.
Partiamo dall’attualità. Qualche settimana fa Jonathan Bazzi ha scritto un post molto discusso sulla sua difficoltà a vivere di scrittura. Non è un tema nuovo: se lavori nell’industria culturale vivi in prima persona la condizione umiliante di un settore in cui le paghe sono spesso ridicole o addirittura assenti e la rinuncia ad alcuni diritti è un requisito d’ingresso. A questo si aggiunga la complicità dei lavoratori stessi che sono disposti a tutto pur di far parte del settore. Quello che mi ha colpito non è stato l’oggetto del post quanto il fatto che a scriverlo fosse un autore affermato, candidato al Premio Strega con Febbre (Fandango), firma ricorrente di molti quotidiani. Si lavora dunque in un contesto esausto e il rischio è quello di perdere tantissime voci potenzialmente interessanti – e che non hanno alle spalle un privilegio economico – se persino uno scrittore riconosciuto non riesce a sbarcare il lunario.
Partiamo col ribadire l’ovvio: di sola scrittura non si vive. Io, per esempio, non ci vivo. Pubblico libri, li presento, scrivo sui giornali, ma il mio reddito – per fortuna – non arriva solo da lì. Si potrebbe dire che non ne vendo abbastanza. Ma la verità è che nessuno vive di scrittura. Si vive, al massimo, di reputazione. Baricco, per fare un esempio di successo, non vive di scrittura: vive del fatto di essere Alessandro Baricco, della sua figura pubblica, delle persone che lo conoscono e vanno alle sue conferenze o comprano i suoi libri, del valore simbolico che ha costruito negli anni.
La reputazione è l’unica cosa che conta oggi. Alcuni riescono a inventarsi un modello di business associato alla scrittura e convertirla in corsi, consulenze, articoli, prefazioni, traduzioni. In pratica, si campa spremendo la propria reputazione come un’arancia, trasformandola in qualsiasi altra forma di reddito.
Quanto alla soluzione, in teoria sarebbe semplice: regolamentare. Creare ordini professionali che proteggano chi lavora dall’esercito di riserva che abbassa le remunerazioni. Ma nel mondo della scrittura non lo vuole nessuno: non lo vogliono gli aspiranti, non lo vogliono gli editori che vivono sul volontariato, non lo vogliono i molti che usano la scrittura per fare attivismo o autopromozione online. E se qualcuno provasse davvero a chiudere i confini della professione, scoppierebbe immediatamente un coro in difesa della libertà d’espressione.
Il paradosso è proprio questo: il lavoro culturale è difficile da regolamentare e allo stesso tempo non è sostenibile sul piano economico. Ma se scrivere è un diritto, essere letti – e dunque fare della scrittura la propria unica entrata – non lo è. Anzi, è diventato un privilegio sempre più difficile da conquistare.
La conquista dell’infelicità guarda le cose con una prospettiva non solo sociologica ma anche macroeconomica. Ci sono molti passaggi che rimandano a concetti legati all’economia e alla finanza. Prendiamo l’inflazione: sono tanti, troppi, quelli che desiderano la realizzazione personale e tutti sono disposti a spendere in istruzione, a impoverirsi accettando condizioni di lavoro svantaggiose. E al contempo, aumenta la produzione culturale. L’editoria per esempio è vittima di una svalutazione strutturale: si pubblicano in Italia quasi novantamila titoli all’anno, le voci in circolazione sono tante, gli autori sono più numerosi che in passato, ma pochissimi libri restano in libreria per più di qualche settimana. Ciascuno ottiene un brevissimo ed effimero attimo di visibilità. Il risultato è che, anche quando la realizzazione sembra raggiunta – soprattutto nel lavoro intellettuale e creativo – non basta più a garantire la soddisfazione dell’autore.
