Madonna è immortale e lo sappiamo grazie a questo album - Lucy sulla cultura
articolo

Daniele Cassandro

Madonna è immortale e lo sappiamo grazie a questo album

14 Novembre 2025

Vent’anni fa usciva "Confessions On a Dance Floor", album che ha garantito a Madonna una carriera impensabile per un’artista pop.  

Connect to the sky
Future lovers ride their ambitions high, would you like to try?
Connect to the sky

Madonna , Future Lovers, 2005

Se Jimi Hendrix in Purple haze, nel 1967, si scusava perché doveva volare via a baciare il cielo (“Excuse me while I kiss the sky”), Madonna nel 2005, in una canzone space-disco intitolata Future Lovers ci invitava a “connetterci al cielo”, dimostrando ancora una volta – anche solo con la scelta di una parola, “connect” –, quanto fosse in sintonia con i suoi tempi.

Nel 2005 non eravamo ancora iperconnessi. Anzi eravamo a malapena connessi: quindi quella di provare a farlo poteva sembrare un’ambizione condivisibile. Era un anno di passaggio: da una parte l’eredità analogica degli anni Novanta, dall’altra l’imminente esplosione del mondo digitale. Era un anno che ancora non conosceva gli smartphone, ma che cominciava timidamente a parlare il linguaggio del web 2.0. Era il momento in cui si scopriva che Internet non era solo un archivio di informazioni, ma un luogo dove si poteva “stare”. I social network erano qualcosa di appena abbozzato e quando si trattava di vita online erano ancora i blog e i forum di discussione a guidare il dibattito. Nasceva YouTube ma nessuno immaginava che i video amatoriali che venivano caricati là sopra sarebbero diventati l’estetica del futuro. C’era la sensazione che il mondo stesse accelerando ma non si sapeva ancora quanto e in quale direzione stesse andando.

Nel 2005, la quarantasettenne Madonna era una popstar matura in un momento in cui esserlo era una contraddizione in termini. Cher e Tina Turner, più vecchie di lei, erano ancora in carriera ma erano diverse da lei. La prima è un’attrice, mattatrice televisiva e cinematografica nonché anche cantante pop, praticamente un terminator dello showbiz americano; la seconda – morta due anni fa – era una leggenda vivente del rock, genere musicale che, grazie alla disponibilità economica dei baby boomer, garantiva (a molti uomini e pochissime donne) carriere lunghe e gloriose. Madonna invece è “solo” una popstar, per di più una cantante legata essenzialmente alla dance e come tale, secondo la logica comune, destinata all’estinzione.

Madonna aveva già dimostrato nei due decenni precedenti ottime capacità di sopravvivenza: grazie a un album in particolare, Ray of Light (1998), era riuscita a scavallare gli anni Novanta, dimostrando di non essere solo un’incarnazione superata degli anni Ottanta. La longevità per lei è stata una serie di scommesse artistiche fatte (e vinte) al momento giusto e di capacità di cavalcare lo spirito dei tempi. Fin dagli anni Ottanta di Madonna si diceva che era un’ottima imprenditrice di se stessa, un’abile manipolatrice dei mezzi di comunicazione e una scaltra approfittatrice dei talenti altrui. Luoghi comuni che hanno fatto perdere di vista quella che forse è stata la vera ragione della sua lunga carriera. Madonna ha sempre ragionato, lavorato e agito come un’artista anche se la pop dance, il genere che l’aveva resa famosa, non prevedeva la possibilità di esserlo. 

