Paola Caridi
Vincitrice del World Press Photo 2024, la “Pietà di Gaza” racconta il dramma dei palestinesi, per i quali non solo vivere, ma persino morire dignitosamente, è più difficile.
Il telo candido di cotone contiene la salma di Saly. Del suo corpo si intravede solo il volume, anche ingrandendo la foto sullo schermo del computer nel tentativo di metterne a fuoco i dettagli. È il volume del corpo di una bambina di cinque anni, racchiuso in un sudario, nel telo bianco e nell’abbraccio avvolgente della sorella della madre, sua zia Inas, una donna poco più che trentenne che nel ripiegamento del suo, di corpo, sembra averne cento, mille e mille, di anni. È la sopravvissuta che abbraccia la morte.
A guardare bene l’immagine, dei due corpi abbracciati non si vede nulla. Tutto coperto da stoffe. O per meglio dire, quasi tutto coperto. Il volto di Inas, la giovane donna, è completamente immerso nel sudario, il velo giallo senape a coprire la testa, la lunga tunica blu che rende ancora più irreale il biancore che contiene il corpo della bambina, disteso in diagonale, poggiato sulle gambe di Inas. Non è ancora il momento della sepoltura, c’è il tempo breve dell’abbraccio e di un corpo che non è ancora, e per sempre, disteso.
L’unico brano di pelle scoperto in questa Pietà di Gaza è quella mano, la mano di una donna annichilita dal dolore, poggiata sul sudario per l’estrema carezza. Saly è – era – una bambina palestinese di cinque anni uccisa assieme a sua madre da un bombardamento israeliano. A Khan Younis, sud della Striscia di Gaza, la città in cui è nato e vissuto Yahya Sinwar. Sono i primi giorni della guerra su Gaza. Dieci giorni dopo il maledetto 7 ottobre 2023. L’ospedale è però già pieno, al limite delle forze. I corpi degli uccisi vengono consegnati alle famiglie che in fretta devono preparare il funerale, la processione verso il cimitero, il rito della sepoltura. Tutto rigorosamente al maschile: sono gli uomini a seppellire, le donne ad aspettare il ritorno dal cimitero, anche se in Palestina la rottura della tradizione è sempre più evidente, soprattutto là, dove la morte arriva in fretta, e sono talvolta le madri che portano il feretro del figlio ucciso dai soldati israeliani.
La foto di Saly avvolta nel telo di cotone segna ancora l’inizio della guerra su Gaza. Allora non era immaginabile che l’incubo sarebbe passato – anche – dall’impossibilità di piangere la morte, di rendere un pietoso ossequio. Subito diventata virale nell’agorà digitale, l’immagine di Saly e di sua zia Inas è stata poi premiata come lo scatto dell’anno 2024 dal World Press Photo. L’icona inverata del ciclo silenzioso del dolore, un’immagine davanti alla quale inchinarsi, come in un tempio. Palestinese, e di Gaza, era Saly, di Gaza è anche colui che ha scattato la foto, come poi ha immortalato con la stessa delicatezza altri visi, corpi, salme, smorfie di dolore infinito. Il suo nome è Mohammed Salem, classe 1985, nato poco prima della Prima Intifada e della creazione di Hamas. Fotografo di punta dell’agenzia Reuters. Un professionista, come gli altri giornalisti palestinesi di Gaza che hanno sacrificato salute, vita, esistenze per rendere testimonianza dell’indicibile.
L’attimo della pietas è impresso nell’immagine scattata da Salem. Il seguito sta alla nostra immaginazione. Saranno gli uomini della famiglia a prendere Saly, racchiusa come una caramella in un sudario. La zia Inas rimarrà a piangere sua nipote, mentre gli uomini cercheranno un pezzo di terra dove seppellirla, come nella tradizione islamica, per la quale si seppellisce sottoterra. Nessuna deroga per loculi o costruzioni di questo tipo. Sotto la terra. Davvero è solo nella tradizione islamica? “Finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”, è scritto nella Genesi.
