Emanuele Atturo
Anche il torneo di tennis più antico e prestigioso, negli anni ha dovuto innovarsi e scendere a compromessi. I suoi cambiamenti – tra kitsch ed eleganza, riti e tradizioni – non raccontano solo le contraddizioni del tennis moderno, ma anche quelle dell'Inghilterra e della contemporaneità.
L’erba cresce di notte e, quando cade una pioggia tiepida e leggera, drizzando bene l’orecchio, si può sentire che viene su. Lo pensava Robert Twynam, per quarant’anni giardiniere di Wimbledon, che ha custodito la perfezione dei campi, consolidandone il mito.
Era un uomo basso e asciutto, baffi a manubrio, capelli pettinati con una piega all’indietro. Lavorava sotto il sole sempre in camicia, portava degli occhiali da vista appuntiti verso l’alto, agli angoli. Ogni giorno entrava sul campo centrale, si metteva carponi e perlustrava i fili d’erba uno alla volta. Dovevano essere lunghi 8 millimetri, né più né meno: la lunghezza ideale per il gioco del tennis. Twynam accarezzava il prato, e poi gli dava dei buffetti mettendosi in ascolto: aveva imparato a riconoscere il suono che deve fare un manto perfetto. Viveva da mistico medievale e parlava come tale: “Ogni filo d’erba è un individuo”, diceva.
Era l’unico abitante del circolo, teneva un diario quotidiano sullo stato del campo centrale e pregava, ogni giorno, perché tutti i parametri climatici si aggiustassero sull’ideale utile all’erba. Pregava per la pioggia, quindi, ma solo dalle 22.30, quando le persone erano già rientrate dal pub, e pregava per il sole, quando i campi rischiavano di inzupparsi troppo. La storia di Twynam è raccontata in un celebre profilo di John McPhee uscito sul «New Yorker» (tradotto in Italia da Matteo Codignola per Adelphi: Tennis, 2013).
Parlare di Wimbledon girando la prospettiva dalla parte dell’erba ci costringe a prestare attenzione a ciò che, silenziosamente, costruisce l’aura del torneo; quel senso di pace sacra, di rilassatezza borghese, che solo il campo inglese riesce a restituire. I passi felpati dei giocatori negli spostamenti laterali, i piccoli tonfi quando si precipitano a rete, le quasi mute battute delle palline: l’acustica di Wimbledon è più tenue di quella delle altre superfici, dello sfrigolio della gomma sul cemento americano, delle violente spazzate delle suole sull’argilla rossa europea. Wimbledon è un mondo acustico a parte, più soffuso, più vicino alla dimensione del silenzio che sembra la condizione naturale del tennis. È dunque, l’erba, una componente essenziale dell’atmosfera sacra che da sempre viene associata al torneo, e in particolare al suo campo centrale “Il tempio del tennis” – o “il Vaticano del tennis” secondo la definizione di Giorgio Bassani. L’erba, dunque, non solo nella sua dimensione pratica, negli effetti che produce negli stili e nelle strategie di gioco, ma soprattutto come componente estetica, e simbolo supremo del sistema di valori del torneo.
Durante Wimbledon, specie nei primi giorni, si sottolinea con rapimento estetico il “verde smeraldo” dell’erba, il pantone 349 C. Vediamo i giocatori camminarci sopra, eseguire i primi palleggi disinvolti, e la perfezione e l’esattezza dei gesti si mescolano con un senso di colpa per l’infrazione del verde. Il manto si mostra così impeccabile da sembrare troppo fragile e inadatto all’esercizio competitivo; abbiamo paura si danneggi, non può ospitare i corpi ipertrofici degli sportivi contemporanei.
“L’erba cresce di notte e, quando cade una pioggia tiepida e leggera, drizzando bene l’orecchio, si può sentire che viene su”.
