Perché su Ventotene Meloni sbaglia - Lucy
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Vanessa Roghi

Perché su Ventotene Meloni sbaglia

21 Marzo 2025

La destra di Meloni è incompatibile con la cultura e le idee che hanno animato la redazione del Manifesto di Ventotene. Ma la rilettura che la premier ha fatto del testo di Spinelli e Rossi è strumentale e incompleta.

Chi punta il dito sulle parti caduche di un’opera classica per screditarla e dichiararla morta non sa come veramente nasca un’idea destinata a durare né che cosa sia un classico. È proprio dal suo impregnarsi di circostanze storiche per definizione uniche e irripetibili, che una grande persona trae una verità, un messaggio che trascende quelle circostanze e vale per altri tempi e altre circostanze.
Tommaso Padoa Schioppa, Introduzione a Il Manifesto di Ventotene


Nessuno dovrebbe stupirsi del fatto che una persona cresciuta politicamente a destra, la destra del Movimento Sociale Italiano e di Alleanza nazionale, possa affermare che l’Europa immaginata a Ventotene non sia la sua. 

Innanzitutto perché un Manifesto che nasce al confino, un confino comminato dal regime fascista, non può rientrare in alcun modo fra le matrici culturali di questa destra. Vale la pena ricordarlo anche se sembra una banalità, ma non perché, come è stato scritto, l’Europa serve a questa destra solo per ragioni opportunistiche, bensì per il motivo opposto: perché l’europeismo di destra ha una sua storia.

Quale sia l’Europa che la destra ha sempre avuto in mente, lo ha spiegato molto bene lo storico Giuseppe Parlato nei suoi studi: un’idea che nasce, assieme al MSI, alla fine della Seconda guerra mondiale insieme al MSI (1946), come posizione terza fra il bolscevismo e l’atlantismo – che comunque il MSI non ha mai messo in discussione–, diventando presto una “terza posizione” ma solo a parole, perché animata da due stelle polari: quella dell’anticomunismo e quella dei nazionalismi, dell’Europa Nazione, dell’Europa delle Nazioni ma saldamente legata alla NATO. Del resto, solo l’Europa, fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ha permesso, a un partito minoritario e ai margini della vita politica nazionale come era il MSI di trovare alleanze in partiti numericamente e istituzionalmente ben più importanti: la destra portoghese, quella spagnola, quella greca, e non a caso per le prime elezioni europee del 1979, in polemica con il progetto dell’eurocomunismo di Enrico Berlinguer, Almirante proporrà l’eurodestra, un’alleanza con spagnoli e francesi.

Sull’immaginario europeo che ha nutrito questa destra consiglio di leggere Fascisti immaginari di Luciano Lanna e Filippo Rossi (Vallecchi 2003), ancora oggi una vera e propria miniera che forse sarebbe il caso di recuperare, perché credo che il libro non si trovi più. Alla voce Europa Nazione, Lanna e Rossi riportano quel passaggio geniale del Fasciocomunista di Antonio Pennacchi nel quale il protagonista, Accio Benassi, per rimorchiare una ragazza di sinistra dice: “‘Sì sono fascista… però sto dalla parte del Vietnam. E poi sto dalla parte dei lavoratori, contro i capitalisti: la socializzazione, il corporativismo, l’Europa-Nazione’”. L’Europa Nazione? Su tutto il resto la ragazza è disposta a discutere ma quell’Europa Nazione – un concetto, un’idea-forza, uno slogan? – le risulta davvero incomprensibile’”. Mentre “Europa / nazione / rivoluzione”, avevano scandito per tutti gli anni ’60 i ragazzi della Giovane Italia. “Europa / fascismo / rivoluzione”, urlavano intorno al ’68 i più “radicali”. “Risorgi Europa / risorgi sul mondo / risorgi più grande / risorgi con noi / Nella tua nuova storia / c’è scritto già vittoria”. Molte riviste di destra sono state dedicate all’Europa a partire dal movimento transnazionale, terzoforzista e antimperialista, fondato nei primi anni ’60 dal belga Jean Thiriart (autore del libro Europa: un impero di quattrocento milioni di uomini). Ancora da Fascisti immaginari

“Una certa idea di europeismo si affermerà tra i giovani proprio attraverso i tanti slogan della Jeune Europe: ‘Da Narvik ad Atene / da Brest a Bucarest’; oppure ‘Nulla ci appartiene nell’Europa di oggi /Tutto ci apparterrà in quella di domani’”.

