Gianmarco Gronchi
02 Luglio 2025
Dagli attacchi dei politici conservatori alle autocensure delle istituzioni, il mondo universitario americano è sempre più sotto pressione. E la vicenda di Yale - tra leggi repressive, campagne contro la “wokeness” e crisi interne - è solo la punta dell'iceberg.
Passeggiare nel campus dell’Università di Yale, in New Haven, offre una curiosa panoramica sull’architettura del primo Novecento, dove stili storicisti si intrecciano con dettagli art déco. Tra questi, ci sono i fregi della Sterling Memorial Library, la biblioteca principale dell’Università, la cui entrata è dominata da un rilievo scultoreo che celebra le civiltà antiche (preistorica, egizia, assiro-babilonese, ebraica, greca, cinese, araba, maya) con iscrizioni nei rispettivi sistemi di scrittura. Al centro, intenta a prendere appunti, una figura, descritta dai documenti dell’epoca come uno “scolaro medievale”. Tale scolaro rappresenta qui la tradizione romano-latina, vista come fondamento culturale dell’Occidente e quindi degli Stati Uniti.
Al di là del valore artistico e del tono vagamente retorico, mi piace pensare che il significato di questo programma iconografico sia meno autocelebrativo di quanto non appaia a prima vista. Il torvo scrivano di pietra assimila i saperi che gli giungono da popolazioni e da epoche lontanissime tra loro, ne fa una sintesi, ne riverbera le conoscenze attraverso lo studio. Si fa, dunque, portavoce di una visione universalistica della cultura, in cui l’identità di un popolo non è determinata per via di sangue, ma si nutre dell’incontro con il diverso. È forse questo l’invito che, in tempi non sospetti, si voleva fare alla popolazione studentesca di Yale che si recava in biblioteca per ragioni di studio. E tuttavia, se è vero che spesso le opere parlano per i loro creatori, queste pietre oggi raccontano una storia diversa.
Shock and awe
Avendo passato gli ultimi mesi negli Stati Uniti in qualità di Research Fellow della Beinecke Library dell’Università di Yale, ho avuto modo di osservare da vicino il nuovo corso della politica americana promosso dalla seconda presidenza Trump. In particolare, Yale – come molte altre grandi università statunitensi – si è ritrovata al centro di quella guerra culturale che l’attuale vicepresidente J.D. Vance aveva annunciato già nel lontano 2021. In un intervento titolato senza troppi giri di parole “The universities are the enemy”, Vance dichiarava l’intento di “attaccare apertamente e aggressivamente l’università” negli Stati Uniti, definendola roccaforte di quella cultura woke tanto odiata dai MAGA trumpiani. Non è un caso che a più riprese Trump abbia elogiato Viktor Orbán e il suo modello di democrazia illiberale, che vede la governance delle università ungheresi affidata a dieci fondazioni private, i cui membri, di nomina governativa, detengono il titolo a vita. In che cosa consista l’attacco auspicato da Vance lo si è visto nelle ultime settimane: a gennaio vi è stato il congelamento dei finanziamenti federali, che ha colpito circa 60 atenei per un totale di 12 miliardi di dollari. Nello stesso mese, Trump ha promosso l’abolizione di tutti i programmi DEI (Diversity, Equity, Inclusion), ovvero tutte quelle pratiche volte a promuovere l’integrazione e a garantire pari opportunità negli enti pubblici e nelle università. Al contempo, è poi partita la stretta sul presunto antisemitismo all’interno del mondo accademico, che ha portato a indagini, revoca di sovvenzioni e possibilità di espulsioni per gli studenti coinvolti nelle proteste a sostegno della Palestina. E mentre la studentessa Rümeysa Öztürk veniva arrestata a Boston per un articolo contro il genocidio a Gaza, e la Columbia University di New York piegava la testa pur di riavere indietro i 400 milioni di finanziamenti bloccati, a metà aprile Harvard respingeva le richieste di ingerenza di Trump sul controllo e l’autonomia universitaria, innescando un braccio di ferro che ha portato il presidente americano a vietare l’iscrizione di nuovi studenti stranieri nell’ateneo e chiedere il trasferimento di quelli già iscritti. Un giudice federale ha bloccato temporaneamente quest’ultimo provvedimento, ma intanto restano congelati due miliardi di finanziamenti, con Harvard che ha intentato una causa contro l’amministrazione Trump per comportamenti incostituzionali.