Il tennis moderno nasce su erba, recuperando alcune regole di sport praticati al coperto, con palline e racchette, tra Francia, Spagna e Italia tra Cinquecento e Settecento. Gli inglesi hanno piantato una rete su alcuni dei loro incredibili prati e, nel 1877, si è disputata la prima edizione di Wimbledon. Il fatto che il primo torneo della storia sia ancora oggi il più importante racconta il rispetto del tennis verso i propri miti. Giocare a tennis su erba nel 2024 non è un dato da dare per scontato: parliamo di una superficie scivolosa, viscida, fragile e molto volubile ai cambiamenti climatici. Il gioco su erba è in contraddizione con diversi canoni del tennis contemporaneo. Ci si sta in equilibrio a fatica, la pallina corre veloce ma imprevedibile. Per questo l’erba ricopre un’importanza marginale nel calendario tennistico: a questa superficie sono dedicate appena 3 settimane di preparazione, una manciata di tornei esotici e nessun Master 1000 (la seconda categoria, per importanza, nel circuito). Oggi il gioco dei tennisti è strutturato soprattutto attorno al cemento.
Non si tratta solo di erba ma di ciò che rappresenta. Gli inglesi sono ossessionati dal prato e dalla sua tosatura, diventata una forma di meditazione quasi ottusa, irrinunciabile per molti cittadini. Nel 2022 è diventato virale il video di una cerimonia di matrimonio tenuta nel giardino di una casa e disturbata dal vicino che non smetteva di tosare il prato. Il prato è uno dei simboli dell’Inghilterra, o quantomeno del suo rapporto con la natura, domesticata e ridotta a un comodo supporto per l’attività umana. Il prato è una forma appena percepibile di vita naturale e il suo mantenimento su una lunghezza ideale è un esercizio base di controllo del rigoglio vegetale (non è un caso forse che sempre McPhee, l’autore del profilo su Twynam, abbia scritto un altro libro intitolato Il controllo della natura). La cura del prato non è nemmeno definibile davvero giardinaggio, si tratta più di design dello spazio. Per mantenere un prato alla sua lunghezza ideale occorre un esercizio di cura incessante; è un’arte della conservazione, un tentativo di arrestare l’entropia, di indirizzarla in qualcosa di utilizzabile, a misura d’uomo, di trasformarla in qualcosa di diverso, con una sua artificialità: la morbidezza irreale, i colori accesi. Abbiamo a lungo amato crederci padroni di una natura violenta e ancestrale che, in epoca di crisi climatica, sta diventando sempre più fuori controllo. L’erba di Wimbledon è allora forse un rifugio pacifico al caos del mondo.
Il tennis in generale, del resto, sembra svolgere una sua funzione terapeutica, per chi ci gioca. Poggiamo la nostra borsa sulla sedia, stappiamo un tubo di palline nuove – i più feticisti lo annusano; poi prendiamo il nostro posto a fondo campo, esattamente dove dobbiamo essere, inghiottiti dalle geometrie rassicuranti del perimetro, e cerchiamo di assumere una specie di grazia minerale, mossi dall’intricata rete geometrica degli scambi. Questo effetto terapeutico, il tennis ce lo provoca anche da spettatori. È un’esperienza estetica illusoria che nasconde la violenza psicologica di uno sport che è individuale e mentalmente e fisicamente duro. Uno sport in cui i corpi degli atleti continuano ad andare in pezzi e che ai massimi livelli presenta una struttura ferocemente piramidale, elitista, e con un sistema di punteggio incomprensibile per gli appassionati di altri sport (è uno sport ad alto punteggio, ma non vince chi fa più punti).
