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Loredana Lipperini

L’editoria indipendente non può andare avanti così: oltre Più Libri Più Liberi

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La presenza alla fiera di un editore che pubblica, tra gli altri, testi francamente nazisti, ha innescato una protesta accesa. Durante i giorni di PLPL è nata un’assemblea spontanea che ha visto tantissimi partecipanti discutere con passione dei molti problemi che affliggono la media e piccola editoria italiana. Che fare ora?

Cominciamo dalla fine.

È il 7 dicembre, penultimo giorno della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Più Libri Più Liberi e nella sala Aldus si svolge un’affollata e appassionata assemblea dove partecipano coloro che i libri li fanno, li pubblicano, li traducono, li scrivono.
Prima di proseguire, però, bisogna ricordare perché tutte queste persone hanno infine sottolineato e condannato una serie di contraddizioni presenti da anni, e che vanno addirittura oltre lo stand di un editore di simpatie neonaziste alla Nuvola.

La prima: l’organizzazione della fiera fa capo all’Associazione Italiana Editori, la quale conta tra i suoi membri più rilevanti quattro grandi gruppi editoriali che detengono la maggioranza del mercato, ovvero Mondadori, Gems, Giunti, Feltrinelli. La contraddizione dovrebbe essere già chiara, ma ce n’è una seconda: nel nostro Paese un editore può essere anche distributore, promotore e gestore di una catena di librerie. La terza è che la Fiera della Piccola e Media Editoria ospita ogni anno uno spazio, l’Arena Robinson, dove intervengono autori e autrici di grande risonanza che pubblicano con uno dei quattro gruppi editoriali di cui sopra, e che quindi poco hanno a che vedere con la piccola e media editoria: attirano sicuramente pubblico ma nei fatti lo distolgono da quel che avviene al piano terra della Nuvola, dove c’è fisicamente la piccola e media editoria.
Naturalmente ce n’è una quarta: pensiamo ancora a quei piccoli e medi editori che affollano il piano terra medesimo, un lunghissimo spazio dove si affastellano pubblicazioni importanti e di qualità che non sarebbero arrivate in Italia se non grazie a scelte coraggiose, ma anche gingilli, gadget, calendari e giochi. Ma in quegli stand si trovano anche editori che si fanno pagare migliaia di euro per pubblicare un testo. Nonché altri, peraltro di pregio, che non pagano collaboratori, redattori, traduttori. O li pagano pochissimo.

Come si vede, parlare delle questioni esplose nell’ultima edizione di Più Libri Più Liberi non significa solo parlare dell’ammissione fra gli stand di Passaggio al Bosco, peraltro non una semplice casa editrice, visto che nella collana Educazione e Formazione pubblica manuali per formare “la nuova élite militante”, scritti da SS. Significa invece provare a venire a capo del perché quella casa editrice, come altre, è stata ammessa: ovvero, la fiera è nei fatti mercato, dove i libri sono appunto equiparabili a gingilli e gadget.

Sarebbe ingiusto, certo, scrivere che la fiera è solo questo, perché negli anni a Più Libri Più Liberi si sono avvicendati testi e autori e autrici di grande valore. Ma il caso di Passaggio al Bosco ha scoperchiato un calderone che ribolle da tempo e che sta eruttando come un vulcano negli ultimi anni, complice il calo delle vendite, l’assottigliarsi della bolla delle rese (di cui si è già parlato) e il potere mai contestato della distribuzione. Su cui forse vale la pena soffermarsi per qualche riga, ricordando che Ceva Logistics Italia ed Emmelibri (Messaggerie) – le due grandi aziende che gestiscono la logistica libraria – fino al 2032 sono in partnership attraverso C&M Book Logistics SrL, nonché creatori della Città del Libro di Stradella, e controllano le spedizioni dei libri in uscita o i rifornimenti verso le librerie, e anche il meccanismo della sovrapproduzione, perché è a Stradella che arrivano le famigerate rese, le copie non vendute che vengono restituite dai librai agli editori i quali, appunto, pubblicano ripetutamente nuovi libri per compensare la perdita. Fra i clienti (e qualcosa di più) di Ceva (o Messaggerie) ci sono ancora una volta tre dei quattro grandi gruppi editoriali, quelli che appunto si spartiscono la maggior parte del mercato editoriale e nei fatti gestiscono la fiera della piccola e media editoria.

