Perché quello che si sta compiendo a Gaza è un genocidio. Intervista a Omer Bartov - Lucy sulla cultura
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Jacopo Mocchi

Perché quello che si sta compiendo a Gaza è un genocidio. Intervista a Omer Bartov

04 Agosto 2025

Mentre il dibattito pubblico si frammenta e gli altri Stati prendono tempo, lo storico israeliano Omer Bartov, tra i più autorevoli studiosi dell’Olocausto, spiega perché quello di Gaza non è solo un conflitto, ma un crimine che riguarda tutti.

Omer Bartov, professore alla Brown University, è uno dei massimi studiosi al mondo di genocidio. Nato in Israele e cresciuto in una famiglia sionista, Bartov ha dedicato la sua carriera alla comprensione dei meccanismi della violenza di massa, concentrandosi in particolare sull’Olocausto nell’Europa orientale e sul coinvolgimento della Wehrmacht nel genocidio perpetrato dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. Bartov ha anche un’esperienza diretta nell’esercito israeliano, avendovi prestato servizio per quattro anni. Partecipò alla guerra dello Yom Kippur nel 1973 e fu assegnato a missioni in Cisgiordania, nel nord del Sinai e nella Striscia di Gaza, dove concluse il suo servizio come comandante di una compagnia di fanteria. Questa esperienza lo segnò profondamente, portandolo a riflettere sulla possibilità che i soldati israeliani, similmente all’esercito tedesco, potessero essere plasmati da un indottrinamento tale da compiere atti considerati moralmente inaccettabili.

Il 10 novembre 2023, poco dopo l’attacco di Hamas e l’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, Bartov firmava sul «New York Times» un primo op-ed: What I Believe as a Historian of Genocide. In questo scritto, pur riconoscendo la crisi umanitaria insostenibile che si stava sviluppando e ammettendo che con ogni probabilità si stavano commettendo crimini di guerra, Bartov non parlò di genocidio, concludendo che, per quanto gravi, non vi erano prove sufficienti. “Questo significa due cose importanti” scriveva. “Primo, dobbiamo definire ciò che stiamo vedendo, e secondo, abbiamo la possibilità di fermare la situazione prima che peggiori”.

Venti mesi dopo, il 15 luglio 2025, Bartov pubblicò un secondo op-ed, sempre sul «New York Times», dal titolo inequivocabile: I’m a Genocide Scholar. I Know It When I See It. In questo nuovo contributo, Bartov ruppe definitivamente gli indugi e giunse a quella che definisce una “conclusione ineluttabile”: Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese.

Come è arrivato a questa conclusione?

L’ho capito nel maggio del 2024. In quel momento, mi è sembrato evidente che ciò in cui le Forze di difesa israeliane (IDF) erano impegnate non corrispondeva agli obiettivi ufficiali della guerra, così come erano stati dichiarati dal governo: la distruzione di Hamas e la liberazione degli ostaggi. Ciò che l’IDF stava realmente portando avanti era una distruzione sistematica della Striscia di Gaza, con l’obiettivo di renderla inabitabile per la sua popolazione. Il momento in cui questo mi è sembrato sufficientemente chiaro è stato quando l’IDF ha deciso di entrare a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, ordinando l’evacuazione di circa un milione di palestinesi verso l’area costiera, un luogo privo di qualsiasi infrastruttura umanitaria. Subito dopo, è seguita la distruzione della città. A quel punto, ho riflettuto su quanto accaduto tra ottobre 2023 e maggio 2024, e mi è parso che queste azioni fossero coerenti con le dichiarazioni pubbliche dei leader israeliani fatte dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre: affermazioni in cui si diceva che Gaza sarebbe stata rasa al suolo, distrutta, che non ci sarebbe stata acqua né cibo, che non esistevano civili palestinesi innocenti, che il luogo sarebbe stato completamente annientato.

Nella sua esperienza di studioso dei genocidi, in che modo il linguaggio deumanizzante ha storicamente contribuito alla transizione dall’intento alla prassi genocidaria?