Wimbledon è il torneo che più di tutti vuole occultare, o sublimare, queste ruvidezze. Ci vuole far credere che il tennis resti uno sport per gentiluomini vittoriani, e che il tempo sia un alleato gentile. Le cose possono cambiare, a Wimbledon, ma si rimane sempre confortati dal balsamo delle tradizioni e dai suoi simboli: la coppa di fragole con la panna che si mangia in tribuna, i cancelli di bronzo con cui si entra al circolo, i cappelli di paglia a tesa larga, le incursioni della casa reale, la collina riservata alla plebe e il “Royal box” per i nobili, rivestiti del loro outfit stravaganti, o ingessati, sempre chiacchierati e debitamente recensiti nei giorni successivi. Una zona indefinibile tra chic e kitsch tipicamente inglese.
“Gli inglesi sono ossessionati dal prato e dalla sua tosatura, diventata una forma di meditazione quasi ottusa, irrinunciabile per molti cittadini”.
L’attuale capo-giardiniere di Wimbledon, Martyn Falconer, è un uomo sorridente, piazzato e decisamente meno eccentrico di Twynam. L’ossessione per l’erba è la stessa, però, e quando si avvicina il torneo, a luglio, viene consultato come massima eminenza del prato all’inglese: “Come copiare i colori del mio Campo Centrale con 8 piante iconiche e prezzi a partire da 1 sterlina e 99” è il titolo di un articolo a lui dedicato, sul Sun. In una recente intervista Falcomer sintetizza l’equilibrio richiesto dal suo lavoro: “La cosa più difficile è inventarsi ogni anno qualcosa di nuovo restando nello schema della tradizione”.
La sintesi tra innovazione e tradizione, tra conservazione dell’esistente e apertura al nuovo, è ciò che ha caratterizzato la storia di Wimbledon, e a ben pensarci di tutta l’Inghilterra. È il torneo più antico al mondo, ma anche il più mediatizzato e il più ricco. Il passare del tempo non ne ha causato il declino, ma gli ha donato una patina di nobiltà e prestigio. Un carattere al confine tra autenticità e cliché, anche questo molto britannico, diventato un prodotto da spendere commercialmente. Il verde (e il viola del logo) sono diventati un brand, un marchio legalmente registrato. Gli sponsor ufficiali devono rispettare linee guida più rigide che in ogni altro torneo, e trovano a Wimbledon un ambiente ideale per vendere i loro marchi di lusso e benessere. La lista dei partner del torneo è la crema del capitalismo occidentale bianco e borghese: Porsche, Rolex, American Express, Range Rover, Evian, Lanson, Ralph Lauren.
Ogni tanto si apre una crepa. Maxime Janvier, 27 anni, numero 225 del ranking, giovedì è riuscito a qualificarsi al tabellone principale; si porterà a casa un montepremi di circa 80 mila euro anche dovesse perdere al primo turno. Dopo il matchpoint ha continuato a gridare: “La casa! La casa!”: un sollievo per il futuro investimento immobiliare con cui noi comuni mortali possiamo empatizzare, ma che di certo stride in un contesto così laccato, che sembra avere, tra i suoi scopi, quello di farci dimenticare le preoccupazioni materiali. Wimbledon vuole venderci un’Inghilterra ormai illusoria, priva di conflitti, in cui le classi sociali collaborano tra loro e non c’è odio, non esiste Brexit o Boris Johnson o povertà. È, in questo, un prodotto simile a serie come The Crown, o Downton Abbey, che in tempi incerti hanno cercato di ricostruire l’immaginario di un’Inghilterra dalla forza mite, solida pur nelle contraddizioni, capace di stare al passo della modernità conservando un’identità démodé.
L’erba di Wimbledon sembra sempre la stessa, ma non lo è. Le semine sono cambiate nel tempo, in una faticosa lotta con l’evoluzione del tennis. Le racchette sono più grandi e leggere, capaci di sprigionare delle velocità che renderebbero impraticabile il gioco sulla vecchia erba del campo. Dai primi anni del 2000 si è cominciato a rallentare, per permettere scambi di una lunghezza accettabile. La fase di transizione, nella seconda metà degli anni Novanta, aveva prodotto partite fulminee, sequenze interminabili di servizi, risposte a rete o volée vincenti.