Yales’ Surrender
Formalmente inquisita per l’adesione al “Ph.D. Project” – un programma rivolto a studenti ispanici e afroamericani per il conseguimento di dottorati di ricerca in area economica – l’Università di Yale per il momento non è soggetta a particolari ripercussioni sul piano finanziario. Nonostante ad aprile abbia sottoscritto la lettera dell’American Association of Colleges and Universities con cui i rettori denunciavano l’interferenza politica nell’autonomia accademica, Yale ha nei fatti dimostrato un atteggiamento accondiscendente verso molte richieste della nuova amministrazione americana. La Yale Law School – la stessa facoltà frequentata dal vicepresidente Vance – ha rescisso l’incarico con la ricercatrice iraniana Helyeh Doutaghi dopo che la testata “Jewish Onliner” – un sito che fa esplicito uso di intelligenza artificiale per la redazione delle notizie e non menziona né gli autori né le fonti – l’ha accusata di essere affiliata a un’organizzazione terroristica canadese. L’università ha anche adottato tra le sue linee guida per combattere la discriminazione la definizione di antisemitismo proposta dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). Questa definizione è decisamente problematica, dal momento che non distingue con chiarezza le critiche rivolte a Israele in quanto stato sovrano dall’odio verso gli ebrei come popolo. Per capire, secondo l’IHRA sarebbe antisemita “negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo”.
Questo, tuttavia, implica etichettare come discriminatoria qualsiasi discussione sul sionismo o sul carattere etnico dello stato israeliano. O, ancora, risulterebbe antisemita “paragonare la politica israeliana contemporanea a quella dei nazisti”, con una conseguente e pericolosa limitazione del dissenso verso l’attuale governo di Netanyahu, soprattutto nel momento in cui il genocidio palestinese continua sotto nostri occhi. L’assunzione di una definizione così ambigua di antisemitismo – ovviamente adottata da Yale su pressione del presidente Trump, come ha candidamente ammesso Linda Maizels, direttrice del Yale Program for the Study of Antisemitism – ha come risultato la limitazione della libertà di espressione all’interno del campus in relazione al genocidio di Gaza, rendendo passibili di accuse di intolleranza verso gli ebrei tout court gli studenti che protestano contro il governo israeliano. In questo clima, non stupisce che tre membri del corpo accademico – il professore di filosofia Jason Stanley e la coppia Timothy Snyder e Marci Shore, entrambi docenti in storia contemporanea – abbiano deciso di lasciare Yale per andare a insegnare in Canada, denunciando le politiche repressive del governo nei confronti del mondo accademico.
Per quanto la politica contemporanea ci abbia abituato a scene che travalicano ampiamente i limiti del grottesco – tra conigli pasquali che si affacciano dalla Casa Bianca, video promozionali con deportati in catene e foto generate dall’AI con il presidente americano vestito da pontefice – alcuni faticano a razionalizzare un attacco così aperto, così spregiudicato verso quello che fino a poco tempo fa resisteva come uno dei capisaldi del pensiero occidentale. Nonostante ci piaccia raccontarci la favola degli anticorpi democratici in grado di contrastare gli estremismi dei fascismi 2.0 aggiornati all’epoca dei social, l’impressione che si è avuta potendo vivere dall’interno un campus come quello di Yale, è che le università americane per il momento abbiano perso la battaglia. Harvard prova a resistere, ma per quanto tempo? In un recente articolo uscito su «New York Magazine», l’autore Nick Summers in riferimento alla Columbia parla di “resa incondizionata”, denunciando la totale sudditanza della governance dell’università nei confronti dell’amministrazione Trump. Yale – che come Harvard e la Columbia fa parte della Ivy League, un gruppo che raccoglie le più prestigiose istituzioni accademiche private statunitensi – non sembra passarsela meglio. Assente qualsiasi forma di dissenso organizzato nei confronti del governo, tanto da parte degli studenti, quanto da parte degli organi istituzionali. Poche le proteste a favore della Palestina e comunque ostacolate dalle misure di cui prima. Una serie di volantini che invitavano a prendere parte a una manifestazione contro il genocidio a Gaza – e qui si parla per esperienza diretta – sono stati rimossi da una bacheca di fronte alla Sterling Library nel giro di due ore da qualche solerte funzionario dell’ateneo. La sensazione dominante pare essere la paura, tanto nella popolazione studentesca, quanto negli organi accademici che, magari pur non condividendo, tacciono e acconsentono, in una colpevole trahison des clercs. Un ricercatore internazionale con il quale si è avuto modo di parlare – e di cui, per ovvie ragioni, non è possibile fare il nome – ha spiegato che nel prendere parte alle iniziative a sostegno della Palestina è necessario fare massima attenzione nel coprirsi il volto, in modo da non essere riconoscibili. Il rischio, per lui come per gli altri studenti internazionali, è l’espulsione e la revoca del visto, necessario per soggiornare per lunghi periodi sul suolo americano.