Negli ultimi due secoli abbiamo assistito a una trasformazione decisiva della sfera intellettuale, che prima era in qualche modo delimitata, era una sfera autonoma, quasi sacralizzata. Nell’Ottocento la produzione culturale era finanziata fuori dal mercato: prima dagli aristocratici, poi dalla borghesia, poi c’è stato il mecenatismo politico – il Partito Comunista, poi l’università: modelli che garantivano un recinto protetto entro cui produrre pensiero senza doverlo necessariamente monetizzare.
Oggi quel recinto non c’è più. L’intellettuale è sul mercato e deve considerare se stesso come una merce. Se non vendi libri – o se non converti il capitale simbolico dei libri in altre attività: traduzioni, giornalismo, formazione – semplicemente non vivi. O meglio: smetti di fare l’intellettuale, a meno che tu non sia disposto al martirio. È una dinamica impersonale: se non fai i conti con l’economia, è l’economia che li fa con te.
Poi c’è il tema della sovrapproduzione culturale. C’è una famosa battuta attribuita a Stalin. Stalin chiede: “Quanti film produciamo in Unione Sovietica?” Gli dicono circa 300 all’anno. E lui dice: “E quanti di questi sono buoni?” Dieci. E allora Stalin risponde: “Dobbiamo produrre solo quei dieci”. Fa vagamente ridere, perché ovviamente tu non puoi prevedere quali sono quei dieci film buoni. Un autore può lamentarsi che si fanno troppi libri, però poi non è detto che il tuo libro sia tra quelli pubblicati se ne uscissero di meno. Nessuno è neutrale su questo.
Però è vero che non sappiamo più cosa valga davvero. Un secolo fa un ecosistema più piccolo permetteva una selezione più chiara: non tutto era buono, ma tutto era almeno visibile, leggibile, condiviso. Oggi ognuno legge cose diverse e questo disperde la funzione della cultura: far convergere le idee, creare un dibattito comune. Se produciamo più conoscenza di quanta se ne possa assorbire, produrre idee rischia di diventare inutile: un libro che leggo solo io, e da cui non nasce nessun discorso, non serve a niente.
Il problema nasce dal modo in cui abbiamo immaginato la crescita. Abbiamo creduto che l’aumento della prosperità materiale coincidesse automaticamente con l’aumento della soddisfazione dei bisogni. E questo è vero per i bisogni materiali: se produci più beni, puoi distribuirli a più persone. Ma non è vero per i bisogni immateriali, cioè i bisogni di realizzazione personale, riconoscimento, autostima.
La società moderna ha promesso qualcosa che non può essere generalizzato: che tutti possano realizzarsi allo stesso modo. La conquista dell’infelicità nasce da qui: dal fatto che la ricerca permanente della realizzazione personale genera una competizione infinita, consumi insostenibili e, alla fine, una delusione sistematica. È una trappola sociale ed esistenziale: più rincorri l’ideale di te stesso, più ti allontani da qualsiasi forma di felicità stabile. E una società strutturalmente delusa diventa una società politicamente instabile: quando la promessa moderna si rivela irrealizzabile, le istituzioni entrano in crisi.
Nel libro non so dire quale collasso arriverà prima – ecologico, economico o istituzionale. Forse un collasso rallenterà l’altro, come durante il Covid: la produzione si è fermata, il debito è esploso, ma l’impatto ecologico della produzione ha rallentato per qualche mese.
A proposito di crescita: molti vedono nella decrescita felice una possibile via d’uscita. Tu però scrivi che la decrescita felice è forse solo un’altra utopia tecnocratica. Perché?
Il problema non è la decrescita in sé: è quasi certo che, in un modo o nell’altro, dovremo ridurre i consumi. Il problema sta nell’associazione tra decrescita e felice. L’idea della decrescita felice, nata negli anni Novanta intorno alla figura di Serge Latouche, ha cercato di indorare la pillola: se la decrescita è necessaria, allora dobbiamo raccontarcela come un percorso desiderabile, persino gioioso. Ma è difficile immaginare che un ridimensionamento così profondo possa avvenire senza sacrifici.
