Le mie presentazioni - Lucy sulla cultura
articolo

Rosa Matteucci

Le mie presentazioni

26 Giugno 2025

Scrivere libri è ormai solo una minima parte del lavoro di un autore. Per venderli occorre infatti presentarli durante lunghi ed estenuanti tour promozionali. Che, nei peggiori casi, prevedono notti in alberghi di quart'ordine, ospiti inospitali e relatori impreparati e pettegoli.

Uscito il romanzo novità, solerti e avveduti estimatori tosto mi invitano a fare le cosiddette presentazioni, quanto di più irragionevole e faticoso mi tocchi per promuovere l’opera e rallegrare i lettori. Incontrare le genti mi aggrada, c’è sempre qualcosa da scoprire perché anche nello spettatore o convenuto più insignificante o derelitto occhieggia un barlume di anima che ci accomuna, se poi le genti accorse o precettate mi conoscono e, addirittura, hanno letto i miei scartafacci, la soddisfa è massima.

Ma se la causa prima del mio solingo avvento in sperdute località italiane è soltanto per il piacere di chi mi invita e pretende che io racconti ovvero riassuma quel che ho scritto, le stente tramucce mie, a un pubblico che nella stragrande maggioranza ignora persino il mio nome se non lo storpia, ecco che l’intrapresa di promozione ambulante trascende tosto nell’incubo proprio dello scrittore ignoto ai più ovvero relegato nella nicchia letteraria che poco differisce da un cesso alla turca celato da un graticcio dietro un pollaio, come era in uso un tempo nelle campagne per sgravarsi comodamente nonché concimare la terra.

Il romanzo nasce per essere letto, tentare di illustrarlo o peggio ancora raccontarlo lo svilisce, perché il piacere della lettura vive per ciascuno nella solitudine del suo gesto quasi sacro e in sovrappiù umilia lo scrittore. Tant’è il viziaccio delle sedicenti presentazioni sopravvive alle mode e alle catastrofi universali, ha dribblato il Kali yuga. Al giorno d’oggi si scrive Rosa Matteucci in dialogo con…, ecco una formula scimunita, che da sola basta a mandarmi fuori dai gangheri e mi fa arrotare i denti.

Di norma i presentatori o psicopompi, a meno che non mi conoscano per rodata antica frequentazione, ovvero mi stimino a priori affascinati non si sa da che, sono usi porre delle domande dementi che mi irritano, ovvero riassumono la mia biografia infarcendola di inesattezze e strafalcioni. La domanda più idiota che mi fu posta di recente fu: “Perché non scrive mai dialoghi?” Non li scrivo perché i dialoghi son appannaggio del teatro e nel romanzo servono soltanto a facilitare la lettura.

Li lascio sproloquiare per un po’ poi rivendico la parola e parlo soltanto io con grande diletto dei pochi presenti. Sulla scia di Cartagloria, il romanzo novità, principiai nel più crudele dei mesi, anche se non ho intravisto nemmeno un lillà, a peregrinare di su e di giù.

Si cominciò con le locandine dell’evento una più scellerata dell’altra, brutte, con colori squillanti e velenosi, pertanto disposi (previa minaccia di non comparire) di usare sempre e soltanto uno schema da me fornito, con l’immagine di copertina in un sobrio contesto di tinte neutre.

Sfangato l’horror delle locandine fai da te, si aprì la serie degli incontri dove a parte l’ospite non c’era quasi mai nessuno. I motivi accampati per giustificare l’assenza di spettatori son sempre gli stessi: una partita di pallone, una bella giornata, un pomeriggio di pioggia, la vigilia della festa patronale, un’altra presentazione ben più attraente alla stessa ora, del genere autobiografia del calciatore ovvero il memoriale della gieffina. Agli incontri per lo più deserti si accompagnano i miei tristi e solitari pernotti in albergo.

Dopo i fasti presentatori della capitale incendiata dall’apertura del conclave approdai in Maremma. L’accoglienza fu calorosa benché confusionaria e confusa, scortata da un prof di liceo che sembra una via di mezzo fra Mangiafuoco e il conte di Montecristo per le strade del centro storico, e caricata della soma di un fascio di depliant turistici, giunsi nell’arengo della presentazione.

Il pubblico non difettava avendo il suddetto professore precettato alunni, sottoposti, parenti e amici nonché un manipolo di signore buddiste. Assisa su una poltroncina elegante che avrebbe provocato la cifosi anche a un manico di scopa cominciai a raccontare quel che mi veniva in mente. L’affollato incontro fu da me interrotto per assistere coram populi all’annunzio dell’habemus papam.

Personalmente scambiai il proto diacono per il Papa stesso, ma non importa. Seguì brindisi a base di prosecco, sono astemia, e cena in ristorante di livello altissimo, dove lo chef mi consentì di pasturare delle erbe fresche, fra cui il temibile cerfoglio, di cui ignoro gli usi culinari, ma che vi assicuro incendia il cavo orofaringeo. Fui quindi, su mia richiesta perché vado a dormire presto, deportata nell’albergo prescelto per il mio soggiorno.

“Dopo i fasti presentatori della capitale incendiata dall’apertura del conclave approdai in Maremma. L’accoglienza fu calorosa benché confusionaria e confusa, scortata da un prof di liceo che sembra una via di mezzo fra Mangiafuoco e il conte di Montecristo”.

L’ostello intitolato alla Viscontessa di Culatello passa per essere un rinomato quattro stelle. L’edifizio sorge in uno spazio circondato da un pratino e due parcheggi cementizi, incombe un gran cartello che preannunzia l’esistenza e i piaceri di una spa. Costruito nei primi anni Ottanta e mai rimodernato già dalla hall tradiva la sua sgangherata venustà.

