Gaia Manzini
25 Agosto 2025
Per cinquant’anni, il centro sociale più famoso di Milano ha tenuto insieme politica, aggregazione, musica e cultura alternativa. La sua chiusura ribadisce la distanza crescente fra la metropoli e chi la abita.
L’ultima volta che sono andata al Leoncavallo era prima di diventare madre, prima di trasferirmi a Roma, prima di cambiare lavoro. L’ultima volta che sono andata in via Watteau ero con un’amica e c’erano i produttori di vino e il consumo critico e il patto tra esseri umani e natura – o almeno credo, non ricordo con precisione. C’erano anche gli stand dei piccoli editori – o forse quella era un’altra volta, forse ero più giovane, e mi dicevo che sarebbe stato bello pubblicare. Anzi, non me lo dicevo per niente: è un dettaglio che aggiungo ora – o forse no.
Il fatto certo è che ero al Leoncavallo, il centro sociale più importante di Milano, dove tutti sono stati almeno una volta o comunque ne hanno sentito parlare. Tutti lo hanno criticato o amato; ne sono stati affascinati o lo hanno rifiutato; ci sono tornati o non ci hanno messo più piede.
Il 21 agosto il Leoncavallo è stato sgomberato dalla sede di via Watteau. Lo sfratto, ordinato direttamente dal Ministero degli Interni, è avvenuto con venti giorni di anticipo rispetto alla data fissata e ha colto di sorpresa anche il sindaco Sala e l’amministrazione comunale.
Quante volte si è parlato, per il Leoncavallo, di sfratto o di sgombero? Quante il centro sociale è stato accusato di illegalità? Eppure ora sembra diverso. Forse perché ora avviene nel suo cinquantesimo anno di vita, forse perché c’è un governo di destra al potere. Ma non solo.
Quando ero una ragazzina, i miei genitori non volevano che ci andassi. Il Leoncavallo stava in una zona che allora era periferica. Era nato nel 1975. Primo Moroni, punto di riferimento milanese della controcultura, raccontava che i centri sociali erano nati dall’esigenza di creare comunità in seno alla desolazione della periferia.
Negli anni Sessanta avevano nomi bellissimi – In Grato (a Gratosoglio), Sesto Senso (a Sesto San Giovanni), Falce e Mirtillo: erano nati ai margini, poi avevano mutato pelle. Ma quello non era il Leonka di cui sentivo parlare io, che sono stata ragazza negli anni Novanta.
Le lotte contro lo spaccio d’eroina che avevano segnato gli anni Settanta erano lontane, lontana anche la tragica morte di Fausto e Iaio. Avevo sedici anni e ci volevo andare, ma non potevo. Frequentavo una scuola privata e quello dei centri sociali era un mondo che non faceva per me, dicevano. Però avevo degli amici più grandi che lo frequentavano, perché era diventato il cuore dei movimenti giovanili e studenteschi. Era uno spazio di libertà. E la libertà dà sempre fastidio, soprattutto ad agosto a quanto pare. Nel 1989, sempre durante il periodo estivo, c’era stato un tentativo di sgombero che mi hanno solo raccontato. Lanci di pietre e molotov, i militanti in tute bianche sul tetto. Porte divelte, oggetti distrutti, muri sfondati come dopo le bombe. Dei murales abbattuti, rimaneva solo l’enorme scritta FUCK THE EROIN (così, senza la H) proprio dietro al palco dove si esibivano le band (erano stati i writers Teck e Strike CYB a farlo, così mi raccontavano, pensando che ne sapessi qualcosa). Nonostante tutto, lo sgombero non era avvenuto.
“Il 21 agosto il Leoncavallo è stato sgomberato dalla sede di via Watteau. Lo sfratto, ordinato direttamente dal Ministero degli Interni, è avvenuto con venti giorni di anticipo rispetto alla data fissata”.
Nel ’93 finalmente ci sono andata per sentire Dario Fo che mi aveva stregata (e infatti, anni dopo, mi sono laureata con una tesi sul Mistero buffo), e dopo qualche mese ho ballato a un concerto degli Youth Brigade. Non mi piacevano per niente, un casino frastornante, solo l’adrenalina di esserci andata di nascosto – dormo a casa di un’amica, dobbiamo studiare. Vorrei poter dire di aver assistito al concerto a sorpresa dei Public Enemy del 1999, ma non è così.
Non sono stata un’assidua frequentatrice del Leoncavallo, ma non riesco a pensare alla vita culturale di Milano senza citare quello che accadeva laggiù. Nel mio elenco mentale di luoghi fondamentali della città, insieme al Piccolo Teatro e alla Scala c’è di sicuro il Leoncavallo. Perché esiste da sempre un legame capillare tra la controcultura e la cultura, dal momento che la prima è sempre linfa di rinnovamento per la seconda.