Il grado di felicità dipende dall’immaginario. Un cittadino dell’Ottocento viveva con risorse che a noi sembrerebbero proibitive: significa che la percezione della felicità cambia con la cultura e con l’epoca. Ma oggi non vedo una disposizione ad accettare certe rinunce. Non riesco nemmeno a immaginare come potrebbero farlo persone cresciute nel nostro modello di prosperità.
Per questo, nel libro, dico che serve una nuova menzogna vitale: un immaginario capace di rendere sopportabile una trasformazione che, di per sé, non è affatto felice.
Anche perché dalla riforma scolastica del ‘63 a oggi l’accesso agli studi è diventato democratico. È una cosa buona, sulla carta. Solo che ora ci ritroviamo con generazioni di persone cresciute con la convinzione che studiando potevano diventare tutto ciò che desideravano. Mentre le cose non stanno proprio così. La questione è complessa: o si mette in dubbio quel modello educativo, oppure, a cose fatte, si spiega a tutte queste persone che la realizzazione non è più possibile, e che dovrebbero accontentarsi, imparare a essere felici facendo altro.
Il tema della democratizzazione degli studi è complicato da affrontare. Perché è un po’ come quando vai a Venezia e ti lamenti che ci sono troppi turisti, però sei anche tu un turista. O sei un privilegiato che vuole tenersi gli studi per sé, oppure sei qualcuno che senza quel sistema educativo non avrebbe studiato e che non avrebbe goduto di certi privilegi. Il punto è guardare la cosa per quel che è: una disfunzione. Come ogni disfunzione, la società può decidere di regolarla: non c’è soltanto studiare o non studiare, ma cosa si studia? Perché si studia? E dove si vuole andare con quello che si è studiato?
Quella dell’identità è una questione centrale. La società dei consumi ci sprona a diventare noi stessi, a realizzarci, spingendoci a provare disagio se non riusciamo ad essere quello che vorremmo essere, quello che l’istruzione ha fatto di noi: un avvocato, un filosofo, un calciatore. Ma ovviamente non viene data uguale possibilità a tutti. Quando scopri che non farai ciò che speravi, non perdi solo un lavoro: perdi un’immagine di te. È un dolore reale e spesso non viene riconosciuto.
Non esiste un diritto a essere sé stessi perché non può essere implementato. Ma se questo diritto non esiste, allora crollano tutte le promesse della modernità. Perché se non possiamo essere noi stessi allora non saremo mai felici.
In effetti, forse più che nei libri precedenti, qui parliamo di professioni intellettuali in senso ampio: non solo scrittori, artisti, operatori della cultura, giornalisti, ma anche designer, impiegati qualificati, lavoratori del terziario avanzato. Ti propongo un altro parallelo con la finanza. Oggi si parla molto della bolla dell’AI che potrebbe scoppiare da un momento all’altro: la ricchezza è concentrata in poche aziende tecnologiche che hanno valutazioni altissime e attirano investimenti enormi che però coprono un’economia sofferente. Ma mentre si discute di questa possibilità, questo settore ha già avuto e sta avendo una ricaduta reale sui posti di lavoro umani. Notizia di poche settimane fa: Amazon ha annunciato che licenzierà 30.000 dipendenti. E non parliamo di lavoratori manuali, ma dei cosiddetti colletti bianchi. In altre parole, la classe media istruita.
La logica è quella classica del capitalismo: più aumenta il grado tecnologico, più si riduce il numero di persone necessarie a produrre beni e profitto. È la razionalizzazione permanente. Da un lato cresci, ti espandi, acquisisci nuovi clienti; dall’altro trovi continuamente modi per fare le stesse cose con meno lavoro umano.
Il caso Amazon lo mostra bene. L’azienda ha sempre più bisogno di manodopera per “l’ultimo miglio”, cioè la parte che non puoi automatizzare facilmente: consegne, movimentazione fisica, lavoro ripetitivo. Finché i robot costano più degli esseri umani, quella parte del lavoro continuerà a crescere. Ma nella gestione interna, nel management, nella progettazione, il numero di persone necessarie tende a diminuire: più tecnologia, meno persone.
