La morte di Charlie Kirk dimostra che gli Stati Uniti sono in guerra con se stessi - Lucy sulla cultura
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Davide Piacenza

La morte di Charlie Kirk dimostra che gli Stati Uniti sono in guerra con se stessi

12 Settembre 2025

L’assassinio di Charlie Kirk, attivista politico di estrema destra molto vicino a Trump, sembra la conferma dello stato di efferata violenza in cui è sprofondata la politica americana.

Quando Charlie Kirk è stato colpito da un cecchino nascosto a quasi duecento metri di distanza dal palco del suo intervento alla Utah Valley University, il trentunenne enfant prodige del trumpismo stava parlando, per una coincidenza amara, di sparatorie: come suo solito, Kirk – maglietta bianca con la scritta Freedom e pantaloni chino neri – si era prestato a un dibattito con gli studenti del campus e uno studente gli aveva appena chiesto se sapesse “quanti mass shooters trans ci sono stati in America negli ultimi dieci anni”. “Troppi”, aveva risposto prima di abbandonarsi a uno di quei suoi ghigni sardonici e puntualizzare: “Considerando anche la violenza delle gang criminali?”. Nemmeno il tempo di appoggiare il microfono sul tavolino di fronte a lui e compiacersi per la battuta, che un proiettile gli ha trafitto il collo, facendolo rimbalzare sulla sedia e scatenando una fuga caotica nel piazzale del campus.

Charlie Kirk  non era  una persona qualunque. Charlie Kirk è stato per la destra trumpiana quello che William F. Buckley Jr., il fondatore del gruppo Young Americans for Freedom, era stato per i giovani conservatori durante la guerra fredda: un volto carismatico, capace di difendere le sue idee con metodo e vigore, ammantandole di una spesso posticcia disponibilità al confronto, e capace di compattare  il suo pubblico contro un nemico comune. Per Kirk, i nemici erano gli oppositori delle armi, le persone transgender, i migranti, l’establishment Democratico: tutti bersagli che sferzava con un polemismo e presenzialismo senza requie, tra podcast, programmi YouTube, ospitate su media tradizionali e attività di Turning Point USA, la fortunatissima organizzazione di attivismo di destra on campus che aveva fondato nel 2012, appena diciannovenne.

Non sorprende quindi, come ha scritto il «New York Times», che alla Casa Bianca molti collaboratori di alto rango di Trump siano stati visti in preda alla commozione nelle ore successive all’attentato. Proprio Trump ha confermato per primo la morte del suo giovane alleato, nelle sue parole “grande, e leggendario”. C’è chi, come lo youtuber di estrema destra Benny Johnson lo ha definito “un martire”, e chi, come la star dei conservatori Megyn Kelly, è scoppiata a piangere durante una diretta streaming. L’anchor di Fox News, Jesse Watters, ha addirittura giurato vendetta.

La destra di governo degli Stati Uniti ha tutta l’aria di voler cavalcare e strumentalizzare la tragedia e non sorprenderebbe se Trump – che nei giorni scorsi ha inaugurato il Dipartimento della Guerra e minacciato di mandare l’esercito nelle città a guida progressista del Paese, minaccia poi ritrattata come da copione – decidesse di approfittare dell’omicidio Kirk per mettere in atto una nuova stretta repressiva.

“Se chiunque può essere colpito, persino un’importante personalità pubblica in un campus universitario davanti a migliaia di persone, le istituzioni hanno ancora il monopolio effettivo della forza?”