Non necessariamente il linguaggio deumanizzante porta direttamente al genocidio. Spesso è un’indicazione che un genocidio potrebbe accadere, o almeno che potrebbero essere attuate politiche violente di vario tipo nei confronti di un determinato gruppo. Perché ciò che fa, naturalmente, è dichiarare che un certo gruppo non ha gli stessi diritti del tuo, che è percepito come pericoloso per te, e quindi che deve essere eliminato o espulso. Questo linguaggio è stato utilizzato in modo molto forte dai leader israeliani, sia politici che militari, già dopo il 7 ottobre, ma era presente da molto tempo prima. C’è stato un linguaggio deumanizzante nei confronti dei palestinesi per molto tempo. Quello che è successo dopo il 7 ottobre è che questo linguaggio si è amplificato: è diventato pubblico ed è stato accompagnato da politiche molto più aggressive da parte dell’esercito israeliano.

Lei è nato in Israele e ha vissuto da vicino la storia e l’identità del suo popolo. Alla luce di quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza, come vive — sul piano personale ed etico — il fatto che lo Stato di Israele stia commettendo un genocidio nei confronti dei palestinesi? 

Tendo a ragionare, prima di tutto, sulla base dei fatti e dell’analisi. Se arrivo a concludere — e non sono arrivato a questa conclusione in modo affrettato, mi ci sono voluti diversi mesi — che ciò a cui stiamo assistendo è un genocidio, lo dirò, al di là delle mie affiliazioni personali e di tutto il resto, perché penso che sia importante dirlo. E utilizzerò tutte le conoscenze che ho acquisito e tutta l’autorità che ho per dire: questo è un genocidio. Non lo faccio certo perché mi fa piacere dirlo, ma perché credo che dire che qualcosa è un genocidio significa che bisogna agire. La Convenzione sul Genocidio del 1948 non è — o non dovrebbe essere — una lettera morta. La Convenzione è un impegno da parte degli Stati firmatari a prevenire il genocidio, a fermarlo e a punire chi lo commette. Se tante autorevoli voci affermano che ciò che stiamo vedendo è un genocidio, questo potrebbe esercitare una certa pressione sui decisori politici, non in Israele, ma negli Stati Uniti e in Europa. Questo è ciò che possiamo fare. Ovviamente, questo ha un prezzo. Ci sono persone che sono molto infastidite dal fatto che io dica queste cose. Molti mi hanno accusato di essere un sostenitore di Hamas o addirittura di essere antisemita. Sono nato e cresciuto in Israele. Ho fatto il servizio militare. Molti dei miei amici vivono lì. E devo ammettere che, in questo momento, non è un posto dove ho voglia di tornare. L’ultima volta che ci sono stato, sono rimasto piuttosto scioccato dal livello di indifferenza della gente. Non dell’estrema destra, ma di persone molto normali, liberali, aperte, cosmopolite.

Come ritiene stiano evolvendo le percezioni dell’offensiva israeliana su Gaza all’interno della società israeliana?

Non c’è discussione critica in Israele. Proprio l’altro giorno, su uno dei canali televisivi principali — Keshet 12 — qualcuno ha timidamente sollevato una questione sul destino dei palestinesi a Gaza ed è stato immediatamente messo a tacere. C’è un tabù completo su questo. Ma la domanda è: riflettono l’opinione pubblica, cioè lo fanno solo per i loro ascolti, o la stanno anche modellando? In gran parte, penso che stiano modellando l’opinione pubblica. E non c’è coercizione. Il governo israeliano non li costringe a farlo. Tutti i canali principali si autocensurano in modo straordinario. In Israele, le principali fonti di informazione sono quelle ufficiali. Quindi, di fatto, quando si ascoltano i corrispondenti militari che interpretano la situazione a Gaza, in Libano o in Siria stanno sostanzialmente facendo da portavoce per l’esercito. E non lo fanno perché sono costretti a farlo, ma perché scelgono di farlo. Ci sono poi realtà in cui è possibile trovare un giornalismo informato e critico, come su Haaretz o su +972. Tuttavia, la maggior parte degli israeliani non li legge, mentre Haaretz è principalmente letto da stranieri. In alternativa, puoi scaricare un’app sul tuo telefono e guardare Al Jazeera, dato che in Israele non è più possibile guardarla in TV. Quindi puoi ottenere informazioni, ma la maggior parte delle persone sceglie di non farlo.