È chiaro che per un ateneo in cui – stando a dati forniti dall’università stessa in riferimento al 2023 – la percentuale di iscritti non americani è del 25%, la possibile perdita di un quarto della propria popolazione accademica non sarebbe sostenibile. Ed è proprio su questo punto, quindi, che l’amministrazione Trump va a colpire, in un misto di ricatto economico, soppressione delle voci fuori dal coro e una pericolosa propaganda della caccia allo straniero. È del 28 maggio, infatti, un’e-mail dell’Office of International Students and Scholars di Yale – ricevuta anche da chi scrive – che annuncia la sospensione di tutte le interviste per ottenere visti di tipo F (per studenti) e J (per ricercatori e scambi culturali) a seguito dell’ordinanza del Segretario di Stato Marco Rubio che impone al governo federale un’attività di screening e controllo preventivo dei social media di chi fa domanda di accesso.
Carichi residuali
Non mi sembra un caso che le limitazioni sulla libertà di espressione imposte da Trump nei campus americani abbiano preso a pretesto le manifestazioni studentesche a sostegno della Palestina. La questione palestinese mette in luce in maniera eclatante le contraddizioni di un Occidente intimamente razzista e guidato da una logica ancora coloniale. Sulle spalle della popolazione di Gaza si consumano le discriminazioni verso chi ha un credo religioso diverso, verso chi ha un colore della pelle diverso e, soprattutto, verso chi non dispone del potere economico per affermare il proprio diritto all’esistenza. Quello che molti leader europei – che nel momento in cui si scrive hanno varato 17 pacchetti di sanzioni economiche verso la Russia, ma zero contro Israele – non hanno il coraggio di dire, lo ha fatto capire il presidente americano quando ha descritto a chiare lettere la Striscia di Gaza come “un’incredibile e importante proprietà immobiliare” che gli Stati Uniti dovrebbero controllare, ovviamente deportando tutti gli abitanti palestinesi (o almeno quelli che ancora non sono stati massacrati) non si sa bene dove. È chiaro, quindi, che nel colpire le università – da sempre luogo del libero pensiero e quindi spesso focolaio di proteste – massima attenzione è stata rivolta alla repressione del dissenso interno rispetto alla politica internazionale e alla questione palestinese. In questo clima di sudditanza verso le richieste del padrone, Yale non ha riscontrato nessun tipo di fastidio in occasione della visita a New Haven, il 22 aprile, di Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Internazionale del governo Netanyahu e leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit. Ben-Gvir, già condannato per incitamento al razzismo e aperto sostenitore della necessità di deportare gli arabi, è stato invitato da Shabtai, una comunità ebraica con sede a Yale, ma non affiliata ufficialmente all’ateneo. Pare quasi autoevidente, tuttavia, che alla luce di oltre 50mila civili morti per mano di Israele, il silenzio da parte dei vertici dell’università di fronte all’arrivo in città di uno degli esponenti più estremisti del governo israeliano diventa un complice assenso. E nonostante l’ateneo abbia adottato questa scusa per non prendere posizione ufficialmente, si è comunque sentito in dovere di rimuovere dalle sue associazioni studentesche un gruppo pro-Pal che ha manifestato davanti la sede della Shabtai prima dell’arrivo di Ben-Gvir – una manifestazione in cui, per dare un’idea, si sono visti anche ebrei ortodossi prendere posizione contro le politiche di Netanyahu, a conferma che parlare di Israele non vuol dire parlare del popolo ebraico nel suo insieme. È bene anche ricordare che, ad oggi, manifestare contro lo stato israeliano non è vietato negli Stati Uniti. Ovvero: non stiamo parlando di persone che agiscono al di fuori del perimetro della legalità, ma di studenti che il governo Trump, con il tacito supporto delle istituzioni accademiche, decide di silenziare perché portavoce di una protesta contro l’esecutivo che tiene insieme più rivendicazioni allo stesso tempo, prima fra tutte quella del diritto all’esistenza e all’autodeterminazione.