Io dico che l’AI non è una bolla. L’AI sarà davvero rivoluzionaria. È inevitabile che ci sia la ressa per investire in quella cosa lì. Ed è la stessa cosa che accadrà sul mercato del lavoro: tutti vogliono passare attraverso la stessa, strettissima porta. Uno spazio troppo piccolo per contenere le aspettative di intere generazioni.
Questo produce una dinamica cruciale: tutti sanno che i pochi posti qualificati saranno sempre più rari. E quindi tutti corrono per entrarci. È la ragione per cui investiamo in studi, titoli, competenze: perché dobbiamo dimostrare di non essere intercambiabili con una macchina e neppure con milioni di altri esseri umani con il nostro stesso CV.
L’unico modo per distinguersi, in questo scenario, è la reputazione: capitale sociale, relazioni, visibilità. È qui che il discorso del mio libro si allarga oltre le professioni culturali: riguarda tutti. La corsa alla realizzazione personale non è più un capriccio narcisistico, ma un requisito di sopravvivenza in un mercato del lavoro in cui sopravvive solo chi riesce a convincere gli altri di essere unico.
Milioni di persone cercano di entrare in un collo di bottiglia sempre più stretto, tentando di rendersi indispensabili, eccezionali, irripetibili. È per questo che i social diventano centrali: non sono un passatempo, sono un dispositivo di selezione. Non devi essere solo un CV: devi essere uno storytelling.
“Io dico che l’AI non è una bolla. L’AI sarà davvero rivoluzionaria. È inevitabile che ci sia la ressa per investire in quella cosa lì. Ed è la stessa cosa che accadrà sul mercato del lavoro: tutti vogliono passare attraverso la stessa, strettissima porta”.
A volte mi chiedo se i social siano uno strumento nato per rispondere a un bisogno già presente – la necessità di distinguersi, costruire un’immagine, competere per la visibilità – oppure se siano i social stessi ad aver creato questa corsa alla distinzione. Cioè cosa viene prima: lo spirito del tempo o la tecnologia che lo amplifica?
I social sono una tecnologia particolare perché, essendo software, possono adattarsi molto rapidamente ai nostri comportamenti. Non funzionano come un oggetto fisico che, una volta lanciato sul mercato, resta sostanzialmente identico per anni. Abbiamo visto le piattaforme evolvere in tempo reale, aggiornarsi, fallire o avere successo in base alla loro capacità di intercettare i nostri punti deboli: bisogno di riconoscimento, confronto sociale, narcisismo, desiderio di appartenenza.
Per questo è difficile dire cosa viene prima: la verità è che i social si sono modellati sulle nostre inclinazioni e, nel farlo, le hanno esasperate. Hanno capito cosa ci attrae, cosa ci rassicura, cosa ci genera dipendenza, e hanno costruito intorno a questo i loro sistemi di engagement. E continuano a farlo. Ma resta un problema: questi modelli economici non sono ancora sostenibili. Vivono di un equilibrio instabile – quello che Cory Doctorow definisce enshittification: la progressiva degradazione della qualità dei servizi man mano che le piattaforme cercano di estrarre valore dagli utenti.
Facebook, per esempio, era interessante finché regalava visibilità. Nel momento in cui ha iniziato a chiedere soldi per ottenere ciò che prima dava gratis, ha smesso di esserlo. Tutte le piattaforme vivono questa tensione: devono diventare profittevoli, ma per farlo finiscono per peggiorare l’esperienza, fino a compromettere il proprio stesso ecosistema.
C’è però un altro aspetto, forse più importante: oggi le piattaforme lottano per diventare il monopolio della reputazione. Se ne restassero due o tre, e in un certo senso è già così, avrebbero un potere enorme nel definire chi è visibile e chi no. Oggi, se vuoi capire se qualcuno esiste, se è rilevante, apri Instagram. Per molte professioni non misuri più il prestigio con criteri tradizionali, ma con indicatori di visibilità: followers, interazioni, riconoscibilità pubblica.