Perché ci è voluto così tanto tempo prima che gli studiosi di genocidio riconoscessero le azioni israeliane a Gaza come tali?

È stato un processo graduale, proprio come il mio. Molti studiosi di genocidio sono stati cauti, inizialmente, perché non si vuole affermare che qualcosa sia un genocidio senza prove sufficienti. Non è stato facile ottenere informazioni su ciò che stava realmente accadendo sul terreno essendo la Striscia di Gaza chiusa ai media stranieri. Coloro riportano notizie da Gaza vengono presi di mira sistematicamente. Tuttavia, tra l’estate e l’autunno del 2024, un numero sempre maggiore di studiosi di genocidio è giunto alla conclusione che non c’è altro modo di comprendere ciò che sta accadendo: si tratta di una campagna genocidaria, oppure di una campagna di pulizia etnica con aspetti genocidari. L’ago della bilancia si è spostato. Ovviamente, non è questo il caso tra gli studiosi dell’Olocausto, che si trovano in una posizione completamente diversa. C’è una grande dose di negazione tra gli studiosi dell’Olocausto e le istituzioni che lo commemorano e lo studiano, le quali sono rimaste quasi del tutto in silenzio, con poche eccezioni. Ma tra gli studiosi di genocidio, a questo punto, direi che esiste un consenso.

In che modo questa situazione potrebbe influire sul futuro della memoria storica collettiva, non solo in relazione all’Olocausto, ma anche riguardo ai genocidi contemporanei?

Per quanto riguarda gli studiosi dell’Olocausto, quella, a mio avviso, è una vera tragedia. Il senso stesso dello studio dell’Olocausto, della sua commemorazione e della creazione di un’intera cultura della memoria attorno a esso, in tutto il mondo, non era solo commemorare il genocidio degli ebrei o studiarlo. Il motivo per cui quella memoria si è ampliata ed è diventata parte di una cultura più generale sull’umanità e sull’orrore era che si dovevano trarre conclusioni universali da quel passato, per affermare che qualcosa del genere non doveva mai più accadere. Se coloro che hanno dedicato la loro vita a dire “mai più” oggi tacciono, solo perché è lo Stato nato dopo l’Olocausto a compiere certe azioni, stanno contribuendo a smantellare la cultura della memoria. La stanno svuotando di contenuto. Il pericolo è che commemorare e studiare l’Olocausto torni a essere solo una questione etnica, un argomento che riguarda solo gli ebrei che parlano con altri ebrei di ciò che è successo loro. È iniziato così, ma poi è diventato qualcosa di molto più grande, ed è stato un bene che sia successo. Ora, però, questa memoria viene smantellata proprio da coloro che sono responsabili di essa. Una vera tragedia.

Nel suo articolo sottolinea come molti studiosi di genocidio siano spesso riluttanti ad applicare il termine “genocidio” a eventi contemporanei, ritenendo che venga utilizzato più per esprimere indignazione che per identificare un crimine specifico. Come valuta questo atteggiamento?

Storicamente, una volta coniato il termine “genocidio”, esso è stato rapidamente utilizzato, spesso in modo impreciso, dall’opinione pubblica, dai giornalisti e talvolta anche da studiosi e attivisti politici per descrivere eventi terribili. Pertanto, sin dalla sua introduzione, è stato frequentemente impiegato in modo inaccurato. Tuttavia, la definizione legale — rilevante dal punto di vista del diritto internazionale — è quella fornita dall’ONU nel 1948. Penso che molti studiosi siano stati riluttanti a utilizzare il termine “genocidio”, in riferimento alla guerra a Gaza, proprio perché è stato impiegato molto rapidamente, subito dopo il 7 ottobre. A mio avviso, troppe persone lo hanno usato in modo irresponsabile, nell’aspettativa che si sarebbe verificato un genocidio (e questo non era irragionevole, ma non è la stessa cosa) o perché convinte che Israele stesse commettendo un genocidio contro i palestinesi sin dall’inizio. Per questo motivo da parte degli studiosi c’è stata una particolare riluttanza a impiegarlo. In effetti, oggi ci sono alcuni studiosi di genocidio che sostengono che forse non dovremmo più usare il termine “genocidio”. Io non sono d’accordo con loro, ma posso capire perché lo dicano.