L’imbarazzo delle macerie
Sic stantibus rebus, a crollare insieme al ruolo civile e critico dell’università è poi la funzione meramente didattica e scientifica. La stessa fonte interna citata in precedenza ha ammesso che quando si è trasferita negli Stati Uniti per svolgere ricerca, la prospettiva era quella di continuare la carriera accademica su quella sponda dell’oceano. Adesso, invece, in una sorta di autarchia scientifica, sta diventando sempre più complesso ottenere una sponsorship da parte degli istituti di istruzione americani, necessaria per rinnovare il permesso di soggiorno. Questo, unito ai tagli dei finanziamenti, ha ovviamente delle conseguenze gravissime sulla qualità della ricerca. Due importanti testate come «Science» e «Nature» hanno evidenziato come molti ricercatori abbiano iniziato a guardare al Canada e all’Europa come possibili mete in cui continuare a svolgere il loro lavoro. È chiaro che la perdita di know how e di capitale umano va a minare la credibilità accademica di queste università, mandando in fumo decenni di finanziamenti alla ricerca. In aggiunta, si deve considerare che l’aggressione trumpiana alle università agisce tanto sul piano economico, che su quello etico e scientifico. Dietro alla minaccia del blocco dei finanziamenti, si nasconde infatti la pretesa di ingerenza rispetto agli stessi argomenti di studio e alle modalità di insegnamento. Parlando con un’altra persona che sempre a Yale si occupa di ricerca e didattica in ambito medico fin da prima del Covid, sono emerse le contraddizioni di un sistema universitario ondivago, in cui l’università con sede a New Haven, come molti altri istituti statunitensi, è colpevole di soggezione rispetto alle mode culturali del momento o alle richieste del presidente di turno. Questa persona – di cui, ancora, non è possibile fare il nome – conferma che prima dell’arrivo di Trump era la stessa università a chiedere ai propri ricercatori di includere in ogni studio riferimenti riconducibili alle questioni identitarie di minoranze razzializzate o sottorappresentate, nell’ottica di promuovere l’inclusività. Erano poi gli organi accademici preposti alla valutazione della ricerca che chiedevano di fornire motivazioni laddove paper o contributi scientifici non includessero riferimenti ai minority groups. Adesso, viceversa, l’ateneo ha invertito diametralmente il senso di marcia, scoraggiando studi potenzialmente problematici e invitando docenti e ricercatori a escludere dai propri lavori qualsiasi contenuto a tema inclusivity, per non generare ritorsioni da parte dell’amministrazione Trump. Quest’ultimo aspetto, purtroppo, ci ricorda le contraddizioni di un sistema di istruzione a sovranità limitata. In una bella testimonianza dal titolo Autocensura nell’Ivy League pubblicata su «Limes» (n. 3/2024), Alessio Salviato evidenziava l’appiattimento critico all’interno delle grandi università americane su posizioni vicine a quelle dei grandi complessi industriali privati che sponsorizzano gli stessi atenei e che rappresentano la principale porta d’ingresso al mondo del lavoro per chi, in quelle istituzioni accademiche, consegue un titolo di studio.
“È chiaro che per un ateneo in cui – stando a dati forniti dall’università stessa in riferimento al 2023 – la percentuale di iscritti non americani è del 25%, la possibile perdita di un quarto della propria popolazione accademica non sarebbe sostenibile”.
