Francesca Serafini
Un’analisi dei testi dell’imminente Festival della canzone italiana, che a parte qualche eccezione – il canguro di Brunori SAS – sintetizzano il conformismo tematico e immaginifico della musica contemporanea.
A Roma, in certi giorni di febbraio, prima che l’inverno rinvenga coi suoi colpi di coda, è già primavera. Una primavera percepita, almeno; condizionata, nel mio caso, più ancora che da un cambio reale delle temperature e della luce, da due appuntamenti sempre concomitanti quando ero bambina e che per me rappresentavano il preludio alla bella stagione: la settimana bianca e il Festival di Sanremo.
Per molti anni – tutti quelli della mia infanzia e della mia adolescenza – nella prima metà di questo mese cortissimo e spensierato, la mia famiglia, sempre con la stessa comitiva di parenti e di amici, partiva per le montagne del Nord (Dolomiti e Valtellina, perlopiù). Erano giorni luminosi in cui si sospendevano i doveri (scuola per i figli; lavoro per i genitori) e tutti ci si appropriava di un tempo da condividere veramente libero: scandito solamente dagli orari di apertura e di chiusura degli impianti sciistici, dal momento che nessuno di noi avrebbe perso anche solo una discesa di quelle che le nostre abilità tecniche e atletiche ci permettevano di affrontare in quella forbice. Poi, la sera, sfiniti di una stanchezza sana (e così commovente, a ripensarci, nel confronto spietato con quella con cui mi capita di avere a che fare più spesso ora), ci si ritrovava tutti nella sala tv dell’albergo per vedere insieme il Festival, in questa allegra succursale alpina del teatro Ariston in cui ognuno, legittimamente, aveva un’opinione da esprimere: un po’ come succede con le partite di calcio. E se quelle, per i Selvaggi e sentimentali di Javier Marías, rappresentano il “recupero settimanale dell’infanzia”, Sanremo, per me, ne è decisamente quello annuale.
Felice come sono tutt’ora di lasciarmi risucchiare nel rituale stordente di questo frullatore di musica e costume in cui occasionalmente si può intercettare qualcosa di veramente bello – quello che poi in genere sopravvive nel tempo – e in cui per il resto ci si diverte a criticare quello che non lo è. Sempre, naturalmente, in base alla propria sensibilità, al proprio gusto e alle proprie oggettive – perché anche in un contesto leggero (anzi: leggerissimo) come quello sanremese non possiamo ignorare che esistano – competenze musicali, linguistiche, culturali in genere.
Ora, di là dal rapporto che esiste nella mia storia personale tra il Festival e la settimana bianca, mi sembra che qui l’accostamento potrebbe essere di una qualche utilità anche in generale per una ricognizione sulla manifestazione canora (e forse non solo), se consideriamo come è cambiato nel tempo lo sci secondo una linea che invece – avvicinandoci a poco a poco all’edizione che sta per cominciare – ha riguardato Sanremo da molto prima.
Come ricorda l’Enciclopedia Treccani, “Negli anni Novanta del Novecento è stato elaborato uno sci con profilo ad arco di cerchio, più largo in punta e in coda, detto sci carving”. Alessandra Lombardi, autrice della voce, ricorda come con questo nuovo modello “uno sciatore esperto riesce ad affrontare le curve ad altissima velocità grazie alla forma particolare di questo sci che segue l’impostazione della curva stessa”. Lombardi però non prende in considerazione altre due conseguenze determinate dall’introduzione su larga scala di questa sciancratura innovativa. La prima è che questi sci, proprio facilitando la curva (senza la necessità di particolari piegamenti di accompagnamento), hanno permesso anche ai principianti di tenersi in sicurezza “alti sulle zampe” (per dirla nel cinghialese di Giordano Meacci), incoraggiando per questo un notevole incremento nelle vendite. E dall’altro lato, però, proprio per la loro conformazione a 8 (bombata in cima e in coda), hanno sancito una distanza obbligata tra uno sci e l’altro, imponendo uno stile unico di sciata per tutti (fatta eccezione per i professionisti, che variano il tipo di sci a seconda delle specialità agonistiche). Per cui, se prima tra uno sciatore esperto e uno dilettante la differenza era data anche da quanto tenessero stretti o larghi tra loro gli sci, ora è deducibile soltanto dalla velocità: direttamente proporzionale ovviamente al loro livello di destrezza.