Con l’esecuzione di Kirk, importante esponente di un trumpismo apparentemente più rassicurante e “dal volto umano”, capace di convincere gli indecisi nelle università e nei  forum di discussione pubblica, gli Stati Uniti d’America sono entrati in una nuova fase di  normalizzazione della violenza politica. Un mutamento di paradigma che la vittima ha largamente contribuito a facilitare – d’altronde era Kirk medesimo a sostenere che un po’ di morti da arma da fuoco fossero “un prezzo ragionevole” da pagare per mantenere le libertà del Secondo emendamento – e che negli ultimi anni ha dato il via a una nuova stagione di vigilantismo: l’assalto di Trump al Campidoglio nel 2021 (il volano di affermazione personale di Kirk), il plot per rapire la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, e poi l’aggressione a colpi di martello a casa della Democratica Nancy Pelosi, l’assassinio dei legislatori del Minnesota Melissa e Mark Hortman, le fandom online di Luigi Mangione, dimostrano come il ricorso alla violenza sia oggi frequente negli Stati Uniti come mai prima, e come non lo è  in nessun’altra democrazia  occidentale. 

Nel Paese che per primo e più di ogni altro ha formulato e difeso l’equazione tra discorso intollerante e violenza materiale, il tabù della “giustizia privata” sembra definitivamente caduto. Reuters segnala che negli Stati Uniti i casi di violenza politica nella prima metà del 2025  sono raddoppiati rispetto all’anno precedente, e gli esperti credono che la morte di Kirk potrebbe portare a un peggioramento della situazione, sia nei gruppi radicali di destra che in quelli di sinistra.

Anche se non è ancora noto chi ha sparato a Kirk (e perché)   la macchina della propaganda si è già messa in moto: nella galassia del commentariat social si parla già di Kirk come vittima dei nemici della libertà di espressione, degli antifa (citati anche dallo stesso Trump) e delle lobby Democratiche. E, peggio ancora, la sua morte segna una resa dello Stato di fronte alla violenza: se chiunque può essere colpito, persino un’importante personalità pubblica in un campus universitario davanti a migliaia di persone, le istituzioni hanno ancora il monopolio effettivo della forza? Possono garantire protezione reale? Se la risposta, come sembra, è “no”, aspettiamoci una recrudescenza di militanze armate, gruppi di autodifesa e vigilantes che si sentono giustificati ad agire. 

Lo scenario più temuto nell’immediato, ovviamente, rimane l’escalation delle tensioni in una società già disperatamente polarizzata e atomizzata. Nelle ore successive all’attentato, gruppi armati legati alla galassia militante di destra hanno organizzato veglie con fucili in vista e bandiere Confederate, parlando apertamente di “vendetta”. Su Truth Social il presidente ha ritwittato, senza commento, una foto di Kirk circondato da un’aura dorata con la scritta “martire della libertà”, mettendo la firma su un racconto della destra che si coagula attorno all’idea dell’omicidio politico con mandanti i nemici di Trump. Il frame della guerra culturale permanente, ancora una volta.

“Nel Paese che per primo e più di ogni altro ha formulato e difeso l’equazione tra discorso intollerante e violenza materiale, il tabù della ‘giustizia privata’ sembra definitivamente caduto.”

Ma il rischio più grande, forse, è che nemmeno questo omicidio sortisca alcun cambiamento: non una stretta sulle armi d’assalto, né un limite al linguaggio incendiario della politica, né una riflessione sul ruolo delle piattaforme che amplificano odio e complotti. Assuefazione, si diceva: il ciclo rituale di indignazione, gare di battute edgy e lutto partigiano finirà, e l’America tornerà all’inerzia dello status quo, fino al prossimo tetro capitolo.

L’assassinio di Charlie Kirk non è soltanto la fine prematura di un wonder boy del trumpismo, ma il segnale che il Paese ha smarrito ogni viatico di convivenza possibile. La politica diventa guerra totale; la discussione diventa conflitto armato; la piazza universitaria si tramuta in trincea: se gli Stati Uniti del futuro somiglieranno sempre meno a una democrazia liberale e sempre più a un campo minato, l’assassinio di Charlie Kirk sarà uno di quei momenti a cui dovremo tornare con la mente.

Davide Piacenza

Davide Piacenza è giornalista e collabora a diverse testate. Il suo ultimo ultimo libro, che riprende temi della sua newsletter settimanale “Culture Wars”, si intitola La correzione del mondo (Einaudi, 2023).

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