Questo rapporto di dipendenza ha generato una “cultura dell’intolleranza” che anche in ambito accademico ha cavalcato le tematiche di inclusivity ed equality in chiave woke. Non mi pare il luogo per soffermarsi sulla genesi del wokismo – lo fa molto bene Giuseppe De Ruvo nel suo contributo sullo stesso numero di «Limes» sopracitato. Tuttavia, mi pare utile richiamare le parole di Susan Neiman, che nel suo Left Is Not Woke – da poco tradotto in italiano per Utet – mette in guardia dal rischio di politiche identitarie che vogliono cambiare la distribuzione del potere, senza però scardinare le regole del sistema all’interno del quale la distribuzione del potere avviene. La stessa studiosa scrive che una visione di cultura genuinamente universalista e progressista è stata sostituita a sinistra “da un tentativo di imporre certe culture su altre nel nome di un’idea astratta di umanità”. Capire questo è essenziale per provare a comprendere anche la controreazione violentemente fascista della destra trumpiana, che ha usato il tema delle politiche identitarie e dell’elitismo dell’accademia come combustibile per la propaganda elettorale, andando così a infiammare gli animi dell’elettorato MAGA più razzista e xenofobo. Di contro, è anche il motivo per cui il movimento a sostegno della Palestina fa così paura a Trump, perché nelle proteste contro il genocidio in atto si ricompongono le lotte contro la discriminazione razziale e religiosa e al contempo si denunciano gli interessi legati al piano economico.
Roma – Washington et retour
Mattia Salvia, nel suo libro Interregno. Iconografie del XXI secolo, ha descritto il primo governo Trump come il momento in cui la storia è finita nella timeline sbagliata, come qualcosa di strano che non doveva succedere e invece è successo. Era il 2016 e molti pensavano che il trumpismo fosse un incidente di percorso. Capovolgendo un vecchio adagio, mi pare che questa volta la storia si sia presentata prima come farsa, e solo ora ritorni, con una coazione a ripetere, come tragedia. Se il primo sembrava talmente buffonesco da risultarci bonario, il secondo governo Trump, pur senza perdere quei caratteri da farsa grottesca, appare molto più spietato nel perseguimento dei suoi obiettivi: una destra ostentatamente violenta che, prendendo a prestito le parole di Corrado Guzzanti, “parla poco e spara molto”. Se il modello di democrazia illiberale – che di democrazia non ha più nulla – adottato da Trump può essere ricondotto a radici europee, guardando all’Italia preoccupa molto la tentazione che qualche trumpiano nostrano, colpevolmente investito di ruoli di governo, avrà nell’importare misure simili anche da noi. La tendenza all’ipertrofia e al gigantismo che da sempre caratterizza gli Stati Uniti ha reso la guerra alle università così fragorosa da attrarre l’attenzione dei media internazionali. Ciononostante, mi pare che, col silenzio complice dei media, le prove tecniche di emulazione siano già in atto, come spiega bene Tomaso Montanari nel recente pamphlet Libera università, uscito a inizio anno per Einaudi.
Se il taglio di circa 500 milioni alle università pubbliche deciso a luglio 2024 non è malapolitica solo di questo governo, preoccupa invece il disegno di legge che muove verso un sostanziale riassetto delle università e delle loro strutture. È previsto, tra le altre cose, il riordino delle procedure di reclutamento dei professori, di quelle relative all’autonomia didattica degli atenei, della normativa in materia di stato giuridico ed economico del personale universitario, con particolare riferimento all’individuazione degli obblighi didattici e di ricerca. Da un punto di vista sostanziale sarebbe cosa di poco conto, se non che a capo del gruppo di lavoro chiamato a tradurre in atti le disposizioni parlamentari è stato nominato Ernesto Galli della Loggia, uno che dalle pagine del «Corriere della Sera» (10 aprile 2024) ha reso apertamente manifesta la propria insofferenza verso l’indipendenza universitaria rispetto al potere centrale. Le parole di della Loggia, che nello stesso articolo dichiara che la crisi dell’università italiana sta nell’aver concesso autonomia ai singoli atenei, sono profetiche circa le mire che la destra italiana al potere ha sul sistema accademico e sulla sua autonomia. Sancita – non è un caso – in sede costituzionale e poi ribadita dalla legge 168 del 1989, tale autonomia attribuisce alle università una personalità giuridica, tanto che le decisioni del corpo universitario, come spiega Montanari, sono una riserva di legge, vale a dire “una norma che impone che tutto ciò che regola l’università debba avere dignità di legge approvata dal Parlamento”. Eppure, si moltiplicano gli attacchi ai professori, le pretese di controllo su corsi accademici e programmi didattici e, in generale, monta l’assalto all’accademia per ricondurla a docile megafono del potere corrente.