Il 10 settembre 1994 ventimila persone si riunirono a Porta Venezia. Arrivavano da tutta Italia per sfilare in un corteo di protesta contro lo sgombero del Leoncavallo dalla sua sede storica. A marzo era stato eletto Berlusconi e i toni del conflitto sociale si stavano alzando. Durante il corteo si urlava FORMENTINI BOIA! Però si urlava anche RIDATECI LA CITTÀ. Inizialmente il corteo sarebbe dovuto arrivare in piazza Duomo, ma poi non era più stato possibile. Il cuore della città sarebbe rimasto inaccessibile. All’altezza della Circonvallazione interna le persone furono deviate verso piazza Cavour. Una camionetta della polizia blindava via Manzoni, un’altra via Fatebenefratelli. L’unica possibilità di fuga era da via Turati, dove vivevo con i miei genitori. Quando sono scesa trepidante non ho trovato però il corteo che mi aspettavo. Lo scontro con la polizia si era trasformato in una vera e propria guerriglia urbana. Incanalare forzatamente ventimila persone in una via abbastanza stretta tradiva l’intento di far deflagrare gli animi.
Dopo quel 10 settembre al Leoncavallo fu assegnato lo spazio di via Watteau.
Ripenso agli slogan di quella manifestazione. RIDATECI LA CITTÀ mi sembra quello più importante, lo stesso che verrebbe da urlare oggi di fronte allo sgombero anticipato. Perché non esiste la città senza le persone, senza i luoghi dove si crea senso insieme, dal basso, oltre le istituzioni. Non esiste città senza libertà di espressione, perché da sempre le metropoli hanno questo da offrire: le possibilità, la varietà, la libertà di realizzazione per ognuno, fuori dai condizionamenti sociali troppo pressanti.
Lo sgombero a cinquant’anni dalla nascita sembra davvero la fine di un’epoca. E questo perché negli ultimi anni è cambiata la percezione che abbiamo della città. Non crediamo più che Milano sia disposta ad accogliere spazi come il Leoncavallo. C’è un progressivo scollamento tra i milanesi e la metropoli, un aggravarsi del pessimismo. I saggi di Lucia Tozzi (L’invenzione di Milano) e Sarah Gainsforth (L’Italia senza casa) hanno sottolineato con efficacia il cambiamento portato nel giro di un decennio dal capitalismo urbano e dalla massiccia privatizzazione dello spazio pubblico.
Quando vivevo a Roma e tornavo a Milano, rimanevo affascinata dal nuovo impatto estetico che avevano su di me alcuni scorci. La mia città statica e un po’ fané aveva trovato il modo di rinnovarsi grazie alla velocità inusitata dei capitali internazionali. Con i suoi nuovi grattacieli e i loro spazi verdi sembrava davvero una capitale europea. Un contenitore perfetto. Era però un contenitore senza contenuto. City Life è di fatto un centro commerciale, e lo stesso si può dire di Porta Nuova. Non esiste un vero programma culturale per questi luoghi che sono solo luoghi di consumo. La privatizzazione degli spazi pubblici impone i valori dall’alto e impedisce l’aggregazione spontanea delle persone. Non c’è più spazio per quei luoghi conviviali auspicati da Colin Ward, urbanista anarchico, dove ognuno ha la possibilità di arricchire l’ambiente con le proprie scelte. Quando la mia amica C., artista e musicista, ha organizzato un flash mob pacifico a Porta Nuova, la polizia si è presentata in tenuta anti sommossa.
La città è la più grande invenzione dell’uomo nell’epoca classica, dice Renzo Piano. La città è il luogo in cui si celebra il rito dell’urbanità, ovvero la condivisione di valori tra le persone. La città è le sue piazze, i suoi teatri, le sue biblioteche, i suoi centri sociali. La città lasciata in mano al neoliberismo muore.
La Stecca degli Artigiani era una vecchia fabbrica dismessa della Brown Boveri. Nei primi anni del nuovo millennio è stata occupata e trasformata in una sede di attività artigianali, culturali, sociali. Una pratica collettiva urbana per la libera espressione delle persone. Nel 2007 la Stecca è stata sgomberata e demolita per essere consegnata nelle mani di una multinazionale per l’edilizia, la Hines, rappresentata in Italia da Manfredi Catella. Sulla Stecca degli Artigiani, ai bordi di quella zona popolare, l’Isola, dove mio padre raccontava che il 25 aprile del 1945 erano usciti i partigiani dalle cantine sparando in aria come mujaheddin, è sorto il grattacielo più famoso della città.