Questa dinamica riguarda anche il mercato del lavoro. Non ovunque, ma in settori come la comunicazione, la cultura, il branding, il giornalismo, i social sono ormai una porta d’accesso. Quando selezioni un candidato, capita di controllare il suo profilo: non solo per vedere cosa pubblica, ma per capire come si presenta, che immagine di sé costruisce, quale reputazione ha accumulato. È un pezzo, non maggioritario ma significativo, dei criteri di selezione.
E vale anche per gli scrittori: sempre più spesso gli editori pescano da lì. La visibilità digitale diventa un catalizzatore di attenzione che precede il testo, lo sostiene o lo sostituisce. È un sistema crudele, ma è quello in cui viviamo. E perché, nel frattempo, produttori di contenuti – influencer, creator – competono direttamente con gli intellettuali per ottenere attenzione, visibilità e capacità di influenzare il discorso pubblico.
Prendi un esempio di cui si è parlato molto recentemente: Rita De Crescenzo. Una TikToker popolarissima, intervistata da Fagnani, che produce opinioni e contenuti e compete con gli intellettuali per tempo, attenzione e centralità. È spiazzante – non dico umiliante, ma spiazzante – perché ci ricorda che siamo tutti in concorrenza per lo stesso spazio simbolico.
Leggendo La conquista dell’infelicità mi è venuto in mente Modernità esplosiva di Eva Illouz, uscito sempre per Einaudi nella stessa collana, i Maverick. Entrambi analizzate il malessere contemporaneo come un prodotto della modernità: la vergogna, l’ansia di realizzarsi, il confronto, l’invidia, l’idea che la felicità sia un dovere morale. Illouz sostiene che riconoscere la dimensione collettiva di questo disagio possa aprire la strada a soluzioni condivise, anche politiche. Il tuo libro però sembra arrivare a una conclusione diversa: non sembra esserci uno spazio reale per unirsi e immaginare strade diverse.
Il mio libro è, innanzitutto, una riflessione su cosa sia la modernità, da dove cominci, quali promesse abbia formulato e perché quelle promesse oggi non reggono più. Da questo punto di vista, sì, la modernità è “esplosiva”: come un reattore nucleare che, se tutto va bene, produce energia e stabilità, ma se sfasato di poco genera una catastrofe. A un certo punto faccio un’analogia con Chernobyl che mi serviva a mostrare proprio questa fragilità strutturale.
Sulla questione della rivoluzione, invece, mi sembra che nella cultura politica del Novecento abbiamo idealizzato molto quella parola. Nel libro gioco con questa tensione: dico che ci sarà una rivoluzione, e il lettore magari si prepara a un riscatto. Poi spiego che la rivoluzione possibile – o probabile – non è quella immaginata dalla sinistra progressista, ma qualcosa di più simile ai Demoni di Dostoevskij o al fenomeno Trump.
Oggi una rivoluzione da sinistra è semplicemente impensabile. Non c’è un indizio, non c’è un soggetto collettivo, non c’è un terreno materiale che possa sostenerla. Se domani qualcuno dovesse lanciare la prima pietra, verrebbe travolto. Le uniche forze capaci di mobilitare davvero la società sono quelle sovraniste, populiste, identitarie. Questo è il campo di gioco.
Nel migliore dei casi, la rivoluzione sarà un lungo ciclo di dominio dell’estrema destra. Nel peggiore, sarà un crollo civilizzazionale: disgregazione delle catene globali, recessioni prolungate, instabilità politica.
C’è però una terza possibilità: una forma di utopia tecnocratica. Una gestione razionale dei rischi – climatici, economici, sanitari, energetici – che assomiglia più a una distopia che a una liberazione. Immagina una specie di governo Draghi–Greta Thunberg: tecnocrazia più ambientalismo, ordine più sostenibilità. Un modello che cerca di rallentare il collasso attraverso regole strette, vincoli rigidi, una gestione del rischio permanente. È una prospettiva poco affascinante, ma forse la meno catastrofica. Sicuramente la più probabile, a meno che il vero destino della civiltà sia una continua oscillazione tra fasi populiste-libertarie e fasi tecnocratico-securitarie che si alimentano a vicenda.