“Felice come sono tutt’ora di lasciarmi risucchiare nel rituale stordente di questo frullatore di musica e costume in cui occasionalmente si può intercettare qualcosa di veramente bello – quello che poi in genere sopravvive nel tempo – e in cui per il resto ci si diverte a criticare quello che non lo è”.
Prima, in sostanza, si poteva svariare tra più stili – dalla serpentina allo scodinzolo (con gli sci praticamente attaccati, essendo dritti) – in base alla pendenza, o al tipo di neve e all’eventuale presenza di lastre di ghiaccio; e adesso invece si è costretti a procedere in un’unica sciata indistinta che dal mio punto di vista – con una libertà digressiva che mi prendo, mi rendo conto – finisce per togliere eleganza a questo sport, lasciandogli solo l’ebbrezza che comporta la velocità e il fascino dello scenario in cui si svolge. Un processo, questo, che a pensarci riguarda – estremizzando la forzatura – molti più àmbiti di quelli che possono rientrare consapevolmente nella nostra percezione. Avviene lo stesso per esempio nella guida delle auto con cambio automatico (nessuna scelta di marcia per adeguare i giri del motore al terreno: tutti noi ridotti a piloti di macchine da giostra, attivi solo nella rotazione del volante); e anche, con un salto ancora, per esempio nella lavorazione dei vini: con gli additivi e l’affinamento in barrique che tendono ad omologarli in un unico gusto, magari più gradevole, e quindi generalmente più appetibile, e però a discapito della personalità di ognuno di loro, se è vero che l’identità del vino è anche nei suoi difetti (come sostengono poi i cultori di quelli naturali).
Si ha la sensazione, insomma, di assistere in tanti contesti diversi a un livellamento che dà un’illusione di apertura democratica (tutti possiamo sciare, tutti possiamo guidare o bere vino senza sconvolgere il palato; e contestualmente tanto più possono guadagnare le aziende che immettono questi prodotti sul mercato). Ma che in realtà, rimuovendo la possibilità di distinguerci per quello che ognuno di noi può fare (o apprezzare nel gusto), ci sta lentamente traghettando conformi in un blob indistinto e massificato in cui è rimosso tutto ciò che è difficile e richiede uno sforzo (come per esempio imparare a sciare prima dei carving); o è disturbante (come certe intermittenze innescate sul palato dal vino non trattato): finendo per ridurre il ventaglio delle nostre personali possibilità di scelta.
Quello che – per tornare al Festival – avviene anche per le canzoni sanremesi, anche solo per il fatto di essere composte perlopiù sempre dagli stessi autori. Anche quest’anno, per esempio, la firma di Davide Petrella ricorre in quattro brani (Elodie, Gaia, The Kolors e Tony Effe); quella di Davide Simonetta in cinque (Achille Lauro, Elodie, Francesca Michielin, Francesco Gabbani e Rocco Hunt); fino ad arrivare a sei per quella di Federica Abbate (Clara, Fedez, Joan Thiele, Rose Villain, Sarah Toscano e Serena Brancale).
Circostanza che l’anno scorso ha suscitato l’indignazione di Morgan: “A questo punto prendiamo atto del fatto che questi Davide Petrella e Davide Simonetta siano i capi della canzone italiana, loro hanno lo scettro della scrittura dei pezzi, quindi noi umili musicisti cittadini facciamo una petizione regolare con cui richiedere una pluralità di argomenti per i testi e di successioni armoniche per gli accordi, facciano ciò che vogliono con la melodia (grido di battaglia del dilettante secondo Schumann)”.