“L’ho capito nel maggio del 2024. In quel momento, mi è sembrato evidente che ciò in cui le Forze di difesa israeliane (IDF) erano impegnate non corrispondeva agli obiettivi ufficiali della guerra, così come erano stati dichiarati dal governo: la distruzione di Hamas e la liberazione degli ostaggi”.

In uno dei suoi libri più conosciuti, Anatomia di un genocidio (2018), ricostruisce il genocidio degli ebrei a Buczacz (oggi in Ucraina), evidenziando come la violenza non sia solo il frutto di ordini dall’alto, ma anche della complicità attiva e passiva della popolazione locale. Alla luce di quanto sta accadendo oggi nella Striscia di Gaza, vede delle analogie tra quel contesto e il ruolo che la società israeliana, o la comunità internazionale, stanno giocando rispetto a ciò che lei oggi definisce genocidio?

Questa è la natura del genocidio. Il genocidio è un fenomeno sociale. Non si tratta di una sola organizzazione finalizzata a distruggere un determinato gruppo. Tutti diventano complici, in un modo o nell’altro. E lo si può osservare anche ora, con vari gradi di complicità, naturalmente. Ci sono i leader che dicono che va fatto. Ci sono i comandanti che danno gli ordini, i soldati che li eseguono, e le famiglie di quei soldati che si rifiutano di chiedere cosa stia succedendo, non vogliono credere a nulla di ciò. C’è la società nel suo insieme: professori universitari, intellettuali, giornalisti che giustificano, ignorano o mantengono una totale indifferenza. In un paese coinvolto in un genocidio, tutti sono complici in qualche modo. Pagando le tasse, sei parte del processo. Tuttavia, c’è anche un altro fattore, soprattutto nel caso di un Paese piccolo come Israele, sostenuto da potenze molto più grandi: Israele non può fare nulla di ciò che sta facendo senza un rifornimento costante di munizioni e senza un costante supporto diplomatico. Pertanto, sia l’amministrazione Biden, così come quella Trump, sono complici. Lo stesso vale per il governo tedesco, sia quello precedente che quello attuale. Più sei impegnato a proteggere quel Paese, meno fai per fermare ciò che sta facendo, e più diventi complice.  In questo caso, i cerchi della complicità sono molto ampi. Uno dei problemi della complicità è che, una volta che sei complice, sei molto riluttante ad ammetterlo. Questo porta a una negazione crescente, proprio perché hai paura che, se chiamassi le cose con il loro nome, dovresti pagarne il prezzo — almeno quello morale — per averlo facilitato.

Nel suo articolo sottolinea come il continuo rifiuto da parte di Stati, organizzazioni internazionali ed esperti legali e accademici di riconoscere la situazione a Gaza come genocidio causerà danni irreparabili non solo al popolo di Gaza e a Israele, ma anche all’intero sistema di diritto internazionale creato dopo l’Olocausto, concepito per prevenire che simili atrocità accadano di nuovo. Quali potrebbero essere le conseguenze a lungo termine?

Se un Paese come Israele può compiere crimini di guerra sistematici, crimini contro l’umanità e genocidio con il sostegno — diplomatico, militare ed economico — di Paesi che si proclamano i principali difensori del diritto internazionale e dei diritti umani, allora quel processo sta smantellando l’intero sistema del diritto internazionale creato dopo la Seconda guerra mondiale. E tutti ne sono consapevoli. Non si può permettere che un Paese, che è un alleato e a cui si forniscono armi, compia crimini di guerra sistematici e genocidio senza che questo implichi lo smantellamento dell’intero sistema giuridico internazionale. L’effetto sarà devastante. Qualsiasi Stato canaglia che desideri intraprendere simili atti di violenza potrà ora sostenere di non essere soggetto a critiche, poiché i Paesi che si dichiarano difensori dei diritti umani hanno permesso al loro alleato di compiere gli stessi crimini senza conseguenze. Questo sta già generando un cinismo enorme riguardo alle richieste di rispetto dei diritti umani, che appaiono ormai vuote. Dipende da dove avviene: se succede in un Paese africano, possiamo punirlo; ma se è il nostro alleato a farlo, non faremo nulla.