Il problema è che per far funzionare una tecnocrazia servono gli intellettuali. E oggi gli intellettuali sono troppi, frammentati, insofferenti. È impossibile assorbirli tutti dentro un progetto politico: una parte si opporrà sempre, spesso in nome di un populismo che è, paradossalmente, guidato proprio da borghesi intellettuali che si reinventano interpreti del popolo. È un meccanismo antico e ricorrente: quello degli esclusi che diventano oppositori dell’ordine costituito.
Nel tuo libro citi Schiller, che descrive la storia come un eterno ciclo di dittature e rivoluzioni: periodi di libertà sfrenata che sfociano nel caos, seguiti da periodi di oppressione che ristabiliscono l’ordine. Se applichiamo questa lettura al presente, sembrerebbe che ci troviamo in una fase di “troppa libertà”: troppa possibilità di scegliere, definirci, inseguire percorsi individuali – una libertà che però non è sostenibile a livello ecologico né sociale.
Sì, credo davvero che l’individuo lasciato a se stesso tenda a fare scelte sbagliate. È quasi una costante antropologica. Questo non significa che io sia diventato un autoritario: rimango, per inclinazione, un libertario. Ma un libertario comunitarista, se vogliamo trovare un’etichetta. Cioè: penso che il singolo individuo, isolato, sia pessimo nel prendere decisioni che non portino al conflitto o alla distruzione.
È per questo che, nel libro, il vero nemico simbolico è Kant. Con tutta la simpatia per Kant umanamente, per quel tentativo titanico che lui fa di dire: “Io rifondo totalmente l’ordine sociale”. Però trovo che sia in lui che si cristallizza una promessa che non funziona se moltiplicata per ogni individuo del pianeta: la promessa dell’autonomia della ragione, l’idea che ciascuno possa essere legislatore di sé stesso, che la società possa reggersi su individui liberi, razionali, uguali, che seguono l’imperativo categorico e generano così un ordine armonioso. È una promessa straordinaria ma infondata: non puoi moltiplicare quel modello borghese per un’intera civiltà senza produrre conseguenze devastanti.
Kant non poteva prevedere né il costo materiale di quella autonomia, né il limite ecologico: lo stile di vita – per quanto sobrio – di un borghese del Settecento replicato su scala planetaria è semplicemente impossibile. E non poteva prevedere nemmeno il paradosso psicologico: dare a tutti la libertà di definire se stessi significa generare una competizione identitaria infinita, non un ordine morale condiviso.
Nella Critica del giudizio, Kant formula una delle intuizioni che considero più affascinanti: l’estetica del sublime è l’immagine del mondo alla fine della storia, cioè – per come la vedo io – l’immagine della catastrofe ecologica. L’idea che ci sia un punto di vista privilegiato da cui osserviamo il mondo mentre crolla, sentendoci al tempo stesso piccoli e protetti. È un’intuizione estetica, certo, ma è anche un’immagine della modernità: noi che guardiamo il collasso ecologico da un balcone riscaldato, credendo di esserne al riparo.
Per questo dico che la modernità si è giocata tutto su un equivoco. Ha promesso autonomia, realizzazione personale, libertà illimitata. E oggi paghiamo il prezzo di quella promessa impossibile: individui che credono di poter scegliere tutto, società che non riesce più a coordinarsi, istituzioni che non sanno più regolare il conflitto. È il motivo per cui l’eccesso di libertà genera inevitabilmente il suo contrario: reazioni autoritarie, populismi, richieste di ordine. Non è un giudizio morale: è una dinamica strutturale.
La modernità ha universalizzato un modello di individuo che può funzionare solo in condizioni eccezionali. E questa universalizzazione ha generato l’effetto opposto a quello promesso: non ordine, ma sfasamento; non autonomia, ma dipendenza; non realizzazione, ma infelicità.