Per quanto mi riguarda, l’album Canzoni dell’appartamento potrebbe bastare per fare di Morgan uno degli artisti italiani più significativi di sempre (a de Laclos, per esempio, è bastato scrivere un solo romanzo per lasciare una traccia indelebile nella storia della letteratura mondiale): e uno qualunque dei brani che compongono la raccolta supera in bellezza la maggior parte di quelli vincitori di tante edizioni del Festival. Nondimeno, ci sono aspetti della sua invettiva che andrebbero approfonditi. Da un lato, il fatto che prende di mira i contenuti delle canzoni – parla infatti di “pluralità di argomenti” – quando un artista dovrebbe preoccuparsi semmai dell’omologazione della forma (e delle forme). E, dall’altro lato, una certa mancanza di prospettiva rispetto al contesto sanremese e alla sua storia.
Mi spiego. Certo sono tanti sei brani in gara per un’unica autrice, tuttavia non si può dire che questo primato riguardi solo Federica Abbate e che rappresenti il segno dei tempi se è vero – come ci ricorda Eddy Anselmi su «Tv Sorrisi e Canzoni» – che Vito Pallavicini nel 1965 ne aveva portati in finale altrettanti, risultando storicamente in generale l’autore più prolifico del Festival con cinquantadue motivi in gara dal 1961 al 1989, scritti per interpreti diversissimi tra loro (da Celentano a Patty Pravo, da Fred Bongusto a Mina, da Iva Zanicchi a Toto Cutugno).
Non si tratta dunque di un’egemonia esclusiva legata ai nomi contro cui si scaglia Morgan: che comunque ai nostri giorni sembrano imperversare (possibile non ci siano altri parolieri?) e sulla cui statura in qualità ci si può certo interrogare, anche nel confronto, di là dai numeri, con i testi scritti da Pallavicini (tra cui, per esempio, Azzurro o Insieme a te non ci sto più). Si tratta invece di qualcosa che riguarda il sistema musica in generale e da molto tempo a questa parte. Con una divisione storica tra cantautori (chi canta le canzoni che si scrive) e interpreti (che a volte scelgono dei loro autori; e a volte vengono scelti dalle case discografiche per eseguire un brano di uno dei compositori che hanno sotto contratto: e magari non pensato originariamente per quello stesso artista). Al Festival, se guardiamo alla sua storia, generalmente partecipano gli interpreti (spesso grandissimi come Mia Martini, per fare un solo esempio). Specie dopo la morte di Luigi Tenco, nella tragica edizione del 1967 che rappresenta un ideale spartiacque per definire quella che viene considerata musica leggera (la canzone sanremese storicamente dominata dalla rima cuore/amore) e la canzone d’autore (tecnicamente più complessa e dai contenuti impegnati): a cui non a caso, dal 1974, viene dedicato un premio proprio nel nome di Tenco.
Una distinzione che molti spettatori del Festival danno per scontata e che non condiziona necessariamente la tipologia dei loro ascolti in generale (io per esempio non ho mai perso un Sanremo ma poi compravo i dischi di Fabrizio De André che non ha mai voluto esibirsi all’Ariston).
Questo non significa naturalmente che nel tempo i cantautori non abbiano partecipato al Festival (Roberto Vecchioni – per citarne uno della grande stagione della canzone d’autore – nel 2011 è arrivato addirittura a vincerlo, ma non è l’unico; e lo stesso Vasco Rossi, meno fortunato in classifica, ha comunque mosso i primi passi verso il grande pubblico proprio da Sanremo); o che non continuino a farlo (anche quest’anno ce ne sono diversi in gara: da Brunori Sas a Lucio Corsi, da Simone Cristicchi a Willie Peyote, ecc.), contribuendo a un miglioramento della qualità dell’offerta, ma semplicemente che il Festival ha conosciuto da sempre alti e bassi nelle varie edizioni proprio a seconda dei suoi partecipanti (e del loro stato di grazia). E sempre, per certi versi, ci ha dato la possibilità di intercettare qualcosa di quello che si muoveva nel frattempo nel panorama musicale italiano. Con tante differenze, naturalmente, anche in base alla direzione artistica.