Mi diedero la camera matrimoniale: arredamento marron color cacca di cavallo stile anni Ottanta, lettone con il lusso di quattro guanciali, frigobar che non si apriva, megaschermo tv che non funzionava, affaccio su uno spiazzo di cemento punteggiato di cicche lanciate dalla finestra dai precedenti inquilini, in lontananza i familiari cipressi del camposanto.

Il bagno con sanitari e soprattutto rubinetterie d’epoca ossidate e consunte, sbiadite da troppi sfregamenti, il box doccia talmente opaco che ben vi si sarebbe potuto consumare un delitto senza essere visti. Nessun set di saponcini e affini. Ovviamente uno straccio di bollitore con due bustine di the non c’era, sarebbe stato l’unico accessorio che m’avrebbe confortato, perché come tutti sanno la familiare presenza di un bollitore nella stanza d’albergo, rende il pernotto più piacevole.

Mi sistemo nel talamo e dopo svariati inani tentativi riesco a accendere infine la rediviva tv a volume minimo, volevo ascoltare le notizie sul Papa appena eletto, finché verso le ventidue eccoti attaccarsi un compressore. Tolto il volume della tv, che era soltanto a sette decibel, la turpe verità che sospettavo si fa realtà, dietro a una frale parete di foratini ronfa un cliente dell’albergo.

Immantinente chiamo la pretenziosa reception presieduta da una rumena enigmatica che mi risponde che non può cambiarmi di camera perché l’albergo è completo. Ma quando mai? Ma chi mai alloggerà in quello speco di giovedì sera? Al che le ribadisco che se non mi cambia la stanza lancerò la poltroncina in dotazione contro il muro finché il vicino non si desti. La portiera di notte mi attacca il ricevitore in faccia.

In camicia da notte e ciabatte indossato il cappotto sopra, vado a bussare dal malnato confinante che si desta con un urlo di terrore, lo rimprovero perché russa e mi disturba quello si scusa e si rimette a grufolare. Squilla il telefono. La malnata bugiarda receptionist mi sposta di camera non prima di avermi mandato fuori dai gangheri asserendo che per compiacermi avrebbe fatto spostare un altro cliente.

Ma come si permette di dire una simile baggianata? Medito di strangolarla per l’infingardaggine. Sempre con il cappotto sopra la camicia da notte discendo nella hall, la villana mi porge la chiave della nuova stanza. Vorrei incenerirla. In solitaria processione con il cappotto, le ciabatte, il bagaglio raffazzonato nonché le mutande che avevo appena lavato, non tollero di rimettere in valigia i panni sporchi, a mo’ di braccialetto (Balenciaga scansite) ho raggiunto il piano superiore.

La stanza era nel sottotetto qui invece del matrimoniale due letti alla francese, con solo due guanciali invece di quattro, schermo tv dieci pollici, un finestrino sgangherato stile feritoia e moquettona ricettacolo di afidi risalenti ai primi anni ’80. Al piano dove ero alloggiata prima ci sarà stata la medesima moquettona che per decoro tolsero. Si fece così l’alba. Verso le sei e trenta mentre garrule le rondini volteggiavano in cielo sono scesa nuovamente nella hall, ma senza cappotto.

Avrei voluto almeno un the ma non era possibile perché le sedicenti colazioni sarebbero state servite alle ore sette, difatti una torva ennesima rumena si dava da fare nel pretenzioso ristorante “La bergamotta”. Osai affacciarmi e quella mi scacciò in malo modo. Ebbi l’agio di occhieggiare le approntanti colazioni: marmellate di provenienza slava del tipo purea di acqua zucchero e coloranti, monoporzioni di fette biscottate con olio di palma e palmizio, e infine un sacchetto opaco di plastica trasparente con i resti di una colomba sopravvissuta al banchetto pasquale tenutosi nel pretenzioso ristorante.

Su suggerimento dell’offesa receptionist raggiunsi l’American bar: qui il portiere di notte titolare, un signore sputato al regista Luchetti si offrì di farmi un caffè, almeno quello era di marca. Siccome bevo solo caffé all’americana gli specificai un espresso in tazza grande con acqua calda a parte e quello stentava a capire.

“In camicia da notte e ciabatte indossato il cappotto sopra, vado a bussare dal malnato confinante che si desta con un urlo di terrore, lo rimprovero perché russa e mi disturba quello si scusa e si rimette a grufolare”.

Me lo servì nella tazzina da espresso e alla mia domanda di come avrei potuto allungarlo lui disse un po’ alla volta, meglio di una favola di Esopo. Riguadagnai il ristorante. Giunsero gli altri malcapitati ospiti: due donne modestamente vestite con taglio di capelli alla Calandrino, frangettone, tinta mogano come gli arredi delle stanze, che mignolo sollevato degustarono due cornetti surgelati e precotti, con fare signorile. Altri omuncoli affannati giunsero fra cui tentai invano di riconoscere il vicino di stanza. Che infine si appalesò come bonario sessantenne nemmeno tanto corpulento, chierica e capelli schiacciati sulle tempie, lamentandosi con altro sciagurato cliente del fatto che non aveva potuto dormire perché una pazza gli bussava alla porta. Lo sciagurato si servì una generosa porzione di colomba.

Dalla Maremma finii a Lodi nel feudo del Pietrificatore, le mie avventure pavesi saranno oggetto della seconda puntata delle mie memorie presentatorie.

Rosa Matteucci

Rosa Matteucci è scrittrice. Il suo ultimo libro è Cartagloria (Adelphi, 2025).

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