Non c’è, nel telo bianco che ricopre il corpo della bambina, l’eleganza del sudario del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino a Napoli, la ricercatezza delle pieghe del lenzuolo finissimo che ricopre Gesù. Lo ricopre in modo così leggero da mostrarne il volto, le rughe che aggrottano la fronte e compongono, paradossalmente, un’espressione rasserenata, in una delle sculture marmoree più ‘popolari’ della nostra tradizione artistica. Il sudario di Saly infagotta invece tutto, fa scomparire il corpo di Saly, e assieme a lei i corpi degli almeno diciottomila bambini uccisi dalle forze armate israeliane durante il genocidio. E assieme ai corpicini, le salme dei loro genitori, nonni, zii, fratelli e sorelle maggiori. Almeno sessantamila, nella prima conta delle vittime palestinesi.
La Pietà di Gaza è il simbolo di ciò che non si vede oltre il Mediterraneo, da oriente verso occidente. “Da noi”. I corpi delle decine di migliaia dei palestinesi di Gaza uccisi. Evanescenti, invisibili, se non fosse proprio per i corpi avvolti nei sudari, che hanno riempito, dopo le stragi compiute dall’esercito israeliano e dai suoi droni, le strade di Gaza già ingombre di macerie, o i cortili delle scuole divenute prima rifugio e poi improvvisati obitori. Goffi involucri bianchi, non più di cotone, ma di plastica. E poi, con il passare del tempo, questi involucri hanno cambiato colore, e si sono trasformati nel nero della plastica spessa, il nero delle body bag usate in tutto il mondo nelle catastrofi naturali o nei naufragi, tutti innaturali, dei migranti nel Mediterraneo.
“Il telo candido di cotone contiene la salma di Saly. Del suo corpo si intravede solo il volume, anche ingrandendo la foto sullo schermo del computer nel tentativo di metterne a fuoco i dettagli. È il volume del corpo di una bambina di cinque anni, racchiuso in un sudario, nel telo bianco e nell’abbraccio avvolgente della sorella della madre”.
“Quello che è successo a Gaza è stata una processione funeraria, ed è il modo in cui gli arabi, non solo musulmani, hanno gestito i morti per anni. Vorrei avessimo avuto il lusso di dare ai nostri sessantamila martiri i funerali a cui avrebbero avuto diritto, portando il loro feretro sulle nostre spalle, invece di essere costretti ad avvolgerli in buste di plastica e a gettarli dentro fosse comuni”. Mohammed al Kurd, palestinese di Gerusalemme, poeta, prova così su X il 21 febbraio 2025 – dopo cioè sedici mesi di guerra sulla Striscia – ad aprire i nostri occhi sui sudari di Gaza. Sulla gestione della morte a Gaza. Perché sono proprio i sudari di Gaza il segno, il simbolo di corpi che non vediamo. Della fisicità della guerra. Non servono bare, casse di legno (che pure vengono usate, scoperte, per trasportare le salme). A Gaza non c’è tempo da perdere. Si viene uccisi, si muore, e i corpi vengono rapidamente lavati (quando c’è ancora acqua da poter usare) e avvolti, spesso avvoltolati, nei sudari. Se possibile, seguendo il rito islamico della cura della salma che si riassume in pochi, necessari, obbligatori passaggi: per preparare la persona defunta alla sepoltura bisogna lavare il suo corpo, avvolgerlo in un sudario, profumarlo, pregare per lui o lei, e seppellire la salma.
Sono le regole della cura e sepoltura dei defunti. Nella terra desolata di Gaza, regole impossibili da seguire per i morti, ma che per proprietà transitiva si applicano anche ai vivi. Non c’è acqua, non c’è cura, per gli uni così indissolubilmente legati agli altri, i morti e i vivi, tanto da dar luogo a una danza macabra dolorosamente contemporanea. Vivi e morti assieme, in una processione funeraria in cui, fisicamente, bare e uomini in armi, sudari e madri dolorose riempiono l’intero spazio della guerra. E come nelle più classiche rappresentazioni iconografiche della danza macabra, la coreografia mette assieme morti e vivi, salvati e massacrati. I bombardamenti a tappeto degli israeliani, che hanno sostanzialmente azzerato edifici e urbanistica di Gaza, hanno reso la Striscia un cimitero, in mezzo alle cui tombe ballano come ologrammi militari e politici, presidenti e monarchi, opinioni pubbliche e immobiliaristi, giuristi e inquirenti, droni militari e l’agorà dei social.