Quella di Pippo Baudo dalla metà degli anni Ottanta, per esempio, ha rappresentato una svolta nella crescita mediatica del fenomeno rendendolo prima di tutto un prodotto televisivo di massa, avviando quel processo che nel tempo ha portato prima a inserire nello spettacolo spazi di approfondimento andando oltre la musica (Fabio Fazio, nel 1999, fu affiancato nella conduzione dal premio Nobel Renato Dulbecco, insieme a Laetitia Casta); e poi a indurre progressivamente gli artisti in gara a prestare più attenzione alla performance teatrale (costume, trucco e movimenti sul palco) che alla qualità vocale della loro esibizione, proprio perché sempre più consapevoli di essere inseriti in un contesto in cui il pubblico è stato gradualmente abituato a non cercare solo musica.
E il ruolo della televisione, sul piano musicale, ha inciso nel tempo anche in altro modo. Se da questo punto di vista il repertorio sanremese si è indebolito negli ultimi anni, come ha polemizzato Morgan, è forse anche perché la selezione dei concorrenti si è appoggiata sempre di più ai talent show, sui quali bisognerebbe aprire un capitolo a parte (così come un altro capitolo andrebbe aperto, per quanto riguarda l’interpretazione delle canzoni, sull’auto-tune, specie quando viene usato non come tecnica tra le altre per arricchire e variare il proprio brano, ma come “carving del canto”, si potrebbe dire: perché permette di cantare anche a chi non saprebbe farlo senza manipolazioni). E, sempre in tema selezione, va tenuto in conto anche, specie negli anni della direzione di Amadeus, il ruolo del numero di follower sui social degli artisti candidati, in qualche caso scelti – verrebbe da pensare – proprio per l’attrattiva esercitata da quel pacchetto di potenziali spettatori che possono portare in dote negli ascolti durante la messa in onda (oltretutto giovanissimi, proprio per il mezzo con cui vengono intercettati: e dunque parte di quel target pregiato che tanto ingolosisce gli investitori pubblicitari). E con buona probabilità anche per questa ragione nel 2023 Amadeus decise di farsi affiancare nella conduzione da Chiara Ferragni, che di follower ne ha quasi ventinove milioni solo su Instagram.
Certo è che la crisi del mercato discografico ha reso Sanremo negli anni per tutti i cantanti – quale che sia il genere e la complessità della propria proposta musicale – una vetrina essenziale per aumentare il proprio pubblico, potendo contare ogni sera su una decina di milioni di ascoltatori assicurati: e l’aspirazione a un pubblico vasto, per un artista (Morgan incluso), non è solo legittima ma connaturata alla stessa esigenza di espressione (per chi si dovrebbe scrivere o cantare, altrimenti?). Specie in tempi in cui – come leggo in Cuoricini dei Coma Cose, in concorso quest’anno – “una canzone / dura come un temporale /anche se è molto popolare”. Proprio la selezione inesorabile di Kronos, del resto, è l’unica realmente attendibile in fatto di arte: e speriamo di poter campare abbastanza a lungo per poter verificare quale delle canzoni dell’edizione 2025 sarà in grado di sottrarsi all’oblio.
