Nell’"Hadrian" di Rufus Wainwright c’è “troppa queerness”. Ed è stupendo - Lucy sulla cultura
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Daniele Cassandro

Nell’”Hadrian” di Rufus Wainwright c’è “troppa queerness”. Ed è stupendo

03 Luglio 2025

Pathos, politica, melodramma. Nella sua seconda opera lirica, che ha appena aperto il Festival di Spoleto, il cantautore canadese punta sul massimalismo. E vince. Regalando un grande spettacolo. Anzi due.

In one way was I true.

One way to be remembered.

This final breath, my legacy:

He loved

In una cosa sono stato sincero.

Una cosa per cui essere ricordato.

Quest’ultimo respiro, la mia eredità:

Egli ha amato

Queste sono le ultime parole dell’imperatore Adriano morente in Hadrian, il grand opera di Rufus Wainwright che ha aperto la sessantottesima edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto. Alla vigilia del 28 giugno, il giorno dei moti di Stonewall del 1969, il festival apre con un’opera queer scritta da un artista pop, un melodramma che parla dell’amore tra due uomini come valore eterno e che allarga lo sguardo sul crepuscolo del paganesimo e dell’Impero romano.

Nelle ultime due edizioni avevamo visto titoli più tradizionali, Pélleas et Mélisande di Claude Debussy e Ariadne auf Naxos di Richard Strauss, meravigliosamente diretti e un po’ meno meravigliosamente messi in scena dall’ungherese Iván Fischer in una doppia veste, molto discussa, di direttore d’orchestra e regista teatrale. Qualcuno ha voluto leggere la scelta di aprire con Hadrian come una provocazione della direttrice artistica uscente Monique Veaute. In realtà Veaute, di cui il pubblico di Spoleto sentirà la mancanza, non ha fatto che ribadire i due valori fondamentali  su cui, fin dal 1958, si fonda il festival dei Due Mondi: il rapporto con l’America e il dialogo tra discipline e ambienti diversi. Per quanto riguarda la queerness chiunque abbia un minimo di dimestichezza col mondo del teatro, dell’opera e della danza sa benissimo che che c’è sempre stata: o esibita e rivendicata o cifrata e nascosta, a seconda delle epoche e delle sensibilità. L’unica cosa davvero provocatoria di Hadrian è forse la sua facilità. Spoleto è abituata alle avanguardie, alla sperimentazione anche estrema, all’atonalità e Rufus Wainwright invece propone una lunga opera in quattro atti quasi tradizionale, intrisa di melodia e di cantabilità, piena di duetti e di concertati, un lavoro che ricorda il tardo romanticismo di Wagner e di Strauss e il lirismo spinto dell’ultimo Verdi e di Puccini.

Rufus Wainwright, durante un incontro con il pubblico del festival, ha raccontato di aver lasciato il conservatorio per fare la rockstar (parole sue). E che tutto sommato è andata bene così perché le rockstar fanno molti più soldi dei compositori di sinfonie e di opere liriche. Eppure Rufus è fan dell’opera fin da quando aveva tredici anni: di Verdi soprattutto e della Traviata in particolare per l’effervescenza del primo atto e quell’accelerazione rapinosa verso il dramma lirico del finale. L’opera è un banchetto molto ricco e Rufus Wainwright è un compositore bulimico. Nel suo stomaco pantagruelico c’è spazio per tutto: Verdi, Strauss, Wagner, i lieder del romanticismo tedesco ma anche il musical e il jazz. Hadrian è un’opera contemporanea ma vecchia alla stesso tempo: si svolge nell’antichità come le grandi opere serie del settecento e del primo Ottocento, è ambiziosa a partire dal libretto del drammaturgo canadese Daniel MacIvor che parla sì della storia d’amore gay tra l’imperatore Adriano e Antinoo ma anche di monoteismo e politeismo, di imperialismo e genocidio e di intrigo politico e matrimoniale. È evidente che Wainwright ama scrivere per grandi voci liriche: le parti vocali sono impegnative. Adriano è il baritono argentino Germán Enrique Alcántara che viene sottoposto a un vero tour de force; Plotina, l’imperatrice che trama contro Antinoo e soprattutto contro il popolo ebraico, è il mezzosoprano Sonia Ganassi; l’Antinoo del tenore Santiago Ballerini è agile e non privo di un suo affascinante lato oscuro e Sabina, la moglie ripudiata di Adriano, ha la voce potente del soprano canadese Ambur Braid che ci restituisce il personaggio più lirico dell’opera.