“Penso che la società israeliana potrà affrontare ciò che è successo solo dopo uno shock molto più grande di quello del 7 ottobre. Finché riuscirà a farla franca con ciò che sta facendo, come società non credo che sarà in grado di fare i conti con la realtà”.

Quando — e come — la società israeliana sarà chiamata a fare i conti con tutto ciò?

Penso che la società israeliana potrà affrontare ciò che è successo solo dopo uno shock molto più grande di quello del 7 ottobre. Finché riuscirà a farla franca con ciò che sta facendo, come società non credo che sarà in grado di fare i conti con la realtà. Se guardiamo ad altre società, prendiamo l’esempio della Germania e quello dell’Italia: la Germania, con gli anni, ha cominciato ad affrontare il proprio passato. Ci è voluto tempo — circa una generazione — ma questo processo è stato legato a rivelazioni, processi, e a un percorso di confronto con la storia. L’Italia, invece, non è mai stata molto brava in questo, perché non ha mai avuto un vero e proprio confronto con il passato. E quando non lo fai, quel passato torna inevitabilmente a galla. Quindi, Israele avrebbe bisogno di una terapia d’urto. Non so in quali circostanze ciò potrà accadere. Qualunque sia la direzione che prenderà Israele, se non cambierà il proprio paradigma politico — il che significherebbe affrontare il passato, non solo ciò che sta accadendo a Gaza, ma anche tornando al 1948 e affrontando le questioni fondamentali della società israeliana e il destino dei palestinesi — si troverà inevitabilmente di fronte a un punto di non ritorno.

Nel novembre 2023 ha scritto: “C’è ancora tempo per fermare Israele dal lasciare che le sue azioni diventino un genocidio. Non possiamo aspettare oltre”. A distanza di mesi, il tempo è scaduto. Cosa cosa si può fare ora? Come si spezza il ciclo dell’indifferenza?

Nella politica israeliana non c’è slancio per interrompere questo processo, per una moltitudine di ragioni. Al momento, in Israele, non c’è nessuno che possa fermarlo, mentre negli Stati Uniti la situazione è molto difficile. Se il presidente Trump volesse fermare i combattimenti, si fermerebbero. Ma non ha mostrato abbastanza interesse per farlo, non è veramente coinvolto in ciò che sta accadendo. Lo stesso vale per i Paesi europei, i quali vorrebbero solo che la questione sparisse. Anche se ci fosse un cessate il fuoco, non c’è una vera dinamica politica per andare avanti. Se ci fosse, dovrebbe esserci un cambiamento dell’intero paradigma politico israeliano. Alcune persone in Israele ne parlano, ma sono incapaci di realizzarlo. L’opposizione israeliana è molto debole e non ha idee. È solo una versione più moderata di Netanyahu. L’unico modo per portare a un cambiamento, finché viviamo in un Paese democratico e le persone ritengono che ciò che sta succedendo sia orribile, è mettere pressione sui propri governi. La scorsa primavera ci sono stati tentativi di farlo, ma sono stati bloccati con accuse di antisemitismo. Accuse completamente infondate, usate come strumento per bloccare non solo le critiche a Israele, ma qualsiasi forma di discorso. La probabilità più alta è che Israele continuerà a fare ciò che sta facendo, in un modo o nell’altro. A lungo termine, però, non ha un grande futuro, perché gli Stati di questo tipo tendono a non durare. Imploderà. Ma questo non accadrà nel prossimo futuro.

Jacopo Mocchi

Jacopo Mocchi è un reporter freelance italiano, esperto di Islam e Medio Oriente. Collabora con «L’Espresso» e «il manifesto».

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