Chi, tra i morti, ha potuto avere dei funerali – comunque frettolosi per non mettere a rischio i vivi – ha conservato il proprio corpo, seppur mutilato e violato. Ha conservato un simulacro attraverso cui i familiari possono sapere che il distacco è reale. Così non è per quelle diecimila anime che rimangono sotto tonnellate, milioni di tonnellate di cemento e ferro. Seppelliti sotto le macerie, nel cimitero di 365 chilometri quadrati che è la Striscia.
Chissà se non sia stato meglio essere spariti lì sotto, e non invece smembrati in mille pezzi, raccolti spesso dentro buste della spesa dai parenti, dai vicini di casa, da chi è arrivato subito dopo i bombardamenti, dopo i colpi lanciati dai droni militari: pezzi di carne sui quali piangere. I racconti dei parenti che aprono le buste della spesa sono un testamento della crudeltà subita, impresso nei video che inondano instagram e tiktok. Una busta della spesa come sudario postmoderno, nella folle ricerca della traccia di un corpo, cioè di una persona, a cui dare cura e sepoltura. Una citazione letteraria da brividi che ricorda i passi più profondi di Da un altro mondo, l’elegia in prosa sulle migrazioni scritta molti anni prima da Evelina Santangelo: Khaled, siriano, 13 anni, porta nel trolley rosso del suo periplo il corpo senza vita di suo fratello Nadir, in attesa di poterlo seppellire con dignità nella terra.
La morte nel genocidio di Gaza è quanto di più lontano dalla cura per i defunti statuita, codificata dalle regole islamiche che, ancora una volta, mettono al centro l’acqua come lavacro. L’abbondante acqua come cura definitiva, come pulizia dalle storture del mondo. L’acqua, la prima cosa a mancare a Gaza, dopo il 7 ottobre.
“Il tavolo di marmo era rettangolare e la sua base era circondata da una infossatura rivestita di piastrelle di ceramica bianca che si incanalava in un piccolo scolo”, racconta Sinan Antoon in uno dei suoi dolenti capolavori letterari, The Corpse Washer, dedicato – appunto – a quello che era una missione e un lavoro tradizionale, colui che lava i corpi dei defunti. Il piccolo scolo, continua Antoon, “portava l’acqua nel minuscolo giardino anziché nello scarico, perché l’acqua usata per lavare i morti non doveva mai mescolarsi con le acque di scarico.” Una ulteriore santificazione del corpo, anche nei suoi ‘umori’, lavati via e incanalati lontano dalle acque scure.
L’acqua usata per lavare i morti non c’è più a Gaza, da tanto tempo. Tantomeno quella per dissetare i vivi, dopo che gli israeliani hanno bombardato le riserve acquifere, le cisterne, i desalinizzatori, e impedito l’ingresso dei tir con l’acqua in bottiglia. Né ci sono più, fin dall’inizio, i teli per avvolgere i corpi, quei teli ben conosciuti dalla tradizione cristiana sono, oggetto di venerazione. Il sudario di Cristo, la Sacra Sindone conservata a Torino che – in un mistero irrisolto – continua a mostrare l’impronta del corpo di Gesù, del suo sangue, delle torture. L’impronta storica del corpo del divino. Per una cultura popolare, come la nostra, in cui un sudario è uno degli oggetti più venerati dai fedeli in Cristo, i teli funerari di Gaza rendono la sofferenza molto più vicina. È però la Sindone l’impronta della sofferenza. Non sono certo i sudari dei grandi ritratti del Risorto. Non è neanche il sudario divenuto toga che il Cristo di Piero della Francesca, nella Resurrezione di Sansepolcro, indossa dopo essere uscito dalla tomba. Sudario che da candido diviene rosa, rossastro, segno di potere e di vittoria.
Nessuna vittoria, nessun potere, nessuna resurrezione nella morte a Gaza. Tutto si è concentrato simbolicamente proprio su quei pezzi di tessuto subito scomparsi. Nell’ottobre 2023 è sparita immediatamente la mussola, il telo tradizionale per la sepoltura che si andava a comprare al mercato subito dopo la morte del parente. I kafan, i teli bianchi, di cotone o di più economico tessuto sintetico, sono stati i primi a scomparire, dalle bancarelle, dai negozi. È stato il primo segno che tutto era diverso, più rapido, più violento, incommensurabile rispetto alle precedenti quattro guerre israeliane su Gaza. “L’alto numero dei martiri ha trasformato il sudario bianco nel simbolo di questa guerra, in parallelo con la bandiera palestinese nella sua influenza e nella conoscenza che il mondo ha avuto del significato della nostra causa”, ha detto Marwan Al-Hams, il direttore dell’ospedale Abu Yousef Al Najjar, al corrispondente della Reuters. Nidal al Mughrabi, uno dei più stimati giornalisti di Gaza.