Confessions on a Dance Floor esce in Europa il 14 novembre del 2005 ed è il suo decimo album. Dopo l’insuccesso di American Life, un lungo tour e un ambizioso progetto di documentario (I’m Going to Tell You a Secret) su cui sta ancora lavorando al montaggio, Madonna non ha alcuna voglia di entrare in studio per incidere un nuovo lavoro. La Warner Bros. però vuole un nuovo disco e da contratto ha tutti i diritti di esigerlo. All’inizio cerca di lavorare con Mirwais, il produttore franco-marocchino con cui aveva realizzato successi come Music e Die Another Day, ma lui ha dei problemi personali, è probabilmente esaurito, e rinuncia. Madonna non può permettersi di aspettarlo e chiama il produttore inglese Stuart Price (già noto come Jacques Lu Cont e Les Rythmes Digitales nonché direttore musicale del suo ultimo tour). L’idea di fare un album puramente dance le è venuta per due ragioni: per fare in fretta e magari per divertirsi un po’. Madonna passa così metà giornata nello studio di montaggio con Jonas Åkerlund, il regista del suo documentario, e l’altra metà con Stuart Price in uno studio di registrazione improvvisato nella soffitta della sua casa londinese.

Madonna passa per essere una perfezionista e una maniaca del controllo, ma in realtà quando è nel suo territorio, ovvero la dance, sa essere molto veloce e istintiva. “Madonna ha sempre avuto un approccio molto spontaneo, molto ‘buona la prima’, quando si tratta di registrare la sua musica” spiega Giulio Mazzoleni, ex discografico e autore del monumentale volume Madonna Songbook che analizza nel dettaglio tutta la produzione discografica dell’artista. “La parte vocale di Into the Groove, quella che sentiamo nel singolo uscito nel 1985, era quella del demo originale. Le era stato chiesto di ricantarla ma lei ha detto: perché mai? Va benissimo così. E il suo atteggiamento in studio con Stuart Price era simile: Madonna ascoltava le basi o gli embrioni di canzoni che le proponeva Price e buttava giù le sue idee per le parole, registrandole spesso seduta stante. Durante questo processo Madonna ama avere poche persone intorno: sceglie apposta piccoli studi, anche poco attrezzati. La soffitta di Stuart Price in questo senso era l’ambiente creativo ideale per lei.

C’è anche una ragione economica dietro a queste scelte: Madonna sa molto bene quanto gli studi di registrazione all’avanguardia o quelli di lusso possano pesare sul budget complessivo”. L’intero album si è sviluppato rapidamente intorno a una singola canzone, Hung Up, che Price aveva abbozzato mesi prima quando stava collaborando con Madonna a un’idea di musical che poi era naufragata. Madonna gli aveva chiesto di scrivere un pezzo “come lo avrebbero scritto gli Abba se si fossero drogati”. Hung Up, che era nata da un groove su cui Price, durante una serata in cui metteva i dischi in un club, aveva aggiunto il riff di Gimme! Gimme! Gimme! (A Man After Midnight) degli Abba, viene ripescata durante le primissime sessioni di Confessions. Madonna capisce subito di avere in mano una hit e vuole assolutamente il campionamento degli Abba.

Le negoziazioni sono lunghe e faticose e Benny Andersson e Björn Ulvaeus degli Abba accettano solo a condizione di comparire come coautori del pezzo garantendosi il cinquanta per cento delle royalties. “Una condizione davvero pesante che ha pochi precedenti nella discografia e che non riconosce a Madonna e Price sufficiente credito della parte della canzone che era stata originalmente creata da loro”, mi spiega Mazzoleni. 

La nu disco di Hung Up detta il suono dell’intero album che viene strutturato come un lungo dj set senza interruzioni e, soprattutto, senza pezzi lenti. In Confessions sono forti le influenze di Giorgio Moroder e Donna Summer, della house francese, della Hi-NRG delle discoteche gay dei primi anni ottanta e un pezzo intitolato I Love New York ha un po’ di quel sapore di New Wave ibridata con la disco dei Blondie a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. 