Gli appartamenti costano dai 12 ai 15mila euro al metro quadro e risulta vuoto per la gran parte dell’anno. Il bellissimo Bosco Verticale è un vuoto estetico, un’isola ballardiana. Nella sua neritudine arricchita di piante, a me appare come la pietra tombale su qualsiasi forma di aggregazione sociale. Tanto più che nell’aggregazione si genera anche il dissenso politico. “La cultura ha bisogno di spazi protetti dal mercato per nascere e crescere” scrive Sarah Gainsforth. Sottrarre alle persone i luoghi di libera espressione è una coercizione politica, non solo economica.
Milano fa lievitare i costi degli immobili ed espelle i suoi cittadini. Rinuncia al suo ceto medio e si condanna. Diventare una città-status: ha l’effetto non solo di un abbellimento esteriore, ma anche di un cambiamento antropologico radicale. Quando Luciano Bianciardi si era trasferito a Milano nel 1954 chiamato da Gingiacomo Feltrinelli per entrare nella sua nuova casa editrice, faceva parte delle decine di migliaia di persone che arrivavano a Milano per lavorare. Questo in settant’anni non è mai cambiato.
Milano però rimaneva quel luogo grigio dove ognuno aderiva a un’etica (talvolta a una retorica) del lavoro, ma non c’era nessuna identificazione tra i nuovi cittadini e la città. Ora Milano è aspirazionale, per usare una parola del marketing. Le persone si adeguano a un’immagine imposta – tra marchi, eventi, aperitivi in una totale omologazione verso l’alto in nome di un lusso reale o mimato. Il progressismo delle nuove (e numerose) leve di lavoratori assomiglia spesso a una deriva di noncuranza e superficialità: la storia della città non interessa più, tanto meno le sue stratificazioni culturali.
Io Primo Moroni l’ho solo visto seduto nella sua libreria, La Calusca (in Piazza Sant’Eustorgio), ma non ho mai avuto il coraggio di parlargli. Moroni è stato un grande animatore della controinformazione. Sapeva “fare rete”, cercare i fili rossi mutevoli della controcultura e della lotta di classe, leggere il presente e indicare strategie per il futuro. La sua antologia di saggi, L’orda d’oro, curata con Nanni Balestrini documenta la grande ondata politica, rivoluzionaria, creativa ed esistenziale tra il 1968 e il 1977.
“Milano fa lievitare i costi degli immobili ed espelle i suoi cittadini. Rinuncia al suo ceto medio e si condanna. Diventare una città-status: ha l’effetto non solo di un abbellimento esteriore, ma anche di un cambiamento antropologico radicale”.
La sua libreria, La Calusca, era il luogo di collegamento dell’editoria militante e di tutti i movimenti, da quello anarchico al cypberpunk, dal situazionismo a Lotta Continua. Da lui si trovavano tutte le fanzine prodotte dalle aggregazioni metropolitane, ma anche i libri di Feltrinelli o Einaudi. La frequentavano gli operai e gli esponenti dei movimenti, ma anche gli intellettuali, gli avvocati, i borghesi che abitavano in Porta Ticinese. L’accoglienza di Primo Moroni (accoglienza che è sempre anche una capacità di connessione) rappresenta per me il vero spirito di Milano che è una città ruvida, ma prismatica; in apparenza scostante, ma amante della diversità.
La città dove, dopo l’attentato di piazza Fontana, è nata un’alleanza tra componenti democratiche e movimenti come antidoto contro la manipolazione della paura da parte della destra. Democratici e movimentisti erano tutti riuniti da un importante organo di controinformazione: il Bollettino di controinformazione democratica. Perché Milano è una città democratica che ha saputo nutrire il valore sociale di alcuni suoi luoghi dove si sono formate generazioni di persone. Quando la Calusca nel 1992 ha subito lo sfratto, è stato il Cox 18, altro centro sociale milanese, ad accogliere la libreria. È stato un centro sociale ad arginare le conseguenze deprimenti della bolla immobiliare. La città siamo noi, siamo noi a dover alimentare, contro ogni omologazione da social, la varietà culturale e umana di cui Milano è stata sempre esempio. Non bisogna dimenticarlo. Il Leoncavallo – anche senza sede – ci sarà sempre. Spazio mentale di libertà di espressione contro ogni forma di potere.
Foto di Duilio Piaggesi.
Gaia Manzini
Gaia Manzini è scrittrice e giornalista. Il suo ultimo libro è La via delle sorelle (Bompiani, 2023).
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