Quello che si può dire nel frattempo – sia pure ancora senza l’apporto decisivo della musica e dell’interpretazione (che naturalmente possono accendere luci anche in testi di per sé piuttosto anonimi) – è che più o meno tutti i concorrenti, nel bene e nel male, si siano adeguati al contesto, allacciando i propri scarponi a un bel paio di carving, su cui scivolare senza insidie sul palco dell’Ariston. Niente di disturbante, per esempio, nell’omaggio di Tony Effe alla sua Roma (dove – verso evocativo anche nella sua semplicità – “ogni notte è per sempre”), con cui il rapper romano riporta la Capitale sul palco da quel lontano 1981 in cui l’aveva spogliata Luca Barbarossa.
Rispetto a quella dedica, in Damme ’na mano di Tony Effe Roma viene personificata in una donna, a cui ci si rivolge in parte in italiano, in parte in romanesco (più anticheggiante che schiacciato sulla contemporaneità, come nel verso “Io m’aricordo”, che oggi suonerebbe piuttosto “Io me ricordo”). C’è poi un omaggio agli artisti della Città Eterna (da Califano, esplicitamente citato, a Gabriella Ferri: a cui rimanda il verso “sinno me moro”, titolo di uno dei suoi brani più famosi, scritto da Carlo Rustichelli); e alle sue maschere (col verso italianizzato di Rugantino “non fare la stupida stasera”). Il tutto in un testo che piega la vis machista degli standard di Tony (quella che aveva indotto proprio il comune della sua città a escluderlo dal concerto di Capodanno) in un maschilismo annacquato in salsa sanremese in cui l’io narrante si definisce “il classico uomo italiano”: “amo solo mia madre Annarita / la domenica ti lascio sola / vuoi andare a cena ma c’è la partita”. Come pure rassettato per la circostanza sembra essere il passaggio “Poi mi tocchi te ne fotti / vai più giù mi si girano gli occhi” in cui la rotazione degli occhi rimanda a un’estasi di piacere a cui presumo che altrove Tony avrebbe comunque fatto riferimento in modo più diretto.
E la sensazione generale è che lo stesso livello di addomesticamento del testo riguardi anche gli altri artisti della scena hip hop presenti in gara, tant’è che il massimo di turpiloquio presente in generale – considerato per quello che può valere ancora oggi (molto poco, in sé) come spia di trasgressione – è il verbo fottere variamente declinato e presente, oltreché in quella di Tony, nelle canzoni di Fedez, Gaia, Irama, Joan Thiele e Rocco Hunt. Un verbo che però arriva per inerzia dal fuck del rap americano a cui molti di loro si ispirano.
“Certo è che la crisi del mercato discografico ha reso Sanremo negli anni per tutti i cantanti – quale che sia il genere e la complessità della propria proposta musicale – una vetrina essenziale per aumentare il proprio pubblico, potendo contare ogni sera su una decina di milioni di ascoltatori assicurati”.
Forse, su un altro piano, il passaggio più politicamente scorretto dei testi in concorso è quello metalinguistico di Willie Peyote – “c’è chi non sa più come scrivere, non sa come parlare / non sa a quali parole deve mettere ad esempio l’asterisco al plurale” – che esprime perplessità su uno dei metodi proposti per evitare nella scrittura il maschile sovraesteso: qualcosa che del resto non convinceva neanche Luca Serianni. Grazie ma no grazie – che è il titolo con cui partecipa l’artista torinese – si segnala poi per essere uno dei pochi testi (Fedez lo fa rivolgendosi alla depressione) che si sottrae all’egemonia del tema amoroso (in cui rientra anche il testo di Brunori dedicato alla figlia; e quello di Simone Cristicchi per la madre malata).