La caduta del muro di Berlino, la segreteria di Gianfranco Fini, la nascita di Alleanza Nazionale sono tutte tappe di una storia che ha portato la destra post MSI a essere sempre più forza di governo e sempre meno di lotta e questo ha significato che da slogan l’idea di Europa Nazione è diventata parte di un programma politico vero e proprio. E così, come quello della Nato era stato l’ombrello perfetto per il MSI, quello di Trump oggi lo è per questa destra. Europa indipendente, ma con giudizio. Del resto l’Europa, oggi più di ieri, rappresenta un eccezionale laboratorio di politiche conservatrici per non dire reazionarie. L’europeismo, insomma, non è per forza quello immaginato dai confinati a Ventotene ma, senza bisogno della Presidente Giorgia Meloni, è certo che l’Europa che fa morire esseri umani ai suoi confini non è né di sinistra né solidale.

Ovviamente, nel discorso della Presidente del Consiglio c’è qualcosa che va oltre tutto questo ed è il riferirsi al manifesto di Ventotene in modo strumentale per dimostrare la sua inattualità. La sua pericolosità quasi. 

Meloni, infatti, ha detto: ma come vi viene in mente di distribuire il Manifesto di Ventotene durante una manifestazione per l’Europa di oggi? In quel Manifesto si parla di abolizione della proprietà privata, di Europa socialista e di disprezzo per le democrazie. E ha ribadito: non mi sono inventata niente, io ho solo letto il testo. Verissimo, peccato che l’abbia letto estrapolando alcune frasi e decontestualizzando il tutto.

Prendiamo la questione della proprietà privata. Nel paragrafo dedicato dal Manifesto di Ventotene ai Compiti del dopoguerra. La riforma della società, leggiamo: 

“La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista; ma, una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”.

Quindi dice esattamente il contrario di quanto affermato da Meloni. Abolire la proprietà privata in sé non serve a niente, anzi, rischia di produrre quello che è stato lo statalismo stalinista, che gli europeisti di Ventotene aborrono. Per saperlo basterebbe conoscerne le biografie, del resto. Basterebbe aver letto la bellissima nota che Lucio Levi ha apposto al testo del Manifesto nell’edizione dei Classici di Mondadori.

In questo caso è Spinelli che ricorda del suo progressivo aderire a un’idea di libertà diversa da quella da cui era partito (in carcere impara che la libertà è un valore imprescindibile per ogni essere umano).

“Resistetti a lungo a questo suo disegno (di Rossi, nda), volendo difendere l’ultimo bastione socialista rimasto in piedi nella mia mente, secondo il quale comunque bisognava metter fine al capitalismo e sostituirlo con il socialismo. Ma dovetti arrendermi ai suoi ragionamenti e riconoscere i servizi insostituibili resi dall’economia di mercato, il legame logico ineliminabile fra proprietà pubblica di tutti i mezzi di produzione e dispotismo politico, l’inconsistenza logica di ogni forma di società sindacalista, corporativa o di autogestione, sostitutiva del mercato […] Ernesto Rossi mi mostrava che c’era un altro modo, diverso da quello socialista o comunista, di criticarla [la società capitalista], che c’era un altro progetto migliore di quello socialista e comunista di riformarla.”

Perché su Ventotene Meloni sbaglia - Copia originale dell’edizione del 1944, conservata presso la fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano.

Copia originale dell’edizione del 1944, conservata presso la fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano.