Wainwright ammette di essersi innamorato del personaggio di Sabina che, mentre lui scriveva la partitura, prendeva sempre più spazio e personalità. È un personaggio quasi pucciniano: una donna gelosa e disperata ma capace, alla fine, di un atto di generosità tanto disinteressato quanto inutile. Wainwright ammette di aver usato “every trick in the book”, ogni stratagemma possibile, per dare profondità musicale e complessità narrativa alla sua opera e a volte il trucco c’è e si vede: ogni numero di Hadrian sembra prendere la rincorsa per trasformarsi in un gran finale, pieno di enfasi e di dramma.

“A volte il trucco c’è e si vede: ogni numero di ‘Hadrian’ sembra prendere la rincorsa per trasformarsi in un gran finale, pieno di enfasi e di dramma”.

C’è un senso di accumulo, soprattutto nel terzo e quarto atto, un ingorgo di scene madri, di slanci lirici, di crescendo drammatici che non trovano mai un vero scioglimento. Qualche taglio alla musica non avrebbe fatto male ma Hadrian rimane comunque un’opera avvincente che non annoia. E il merito è tutto di un compositore tanto spudorato nella sua voglia di piacere quanto generoso. L’opera è andata in scena il 27 e il 29 giugno al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti in forma semiscenica: i cantanti sono seduti e hanno la partitura davanti come se fossero a un prova e hanno delle piccole ma efficaci interazioni tra di loro, momenti di complicità e di stizza e a un certo punto uno spartito viene gettato a terra con rabbia con un effetto comico e dissacrante. La regia e lo stage design sono di Jörn Weisbrodt, il marito di Rufus Wainwright, che affida alle fotografie di Robert Mapplethorpe una sorta di commento per immagini alle vicende di Adriano e Antinoo. Ed è, visivamente, un’iniezione di steroidi a un lavoro già abbastanza muscoloso. Le foto di Mapplethorpe sono meravigliose e inquietanti quando vengono proiettate, gigantesche, dietro ai cantanti ma anche Weisbrodt ha una pericolosa tendenza all’accumulo.

Alcune scelte sono troppo didascaliche (abbracci quando Antinoo e Adriano si scambiano effusioni o pugnali quando si parla di uccidere qualcuno), altre sono invece molto efficaci: per esempio gli occhi sgranati del ritratto di Doris Saatchi del 1983 durante una delle arie più drammatiche di Sabina o il ritratto in tenuta bdsm con tanto di harness e guinzaglio di Brian Ridley e Lyle Heeter (1979) quando si descrive il lato oscuro e codipendente della relazione tra Adriano e Antinoo. Quando, all’avvicinarsi della morte di Adriano, vediamo il grande autoritratto di Mapplethorpe del 1988 che, già malato, ci fissa con in mano il bastone con un pomello a forma di teschio l’effetto è fortissimo ed è chiaro come Wainwright e Weisbrodt vogliano comunicarci l’idea di una queerness eterna che attraversa i millenni: dall’Impero romano pericolosamente in bilico alla New York capitalista e imperialista flagellata dall’epidemia di hiv.

Se Hadrian è stato un banchetto anche troppo ricco, la vera abbuffata viene apparecchiata il 28 giugno in piazza del Duomo. Rufus Wainwright smette i panni del compositore di grand opera e appare su uno dei palcoscenici più belli del mondo come mattatore e rockstar. Indossa uno smoking coperto di lustrini senza camicia e con la giacca aperta sul petto villoso. Sul revers sinistro porta una grande spilla tempestata di strass che sembra uscita da un portagioie della Elizabeth Taylor degli anni Ottanta.