Lo stesso incedere del genocidio a Gaza ha seguito il colore dei sudari, che sono cambiati con la progressione, l’intensità dei bombardamenti. Spariti i kafan, ci si è affidati ai lenzuoli, alle bodybag bianche o nere. Ai sudari di fortuna. E di seguito, è comparso il blu elettrico delle body bag in cui gli israeliani hanno messo le salme prese dai cimiteri palestinesi, portate al di là della frontiera e, dopo un esame, riportate dai camion dentro la Striscia, senza nome, senza date, senza alcun dettaglio. Volevano capire se vi fossero alcuni degli ostaggi israeliani, tra le salme nei cimiteri.
E poi… poi anche la plastica è finita, e i morti sono stati avvolti nelle coperte sintetiche made in China. Le coperte spesse tipiche di tutto il mondo arabo, color crema e rosso acceso, color crema e azzurro acceso. Grandi fantasie, grandi fiori. Sulle coperte è difficile, impossibile persino dare nome ai defunti. Sui teli, di cotone o di plastica, era almeno possibile scrivere l’identità dei morti con un pennarello, in fretta, un sudario dopo l’altro. Oppure, una definizione anodina come “sconosciuto, uomo”. “Sconosciuta, bambina”. Scritte come monumenti al Civile Ignoto, perché la storia dei sudari riguarda i civili di Gaza. I miliziani delle diverse brigate, compresa Al Qassam, l’ala militare di Hamas, hanno celebrato i funerali degli uomini in armi durante il cessate il fuoco, come è stato subito mostrato dal 19 gennaio 2025 in poi.
“L’acqua usata per lavare i morti non c’è più a Gaza, da tanto tempo. Tantomeno quella per dissetare i vivi, dopo che gli israeliani hanno bombardato le riserve acquifere, le cisterne, i desalinizzatori, e impedito l’ingresso dei tir con l’acqua in bottiglia”.
Dare nome, dunque corpo, a un corpo da seppellire. Dare nome, dunque una possibilità di preghiera. Dare nome, e raccontare un amore. “Mio marito, il mio innamorato”, era scritto su uno dei sudari, come raccontato in questi sedici mesi dai testimoni ai giornalisti palestinesi. L’ultima lettera affidata alla terra assieme al compagno di una vita, mentre quella vita trascorsa insieme rimane impressa nelle macerie della loro casa. Oppure dare nome per l’ultima volta a chi ha ricevuto quel nome, scrivere – cioè – il nome di un figlio sul sudario che lo contiene. Ahmed, steso su una panchina del cortile di un ospedale, e i genitori seduti alla testa e ai piedi, in una postura da angeli che osservano il sudario e la scritta con il pennarello. Loro che, nella tradizione araba, al nome del figlio sono legati indissolubilmente. Il padre di Ahmed, la madre di Ahmed. Dare nome, e poi portare via le caramelle di corsa, tra un bombardamento e l’altro, spesso a braccia, o sui carretti trascinati dagli asini.
In quel nominare, in quel riconoscere è concentrato il tentativo, tenace, di conservare la dignità almeno dei morti. Tanti. Padri e madri, figli e figlie, intere famiglie le cui anime sono state spazzate via nello spazio di un attimo, e con loro un pezzo dell’anagrafe di un popolo. Tra le macerie, sotto le quali ci sono sepolti senza rito alcuno, ciò che resta di una comunità prova a non perdere il legame con i cari e con la Storia. Nella terra desolata.
“Quali radici si afferrano, quali rami crescono / su queste rovine di pietra?”
Thomas S. Eliot
In copertina A Palestinian Woman Embraces the Body of Her Niece. La foto appartiene a Mohammed Salem (Palestina)/Reuters, vincitore assoluto del World Press Photo 2024.
Paola Caridi
Paola Caridi è saggista, giornalista freelance e storica del Vicino Oriente. Il suo ultimo libro è Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi (Feltrinelli, 2024).
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