Questi tentativi di ingerenza vanno di pari passo con altre iniziative governative che corroborano l’instabilità e minano la libertà del sistema universitario. Per esempio, il disegno di legge dell’agosto 2024, che prevede la riscrittura del pre-ruolo, ovvero la fase d’ingresso all’insegnamento accademico. Questo, invece di ridurre le figure intermedie tra laurea e mondo del lavoro – assegnisti di ricerca, post-dottorandi, ecc – amplifica il precariato, che viene quindi usato come arma politica, in quanto abbassa il tasso di indipendenza scientifica. Non mancano poi, anche da noi, i tentativi dichiarati di una repressione del dissenso interno che dovrebbe far preoccupare tutti. Approvato al Senato lo scorso 4 giugno, il nuovo decreto-legge Sicurezza, nonostante l’eliminazione della controversa norma che obbligava gli atenei alla collaborazione con i servizi segreti in deroga alla normativa sulla privacy, resta un colpo micidiale al libero pensiero e al diritto di protesta. Il blocco stradale, per esempio, adesso è un reato punibile anche con il carcere, mentre rischia fino a sette anni chi occupa un immobile. Alcune forme di resistenza passiva prevedono l’arresto e la detenzione fino a cinque anni, in un paese in cui, di fronte a studenti che protestavano pacificamente, non si sia riusciti a trovare altra risposta se non quella erculea dei manganelli. Accanto, una serie di corollari ad hoc, come l’inasprimento delle pene per chi non si ferma allo stop dei vigili, per chi manifesta contro grandi opere come il Ponte sullo Stretto e la Tav, per chi è in possesso anche di cannabis light. Nel paese del Golpe Borghese, della P2, della trattativa Stato-mafia dovrebbe far preoccupare che il nuovo decreto introduca una norma che consentirà ai Servizi segreti la “direzione o organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico” senza risponderne penalmente. Le cose – università e giustizia – stanno drammaticamente insieme e il rischio è quello che saltino i contrappesi democratici sanciti dallo stato di diritto.
Se si mettono in fila questi punti – la creazione di un nemico esterno, il ricatto economico, la repressione del dissenso, il controllo sull’autonomia accademica – mi pare che l’America trumpiana sia un incubo in cui rischia di cadere anche l’Italia meloniana, ammesso che non ci siamo già dentro. Intimamente, i fini che il governo Meloni persegue non sembrano troppo lontani da quelli dell’amico Trump, ma con minor sfoggio di petardi e fuochi d’artificio. D’altronde, non c’è niente in Italia che possa catalizzare l’attenzione dei media quanto il presidente degli Stati Uniti che, attorniato da file di bambini seduti ai banchi di scuola, firma l’ordine esecutivo per chiudere il Dipartimento dell’Istruzione statunitense, come accaduto il 20 marzo scorso. E tuttavia, non c’è da aspettare il passo dell’oca per riconoscere l’assalto alla democrazia, che – come ci insegnano precedenti tristemente illustri – ha nella guerra all’università uno dei suoi punti focali. Quello che si è visto in prima persona nei campus americani e che continuiamo a vedere in queste settimane attraverso i social e i giornali non è, e non deve diventare, la normalità. Consapevoli del rischio dell’assuefazione alla violenza, l’attacco frontale di Trump al mondo accademico deve invece suonare come sirena d’allarme per tutti quelli che – all’interno e all’esterno delle aule universitarie – finora hanno continuato a guardare l’America come una distopia lontana. La cannibalizzazione a cui gli atenei statunitensi sono andati incontro in maniera, colpevolmente, passiva è qualcosa che riguarda noi europei e noi italiani più da vicino di quanto non si creda. Non è più il momento di delegare. È arrivato il momento di lottare, in maniera forte, con tutti gli strumenti che la democrazia prevede. Prima che non ci sia più spazio per farlo.
Gianmarco Gronchi
Gianmarco Gronchi è dottorando in Storia dell’arte. Collabora con varie realtà editoriali e ha pubblicato Liminal Fiorucci. Dieci anni di moda e arte a Milano (Postmedia, 2024).
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