È un po’ Freddie Mercury e un po’ Liberace, testosterone da daddy cinquantenne e manierismi camp da Viale del tramonto. Nella sua smania di ingraziarsi il pubblico tra un pezzo e l’altro, un po’ da crooner da lounge di Las Vegas, può ricordare Robbie Williams, ma un Robbie Williams miracolato da un’estensione vocale prodigiosa. Ascoltando la sua voce tenorile che spinge al massimo fin dal primo brano (Agnus dei dal suo album Want Two del 2024), si capiscono molte cose sulla sua scrittura per le voci in Hadrian. Wainwright alle voci chiede potenza, spinta, dramma e pathos. E lo stesso pretende dalla sua: ogni pezzo in scaletta deve sembrare l’ultimo bis di un artista pronto a immolarsi in scena. Puntuali arrivano i pezzi di Judy Garland, la prima vera icona gay del novecento il cui funerale coincise con i moti di Stonewall: Rufus li fa suoi senza mai cadere nella parodia. Zing! Went the Strings of My Heart è di una brillantezza impeccabile e How Long Has This Been Going On di Gershwin è trattata con i guanti di velluto e senza svenevolezze. Quando canta E Poi di Mina in un italiano quasi perfetto (“ammore” con due emme fa deliziosamente Dean Martin) è l’ultima zampata: il pubblico di Spoleto che magari ha poca dimestichezza con il suo repertorio pop è conquistato.

Nell’”Hadrian” di Rufus Wainwright c’è “troppa queerness”. Ed è stupendo -

Ma a Rufus non basta, il suo massimalismo è debordante, ci vuole in lacrime: canta Candles, dedicata alla madre, la cantautrice folk canadese Kate McGarrigle morta nel 2010, con un incipit che avrebbe voluto scrivere Morrissey: “I tried to do all that I can, but the church have ran out of candles”, ho cercato di fare tutto il possibile, ma la chiesa aveva esaurito le candele. E soprattutto, in quello che sembra l’ennesimo finale, fa una cosa che pochissimi altri potrebbero fare oggi: cantare la sua versione di Hallelujah, riscattando Leonard Cohen dal purgatorio in cui l’hanno fatto finire anni di orribili cover da talent show. Appena apre la bocca ci si ricorda che quando uscì, alla fine degli anni novanta, Rufus fu salutato come l’erede di Jeff Buckley. Anche lui bellissimo, anche lui un semidio giovanissimo scivolato nel 1997 verso la morte in fiume sacro, proprio come l’Antinoo di Hadrian. Per Antinoo quel fiume fatale era stato il Nilo, per Jeff Buckley un affluente del Mississippi. Ovviamente Hallelujah non poteva essere il finale: per l’ultimo bis Rufus si siede sul ciglio del palco e canta Over the Rainbow di Judy Garland: era la canzone del Mago di Oz, il film musicale del 1939 che la rese una star bambina e un’icona gay eterna.

È la notte del 28 giugno e sono passati esattamente 56 anni dai moti di Stonewall, e in questo stesso momento duecentomila persone marciano a Budapest sfidando il governo fascista e omofobo di Victor Orbán. Improvvisamente tutto l’eccesso, tutto il virtuosismo, il manierismo, il disperato bisogno di essere amato e applaudito diventano qualcosa di davvero universale. Parafrasando Papa Francesco si potrebbe accusare Rufus Wainwright di “troppa frociaggine”. Ma come insegnano i Pride, quello di Budapest e tutti gli altri Pride del mondo, troppa frociaggine non è mai abbastanza frociaggine quando si tratta di dire a un mondo che ci vorrebbe invisibili che esistiamo e siamo tanti.

Daniele Cassandro

Daniele Cassandro è giornalista di «Internazionale» e collabora con diverse testate. Il suo ultimo libro è Dischi volanti (Curci, 2024).

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