Cosa c’entra tutto questo con gli editori che stampano i manuali delle SS? Molto. Perché le proteste che hanno caratterizzato Più Libri Più Liberi 2025 sono state l’innesco per riflettere su una situazione che da molto tempo non torna a chi investe soldi, e non pochi, per affittare uno stand, portare i propri autori, pagare viaggi e soggiorni e finisce con il vendere molto poco. È il meccanismo generale che ha portato alla possibilità di includere quell’editore a Più Libri Più Liberi e, a seguire, alla lettera di protesta di un centinaio di autori e autrici, alla rinuncia alla fiera da parte di altri e al solito meccanismo vado-non vado-critico chi ha una posizione diversa dalla mia-dimentico. Eppure, sarebbe bastato guardare con attenzione a quel che dice Zerocalcare nel video con cui annuncia la sua mancata presenza, e si chiede quando mai cominceremo a discutere, ma davvero, di quello che succede intorno a noi e nelle fiere culturali.

“Il caso di Passaggio al Bosco ha scoperchiato un calderone che ribolle da tempo e che sta eruttando come un vulcano negli ultimi anni, complice il calo delle vendite, l’assottigliarsi della bolla delle rese e il potere mai contestato della distribuzione”.

A fiera conclusa, con presenze a quanto pare in calo, e senza (per la prima volta) date precise sull’edizione 2026, un gruppo di editori ha scritto all’Aie, ricordando la protesta pacifica con cui molti di loro hanno contestato, chiudendo gli stand per mezz’ora, la presenza di Passaggio al Bosco, e chiedendo che a partire dal prossimo anno “non vengano ammesse in fiera case editrici che, per catalogo e comunicazione, risultino apologetici del nazifascismo e delle sue derivazioni”. E aggiungono: “Le fiere del libro non sono solo luoghi di mercato, perché il libro non è solo un oggetto in vendita, ma lo spazio in cui si forma ciò che riteniamo pensabile, dicibile, discutibile. Non possiamo ignorare il significato che assume chi abita quello spazio”.
Ed ecco il punto. Cosa dovrebbe essere una fiera? Alessandro Trocino, nella newsletter del «Corriere della Sera», se lo è chiesto:

“Che cosa sono diventate le fiere dei libri? Fucina di idee o giganteschi ipermercati della carta? Templi del pensiero o outlet che somigliano sempre più a empori dove puoi trovare in vendita croci celtiche e gonfiabili per bambini, stand di spiritualismo esoterico e postazioni studiate per ‘decolonizzare lo sguardo’. Tra distese di Pera Toons e bigini su Matteotti, ci si può finalmente chiedere: che ci faccio qui? Davvero voglio passare il mio pomeriggio tra questa gente? Che ci facciamo in questi shopping center del pensiero? Perché decidiamo di bighellonare nella Nuvola, soffermandoci sul nuovo libro di Claudia Koll? Chi era poi, una soubrette, una suora, una filosofa? E se poi, a un certo punto, mi imbatto nella croce celtica sul banchetto e sollevo lo sguardo e c’è un giovanotto con lo sguardo truce che immagino fedele al motto ‘il mio onore è la lealtà’, che faccio? Lo imbruttisco, come dicono a Roma, o mi limito a una smorfia di disprezzo?”

Già, che facciamo? Torniamo a quella data, il 7 dicembre. Chi scrive doveva presentare nello spazio della Sala Aldus, assegnato a Tlon, la ristampa di un libro, Mozart in rock, scritto all’inizio degli anni Novanta e tornato in circolazione oggi. Con l’editore, si è deciso di offrire quello spazio, cui si è aggiunta la sala Elettra nell’ora successiva grazie alla generosità di Strade, il sindacato delle traduttrici e dei traduttori, per discutere di tutti i punti critici della fiera. Nei fatti, dunque, dalla protesta per l’ammissione di Passaggio al Bosco, e dunque per il doppio binario usato da organizzazione editoriale e commerciale, si è arrivati a parlare di tutti i temi caldi, che sono quelli che in parte conosciamo già.