Resta una superficie anomala: se si stila una classifica dei migliori giocatori sul verde negli ultimi anni, si ottiene un quasi completo sconvolgimento rispetto al normale ranking del circuito. Eppure una partita di oggi a Wimbledon offre uno spettacolo totalmente differente rispetto a una partita di trent’anni fa. Possiamo dire che si tratta di due sport diversi. Sono cambiate le tecniche, gli stili, i materiali e i corpi dei giocatori. Il gioco a rete, che era imperante all’All England Club, è quasi del tutto scomparso. Eppure, di nuovo, Wimbledon fa un grande sforzo per darci l’impressione che niente di sostanziale sia davvero cambiato con il tennis contemporaneo – con la sua crescita mediatica ed economica – rispetto a quando, ormai quasi centocinquanta anni fa, si è giocata la prima edizione del torneo (200 spettatori, 1 scellino il costo del biglietto). In questo è stata aiutata negli ultimi decenni da Roger Federer, una sintesi neoclassica perfetta per il brand del torneo: l’ideale del tennista moderno ma vintage. Stoico, silenzioso, elegante, capace di scivolare a qualche centimetro dal prato, senza staccarne un singolo filo. Federer è stato importante per trasportare il mito di Wimbledon intatto nella contemporaneità, al contrario di Djokovic, che qui è sempre stato trattato sempre come un antagonista, e non si è mai sentito a casa a Londra, pur avendo vinto sui prati un solo Slam meno di Roger.
Lo scorso Wimbledon ha ospitato la partita più bella dell’anno, la finale tra Djokovic e Alcaraz. Il giovane talento ha sconfitto il vecchio maestro con un gioco estroso e brillante. Alcaraz non è particolarmente aggraziato, i suoi movimenti sembrano sempre un po’ affettati, si muove in campo in modo troppo esplosivo – lontano dal principio d’economia che dovrebbe guidare un grande giocatore d’erba. La creatività con cui disegna il campo, con traiettorie impreviste e geniali, è però quella di chi potrebbe vincere il torneo tante volte (il che, a Londra, significa alzare il piatto dorato e avere l’onore di danzare con la vincitrice del torneo femminile durante la cena ufficiale). Il sorteggio gli ha messo di fronte Jannik Sinner in un’eventuale semifinale: è la rivalità che Wimbledon cerca di spingere, sui suoi canali di comunicazione, già da un paio d’anni, da quando cioè l’italiano era riuscito a battere Alcaraz in una delle partite più spettacolari dei tempi recenti.
“Wimbledon fa un grande sforzo per darci l’impressione che niente di sostanziale sia davvero cambiato con il tennis contemporaneo – con la sua crescita mediatica ed economica – rispetto a quando, ormai quasi centocinquanta anni fa, si è giocata la prima edizione del torneo”.
Da campione in carica, come da tradizione, Alcaraz avrà l’onore di inaugurare il campo centrale dell’All England Club. Sarà il primo a calpestare la sua erba. Negli ultimi giorni del torneo il prato appare stanco. Il verde incantato dell’inizio rimane solo nei pressi della rete, dove i giocatori vanno sempre meno volentieri; a fondo del campo l’erba comincia invece a sbiadire, si apre in grosse chiazze sabbiose, su vari gradi di marrone. Quando Alcaraz scenderà in campo, però, il verde sarà quello immacolato di sempre. Ci saranno i cappelli a tesa larga, le cravatte regimental a strisce verdi e viola, le fragole con la panna. Durante il lancio della prima palla di servizio tutto lo stadio tratterrà il respiro, per far piombare il mondo nel silenzio più profondo. Tutto sarà cambiato, ma tutto ci sembrerà come è sempre stato.
Emanuele Atturo
Emanuele Atturo è caporedattore di «l’Ultimo Uomo». Ha scritto Roger Federer è esistito davvero (66thand2nd, 2021).
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