E però neanche la critica sociale di Peyote rinuncia all’allocutivo tu, in un’edizione che non presenta testi in terza persona. Tutte nozioni, queste, che si imparavano a scuola ma la scuola, per molti dei concorrenti di questo Festival, sembra essere la vita o la strada (Street song è il titolo di Shablo). “Tutto quello che hai passato è un’università” canterà Achille Lauro, a cui sembra rispondere Brunori con “E tu sei stata bravissima all’esame di maturità”, usato ovviamente in senso metaforico. E qui, proprio sul piano figurato, è una carrellata di piegamenti facili sui carving. Forse solo i Coma Cose rischiano qualcosa con “Oggi mi sento una pozzanghera / se l’ansia mi afferra / con lo sguardo verso il cielo / ma il morale per terra”. Per il resto è tutta una questione di vetri che feriscono (“Un sentimento / che se si rompe taglia / come il vetro” nel testo di Clara; “vetri rotti schegge negli occhi” in quello di Fedez; “quanti vetri rotti / che sono plastica / per i tuoi stupidi occhi” in Fango in paradiso di Michielin); e di pioggia: “Sento il tuo nome e inizia a piovere fuori e dentro me” canta Rose Villain, a cui replica Lauro con “L’amore è come una pioggia sopra Villa Borghese”; dove però c’è – quel poco che basta a volte per trasformare uno stereotipo in un gesto d’artista – il dettaglio circostanziante di Villa Borghese che apre uno scenario e brilla.
E intanto, in fatto di amore, Rocco Hunt dice di avere sbagliato a distinguerlo “dal sesso”, mentre Rkomi mischia le carte e rilancia con “una pornografia senza sesso” e “un inferno a fuoco lento” dove c’è “amore senza sentimento”. Mentre Irama ci ricorda che “l’amore è un incendio” e Achille Lauro, ancora, che “di amore muori veramente”. Va maneggiato con cura, insomma, anche perché “Dopo centomila lacrime /le grondaie cadono” (ancora Michielin) e poi si può andare “Su e giù come un ascensore” (Giorgia) o come la febbre di Clara “che sale e scende” e “fa male male”.
In tutto questo, c’è il rischio di impazzire “come la maionese” dei Coma Cose, specie se nel giro di pochi versi (in quelli di Brunori, nella fattispecie) si può essere “canguro fra il passato e futuro” e poi “ragioniere in bilico fra il dare e l’avere”.
Proprio il canguro di Brunori (una delle metafore più apprezzate dall’Accademico della Crusca Lorenzo Coveri in questa edizione del Festival) mi fa tornare in mente una storiella sull’etimologia della parola (anche se la sua attendibilità è smentita da più parti). Quella secondo cui quando il capitano James Cook arrivò in Australia nel 1770 rimase colpito da questo animale insolito e allora chiese agli indigeni di che cosa si trattasse. Ma lo fece in inglese, una lingua a quel tempo sconosciuta, per questo si sentì replicare nella loro (qualcosa che dovrebbe corrispondere a kangaroo): “Non capisco”; che fu invece interpretato da Cook come il nome dell’animale. Ora, mi sembra che questa storia sia utile per rappresentare quello che avviene ogni anno con Sanremo: con lo stesso spaesato travisamento tra chi gli fa domande in una lingua ignota e le risposte che il Festival è realmente in grado di dare nella sua. Non capisco.
Per questo, nonostante tutto, anche quest’anno, elettrizzata dalla prospettiva di tornare per una settimana bambina (quando ancora non avevo letto Gramsci e non aspiravo a un nazionalpopolare di più alto profilo), mi metterò lì a seguire, partecipando a questo rito collettivo allucinogeno nella speranza di essere stupita da uno scarto: un qualche improvviso colpo d’ala. E lo farò, come sempre, senza fare domande. Tranne una, tutta per me, anche solo per gratitudine (leggendo tra le pieghe dell’emozione degli artisti sul palco una stonatura, magari, o un tremolio delle mani): per chiedermi, con Yeats, quanto coraggio ci vuole “a camminare nudi” di fronte a tutti quei milioni di spettatori. Ma la risposta è scontata: non capisco. Chi può?
Francesca Serafini
Francesca Serafini è scrittrice, sceneggiatrice, saggista. Il suo ultimo libro è Tre madri (La nave di Teseo, 2021).
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