Perché considerare i libri solo come merce significa ammettere che tutte le idee sullo stesso piano in quanto gli spazi sono commerciali. Ma a questo punto bisogna interrogarsi su chi controlla il meccanismo commerciale medesimo. Emmanuele Jonathan Pillia (editore e organizzatore di una piccola fiera indipendente di letteratura di genere, Oblivion), ha citato un paio di aneddoti che vale la pena riportare: “Una volta, dopo che Messaggerie aveva ‘notificato’ che avrebbe applicato una tariffa mensile per un software – indipendentemente se questo fosse utilizzato. Alla richiesta: ‘non voglio usarlo, non fatemi pagare 20 € al mese’, la risposta è stata ‘Non possiamo farlo’. Una volta, dopo che Informazioni Editoriali ha imposto una tariffa aggiuntiva annuale per il ‘diritto’ di vendere i nostri metadati alle piattaforme (avete capito bene: io pago affinché questa struttura venda i miei dati), gli editori si rivoltarono. La loro risposta è stata letteralmente fare un sorriso e fare spallucce”.

E ancora. Il tema caldissimo è quello del lavoro culturale, di cui per un po’ si è parlato in rete dopo un post con cui Jonathan Bazzi rendeva nota l’esigua cifra del suo conto corrente, e in quel caso, sempre per un po’, si è discusso del fatto che scrittori e scrittrici non vengono retribuiti quando presentano i libri degli altri esattamente nelle fiere ma anche in molte manifestazioni letterarie. Però, al solito, il problema non riguarda solo chi scrive. Alla Nuvola è stato distribuito un volantino di Redacta, gruppo che si occupa proprio di lavoro editoriale, con una cifra: 17.660 euro l’anno è il reddito di chi lavora nel settore. Quindi, come diceva Maura Gancitano, romanticizzare il lavoro culturale significa non capire che il medesimo è a rischio sopravvivenza: “Quante delle case editrici presenti ci saranno ancora il prossimo anno? Quanti lavoratori verranno, per esempio, sostituiti dall’intelligenza artificiale?”. Già oggi, ha ricordato Strade, l’80% delle traduttrici percepisce 10 o 12.000 euro l’anno. Non solo: come nelle migliori tradizioni capitaliste i lavoratori sono messi in concorrenza fra di loro. E li si sprona pure, dicendo che il settore cresce solo se cresce la produzione. Dunque, il ritmo diventa sempre più incalzante. (Per paradosso, il giorno prima ho partecipato a un incontro su Severino Cesari. Dove tutti hanno ricordato il tempo lungo di Severino, e il modo in cui faceva saltare le scadenze per rispettare gli autori. Altri tempi, appunto).

Dunque? Dunque l’idea, rilanciata un po’ da tutti e accolta da Della Passarelli di Adei, è fare tesoro della rabbia, dello sgomento e di tutto quel che è uscito da questa edizione della fiera: e convocare in primavera gli Stati Generali dell’Editoria. Per provare a parlarne ancora e parlarne meglio.

E per finire con la fine vera: al termine della discussione ha preso parola una lettrice, si è presentata così. Ha detto: “dovete avere fiducia in noi che leggiamo. Io vengo qui per trovare libri che non trovo altrove. Ma se ve ne andate da qui, noi vi seguiremo”.

E comunque vada la questione è sempre una: fare rete. Sempre un articolo di Redacta cominciava così: “C’è qualcosa di peggio di lavorare? Sì: farlo in solitudine, farsi-da-soli”. E non parlarsi. Sarà una mia fissazione, ma mi risuonano sempre le parole di Ernesto De Martino, nel 1952, quando diceva che gli abitanti più poveri di Eboli volevano soprattutto una cosa, questa: che ”le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo”. Vale sempre.

Loredana Lipperini

Loredana Lipperini è scrittrice, saggista, blogger, attivista culturale e docente. Il suo ultimo libro è Il segno del comando (Rai libri, 2024).

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