L’esito di queste discussioni è quello che scrivono Rossi e Spinelli nel Manifesto: “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”. 

Abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso. 

Dove va abolita? Nei monopoli. “(Es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, grandi armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti”. E così accadrà nell’Italia del dopoguerra, quando l’energia elettrica verrà nazionalizzata dal Governo Moro nel 1963. 

Limitata. In ballo c’è la questione dei latifondi e della riforma agraria che fu puntualmente avviata nel 1950 da Alcide De Gasperi, Antonio Segni e Amintore Fanfani e che consegnò a oltre un milione di contadini, mezzadri, braccianti e affittuari, circa 3,6 milioni di ettari incolti o mal coltivati. Che poi gran parte di questi contadini fossero cattolici, elettori della Democrazia Cristiana è oggi poco importante, i loro nipoti beneficiano tuttora di quell’atto di espropriazione di terre che si vorrebbe far passare come bolscevico. E infatti qui entra in ballo il verbo estendere: “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso”. Estesa: a chi? Ai piccoli proprietari, ai contadini, ai mezzadri.

Riguardo l’Europa socialista e il disprezzo per la democrazia rappresentativa evocato dalla Presidente bisognerebbe ricordare un altro passo del Manifesto:

“Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarsi, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quel che tutti già sanno sulla necessità di organi rappresentativi, sulla formazione delle leggi, sull’indipendenza della magistratura che prenderà il posto dell’attuale per l’applicazione imparziale delle leggi emanate, sulla libertà di stampa e di associazione per illuminare l’opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato”.

Ma come si configurerà la rappresentanza? Chi sono gli italiani che per venti anni sono stati fascistizzati? La democrazia è un tirocinio costante, una pratica, non solo una teoria. Come fare gli italiani democratici dopo tanti anni di disabitudine al dibattito politico, alla partecipazione, al voto? Quello che si domandano Spinelli e Rossi se lo chiedono nello stesso momento tutte le forze politiche dell’antifascismo. Con fiducia, la risposta collettiva che daranno sarà quella del Comitato di Liberazione Nazionale e del patto antifascista che porterà, finita la guerra, a intraprendere la nuova strada della democrazia rappresentativa. Non c’è sfiducia verso il popolo, c’è sfiducia verso la democrazia così come l’hanno conosciuta fino a quel momento i confinati. Cioè una democrazia nazionalista.

Prendiamo, scrivono, che si restauri la democrazia così come è stata immaginata nel XIX secolo “e che il corso degli avvenimenti ha fatto crollare: cioè il principio secondo cui ogni nazione ha il diritto di organizzarsi in uno stato sovrano assolutamente indipendente; e quello secondo cui l’uomo ha imparato ad essere più o meno rispettoso della personalità altrui nell’ambito delle leggi esistenti, ed esigere dagli altri lo stesso rispetto verso di sé, ed a svolgere così in modo libero e spontaneo la propria personalità, indisturbato per quanto concerne le sue esigenze individuali, o in volontaria collaborazione coi consenzienti per quanto concerne le esigenze collettive”. E ancora: “Poniamo che riescano dovunque a fondare nei vari stati istituzioni libere in cui siano rispettati nel miglior modo possibile i sentimenti delle tradizionali nazionalità; siano ridotte a un livello insignificante le influenze sinistre di gruppi particolari, in modo che la legge possa veramente imperare eguale per tutti; siano eliminati tutti i protezionismi e tutte le limitazioni migratorie fra paese e paese; siano sostanzialmente ridotte tutte le spese per gli armamenti; l’attività dello stato sia insomma rivolta non alla sopraffazione verso l’esterno, ma al perseguimento dei comuni interessi dei suoi cittadini”. Bene, scrivono Spinelli e Rossi: questo porterà a una Europa delle Nazioni che non è garanzia sufficiente per prevenire un’altra guerra mondiale.