I Love New York non è forse il pezzo più rappresentativo dell’album come suono ma, insieme a Hung Up, è un po’ il cuore concettuale di Confessions on a Dance Floor. New York è la città che ha fatto nascere Madonna e con questo album, tutto ispirato alla disco e alla dance degli anni in cui muoveva i primi passi nella musica, lei si riconnette alle sue origini di artista. Uso la parola artista, con tutta la sua gravitas, non tanto per esprimere un giudizio di merito sulla musica di Madonna quanto per sottolineare il suo metodo di lavoro, la sua inclinazione fin dai primissimi anni. La giovane “Madonna Louise Veronica Ciccone” che arriva a New York nel 1978 dal Michigan ha, leggenda vuole, solo 35 dollari in tasca e vuole essere un’artista, nella fattispecie una danzatrice. Aveva studiato danza all’università e sapeva che a New York avrebbe trovato altra gente come lei. Leggendo Bread of Angels, il nuovo memoir di Patti Smith, mi colpisce una sorta di parallelismo tra le due: “Nel 1967 uscii dal terminal degli autobus di Port Authority con una valigia a quadri”, scrive Patti Smith, “Il mio desiderio era diventare un’artista. Forse mi mancavano le capacità necessarie, ma avevo la volontà di svilupparle, perché credevo nella verità della mia vocazione”. Madonna, esattamente 11 anni dopo, arriva nella stessa città con le stesse intenzioni. Ma se la New York in cui arrivava Patti Smith nel 1967 era quella della psichedelia e di Bob Dylan, del teatro sperimentale e del minimalismo, quella in cui arriva Madonna è la cadente, pericolosa e sporca metropoli della bella gente che va allo Studio 54 mentre nel Bronx nascono l’hip hop e i graffiti. È la New York di artisti come Keith Haring e Jean Michel Basquiat – che presto diventano suoi amici, con il secondo ha anche una storia e lui le regala diversi quadri che lei deve restituirgli quando si lasciano. Anche quando non è nessuno, anche quando finisce a letto con qualcuno per avere un tetto sulla testa almeno per una notte e potersi fare una doccia (lo racconta Mary Gabriel nella sua monumentale biografia Madonna – Una vita ribelle), Madonna pensa a se stessa come un’artista. Esattamente come dieci anni prima faceva Patti Smith. La musica che la giovane Madonna ha intorno a New York è la disco dei locali che frequentava come club kid ma anche come cameriera, guardarobiera o buttadentro, la punk-wave di posti come il CBGB’s, il primo hip hop che già tracimava nella musica pop grazie a pezzi come Rapture dei Blondie ma anche il post-punk elettronico e stridente dei Devo e dei Suicide. Madonna si trova lì in mezzo e respira quella cultura e quell’aria tutte le sere. Anzi, è un piccolo pezzo di quella storia anche quando non è ancora una star. Soprattutto quando non è ancora una star. Gli unici ad averle riconosciuto un ruolo in quella scena sono stati, in modo un po’ obliquo, i Sonic Youth che, cambiando nome in Ciccone Youth, con una sorta di bizzarro album-tributo uscito nel 1989, restituivano Madonna alle sue origini new wave. The Whitey Album è un lavoro frastagliato e dissonante, fatto di rudimentali campionamenti, drum machine, feedback e improvvisazione. In mezzo a quel caos sonoro emergono, ben riconoscibili, due canzoni di Madonna: Into the Groove – intitolata qui Into the Groove(y) – e Burnin’ Up – cambiata in Burning Up.

I due pezzi, il primo una hit internazionale e il secondo uno dei suoi primi singoli, sono trattati con un certo rispetto dai Sonic Youth: la maggior parte della stampa rock vede in quell’operazione uno sberleffo, una presa in giro della pop star di plastica che sta dominando il mondo. In realtà i Sonic Youth fanno una sorta di omaggio neo-dadaista alle sue origini, che poi sono anche le loro. Per parafrasare il titolo di un altro loro album molto famoso i Sonic Youth vedono nella giovane Madonna una sodale di quel Experimental Jet Set (Trash and No Stars) di cui anche loro facevano parte: un jet set sperimentale fatto di rifiuti umani e senza neanche una star. Madonna invece una star lo sarebbe diventata. E i Sonic Youth pure.   

La Madonna dei primissimi anni Ottanta non abbandona la danza per fare la cantante ma la incorpora in un nuovo modo di presentarsi come artista pop; fa lo stesso con la moda e con la presentazione di se stessa quando balla nei club. Madonna nel 1972 era scappata di casa con un’amica (la fonte è sempre la biografia di Mary Gabriel) per andare a Detroit a vedere lo Ziggy Stardust Tour di David Bowie. Che la musica pop potesse essere anche teatro, danza, performance lo ha imparato già allora e quando si è trattato di sfruttare le potenzialità di Mtv e del video musicale lei era già culturalmente pronta. 