Perché una tale ipotesi ignorerebbe comunque la questione dei vincoli internazionali. 

“Mentre nel campo nazionale il restauratore intelligente capisce che è necessario non affidarsi semplicemente alla buona volontà dei cittadini, ma provvede a stabilire un saldo corpo di leggi fornite di potere coercitivo onde raffrenare e indirizzare le singole attività, i rapporti fra vari stati restano basati esclusivamente sulla buona volontà pacifica di ciascuno di essi, nel presupposto di una completa coincidenza dell’interesse dei singoli stati con l’interesse della collettività degli stati stessi. Ma questo presupposto non è vero; è vero anzi il presupposto contrario. In assenza di proibizioni, è possibilissimo procurarsi posizioni che rappresentino un danno per altri ed un vantaggio per sé. Perché un tale abuso accada, non è necessario supporre una particolare perversa volontà di sopraffazione; basta che uno stato pensi che suo dovere sia, non già di provvedere al benessere di tutti gli uomini, ma a quello dei suoi cittadini. Lo stato nazionale è costruito appunto a questo scopo; esso è organicamente inadatto a vedere gli interessi di tutti gli uomini. Mille e una occasione si presenterebbero ad ogni istante, nelle quali l’interesse di particolari gruppi geografici sarebbe meglio favorito danneggiando anziché rispettando l’interesse di tutti gli altri paesi. Nulla esisterebbe che potrebbe trattenere dall’imboccare questa strada. Ma una volta presa, diventerebbe pressoché impossibile tirarsi fuori dall’ingranaggio che impone ad ogni stato di difendere gli interessi lesi dagli abusi altrui, ricorrendo infine alla forza per farli valere. Ricomincerebbe la militarizzazione progressiva dei singoli paesi, micidiale per qualsiasi sano regime di libertà; si ripeterebbe il ciclo già percorso due volte fra il 1870 e il 1914 e fra il 1918 e il 1938. La restaurazione democratica nazionale poggerebbe perciò, anche nella migliore delle ipotesi, su basi quanto mai precarie”.

Per questo un’Europa federata è l’unica strada possibile da percorrere. L’Europa dei diritti e non delle merci, l’Europa dei cittadini e non dei governi. Una prospettiva socialista? Direi di no. Democratica e progressiva? Sì. Europa Nazione? No. Europa dei popoli? Sì.

Per questo Eugenio Colorni, nella Prefazione al Manifesto, scrive che nessuno vuole pronunciarsi sui particolari istituzionali che segneranno il futuro dell’Europa. Starà ai partiti e alla loro libera discussione deciderlo. Ma, scrive Colorni, noi vogliamo subito dire che ovunque andrà l’Europa ci sono alcune questioni che vanno poste da subito: “esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”. Questa federazioni di Stati non si protegge soltanto instaurando in ognuno di essi la democrazia, perché, non è detto che due stati democratici non si facciano guerra tra di loro, così come non è detto che non se la facciano due paesi comunisti. Bisogna andare oltre il governo nazionale, uno sforzo di immaginazione che, vale la pena ribadirlo, viene portato avanti in anni nei quali la possibilità di immaginare questo futuro è offuscata dalla guerra, dai milioni di morti, dal dolore. Il futuro appare opaco e incerto e questo Manifesto che Colorni farà stampare clandestinamente nella Roma occupata e per il quale verrà ucciso brutalmente dalla Banda Koch, questo Manifesto, dicevo, accenderà una luce che è sì, nel 1944, un tenue bagliore, ma, citando Eugenio Montale, non come quello di un fiammifero. 

Non basterà una ventata per spegnerlo se ancora oggi, grazie anche a quella luce, questa Europa continuiamo a cercarla.

Vanessa Roghi

Vanessa Roghi è storica, saggista, autrice e ricercatrice indipendente. Il suo ultimo libro è Un libro d’oro e d’argento. Intorno alla «Grammatica della fantasia» di Gianni Rodari (Sellerio, 2024).

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