Confessions On a Dance Floor funzionava nel 2005 e funziona ancora oggi perché si ricollega alla vera essenza artistica di Madonna: la dance come spettacolo, la pista come teatro e il corpo e la sessualità come strumento di espressione. Confessions, pur essendo il lavoro di un’artista ricca, famosa e matura, un album realizzato in fretta e furia per onorare un contratto, riesce ancora a dare l’idea del club come comunità, come espressione di sé, come taglio netto rispetto al grigiore della vita quotidiana in una società ipercapitalista.

Madonna ora è parte di quella società ipercapitalista (lo aveva ammesso lei stessa nel poco amato album American Life) ma con Confessions riesce a riconnettersi con la se stessa del 1980, ancora ai margini, ancora ambiziosa, ancora creativa. Dal punto di vista musicale è un album rétro ma non nostalgico: il miracolo che riesce a Stuart Price è quello di creare un suono vintage che però sa di futuro. Anzi, di retrofuturo.

“È un lavoro retrofuturista in netto anticipo sui tempi nostalgici e retromaniaci in cui viviamo oggi, ma soprattutto è il lavoro di una popstar che ragiona e opera come un’artista”.

Confessions On a Dance Floor esce in un momento di crisi epocale dell’industria discografica. Madonna aveva resistito fino al 2005 prima di accettare che il suo intero catalogo fosse reso disponibile su iTunes. Quando cede lo fa per un sacco di soldi, ma quando si tratta di capire dove tira il vento è velocissima a trarre le sue conclusioni. “Nel 2005”, ricorda Mazzoleni, “La discografia credeva di aver trovato la salvezza nei ringtone, ovvero le suonerie dei cellulari. Il tema venne fuori a un keynote di Apple proprio nel momento in cui Madonna stava accordandosi con iTunes: a quel punto lei si è detta: Ehi, io ho una canzone che parla di agganciare il telefono (Hung Up), usiamola!”. Madonna era, come tante altre volte le era capitato, al posto giusto al momento giusto. 

Confessions on a Dance Floor è la pietra filosofale che racchiude il segreto della longevità pop di Madonna. È un lavoro nato in modo spontaneo e immediato attorno a cui si è coagulato un aspetto visivo molto curato fatto di foto (specialmente quelle promozionali realizzate da Steven Klein), di moda (la messa in piega da Amanda Lear fine anni settanta associata a un body da danza moderna con sopra un bomber di pelle viola) e di danza (il parkour nel video di Hung Up). È un lavoro retrofuturista in netto anticipo sui tempi nostalgici e retromaniaci in cui viviamo oggi, ma soprattutto è il lavoro di una popstar che ragiona e opera come un’artista.

“Se fossi una canzone sarei superpop”, canta Madonna in Superpop, uno dei pezzi su cui aveva cominciato a lavorare con Mirwais e che poi sono stati tagliati dalla versione finale dell’album. Scorrendo il testo, pieno di name dropping e di riferimenti a icone del suo pantheon personale (Marlon Brando, Frida Kahlo, Isaac Newton e Martin Luther King) non si può non pensare al padre della pop art Andy Warhol che, nei suoi diari degli anni ottanta, si professava “pazzo di Madonna”. La New York in cui approda Madonna da giovane è anche quella della fase terminale, ipermondana e un po’ malinconica della carriera di Warhol, un artista che per mantenere intatta la sua mistica pop ha sempre cercato di nascondere il suo essere in tutto e per tutto un artista. E invece faceva arte ventiquattr’ore su ventiquattro, anche quando andava a fare il flâneur allo Studio 54 o al Danceteria con Grace Jones e Diana Ross, magari mollando distrattamente il cappotto a una giovane guardarobiera italoamericana di nome Madonna.

Daniele Cassandro

Daniele Cassandro è giornalista di «Internazionale» e collabora con diverse testate. Il suo ultimo libro è Dischi volanti (Curci, 2024).

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