Quest'anno gli Oscar hanno premiato film che non ricorderemo - Lucy
articolo

Giuseppe Sansonna

Quest’anno gli Oscar hanno premiato film che non ricorderemo

L'Academy del più importante premio cinematografico mondiale, ormai da anni, appare troppo influenzata dal capitale simbolico dei film che dalla loro effettiva qualità estetica. Per questa ragione le scelte spesso appaiono tutt'altro che convincenti.

Nella recente notte degli Oscar hanno trionfato, come spesso accade, film poco memorabili.

Nel protocollo della serata, spesso illustrativa dello spirito del tempo o almeno della sua rappresentazione, si è ignorato il ritorno alla Casa Bianca di una delle escrescenze più purulente della società dello spettacolo: Donald Trump. Neppure una menzione ironica o polemica a lui, e nessun premio per il nominato Sebastian Stan, protagonista di The Apprentice, nei panni di un Donald giovane e rampante. Buona prova attoriale, ma fatalmente meno incisiva del Trump in carne ed ossa, compiaciuto protagonista dell’ennesima, recentissima performance da villain demenziale. Da temibile Biff Howard Tannen, che ormai non fa più ridere e che nessun viaggio nel tempo sembra poter ricondurre ad una dimensione meno dannosa, da gestore di un autolavaggio di provincia.

Una pioggia di statuette si è riversata indicativamente su Anora, esempio di indie poetico in puro stile Sean Baker, carino quanto fondamentalmente superfluo. Protagonista è un’effervescente Mikey Madison, nella parte di Anora, ballerina erotica ventenne, americana di origine russa. Virtuosa della pole dance, si mantiene esibendosi ogni sera in un nightclub di Brooklyn, per poi attirare clienti nel privè, dove dispensa costosi servizi extra. Una sera, tra lo squallore attempato degli avventori, spicca Ivan, russo giovane e carino. Anora gli viene assegnata d’urgenza, perché è l’unica in grado di dialogare con lui, grazie alle sue reminiscenze linguistiche, dovute ad una nonna uzbeka. Tra i due scatta un’intesa immediata: Ivan, travolto dalla carica sensuale di Anora, la invita nel suo lussuoso appartamento, dalle parti di Coney Island. Qui lei scopre sbalordita che il giovanotto è l’unico rampollo di un ricchissimo oligarca russo. Ne accetta volentieri la proposta non troppo indecente, aggiornamento di Pretty Woman: sarà la sua fidanzata per una settimana, per la modica cifra di quindicimila dollari. Ma il sentimento divampa e non conosce tariffe, né scadenze: i due partono per Las Vegas, dove Ivan chiede alla ragazza di sposarlo. Quando la notizia delle precocissime nozze arriva in Russia, la famiglia oligarchica manifesta il suo aperto dissenso; prima spedendo emissari poco teneri a recuperare quel figlio troppo prodigo, e poi piombando di persona negli Stati Uniti, a bordo di un jet privato. Qui comincia la scatenata odissea romantica della giovane sex worker, variazione in chiave broad comedy del tema eterno di Cenerentola; qui declinata in favola metropolitana, con i russi cattivi ma non troppo, adrenalinizzata da inseguimenti pirotecnici e conclusa da un finale aperto e meditativo, in odor di redenzione.

Meno rassicurante è The brutalist, premiato per la fotografia e per l’interpretazione del protagonista Adrien Brody. Forse l’unico tentativo di opera autoriale presente nella serata, è la via crucis di un ebreo ungherese, architetto visionario sopravvissuto ai campi di sterminio. Prova a rinascere in America nel dopoguerra, ma scopre che adesso a perseguitarlo è un capitalismo di parvenu e mecenati molto ambigui, pieni di soldi e pretese culturali, xenofobi predatori di anime e corpi. Brutalista è il suo stile architettonico, forse più bello da filmare in VistaVision che da abitare, brutali sono i rapporti umani che vive e subisce. Sorretto dall’energia autodistruttiva della sua ossessione artistica, l’uomo prova ad affermare il proprio sguardo in una terra promessa molto illusoria, finché non si convince, spinto da sua moglie, che Gerusalemme potrebbe essere l’unico luogo in cui non sentirsi emarginati. Nonostante le oltre tre ore di durata, il film appare denso ma un po’ irrisolto. Confuso, nel suo sguardo insieme, dilatato in alcuni passaggi e tirato via in altri, condensa nel suo ritratto di un artista mai esistito frammenti di biografia e stili di reali architetti del dopoguerra.

Ossessiva è anche la Demi Moore di The Substance, brava e coraggiosa a calarsi nei panni declinanti di un’ex star di Hollywood nel film di Coralie Fargeat. Sanguinosa favola morale, gravata dalla ridondanza di una metafora un po’ troppo ovvia, ha almeno il pregio di perturbare.

Quando la donna viene brutalmente estromessa, per raggiunti limiti d’età, anche dal piccolo schermo, dove si era riciclata come istruttrice di aerobica, regina catodica del fitness e del rassodamento glutei, cade in depressione. Lontana dai riflettori, dagli sguardi desideranti dei maschi e invidiosi delle donne, sente di aver smarrito la propria consistenza. Cede così alla tentazione propostale da una misteriosa ditta: con una semplice iniezione, può sbloccare il suo DNA e ottenere una versione migliore di sé: più bella, più giovane, più perfetta. Genera quindi, con uno strano parto artificiale, un suo doppio ventenne e può riprendere il suo posto nel programma, tornare a darsi in pasto alla compulsività allupata del peggior genere maschile. Ma ogni ossessione è frustrante, soprattutto quando viene appagata. Così la diva scissa in due corpi, a settimane alterne, trascura gli effetti collaterali scritti nel contratto. Il film, partito come una satira pop dell’ossessione estetica contemporanea, si scatena così in un body horror estremo. Appreso però il messaggio di fondo, il tripudio splatter di ferite, necrosi e mostruosità diventa stucchevole.

Ai margini della cerimonia, offrono un quadro ancora più lucido della contemporaneità le vicissitudini del viaggio del film Emilia Perez intorno all’Oscar. Materiale perfetto, per una puntata dei Simpson.

Qualche anno fa Jacques Audiard, grande e giustamente celebrato regista europeo, arrivato per privilegio d’anagrafe all’età da venerato maestro, deve essersi forse sentito un po’ crucciato per non aver mai ricevuto la consacrazione dell’Academy, questo Vitello d’oro sempre seducente, anche per i macerati artisti europei. Nel corso della sua carriera il cineasta parigino ha raccontato, con coraggio sottile e potente, intrecci struggenti tra menomazioni fisiche e interiori, collisioni e assestamenti di vite estreme, incidentate da disgrazie, vitalizzate dalla disfunzionalità. Prendendosi sempre grossi rischi, non ha mai smarrito l’autenticità.  Arrivato a settant’anni, incappa però con Emilia Perez in un’operazione dal retrogusto posticcio.

Parte dall’idea di “raccontare una tragedia, cantandola”. Dal romanzo, “Écoute” di Boris Razon prende l’idea di un narcotrafficante messicano che vuole cambiare sesso. Prima decide di trasformare la storia in un libretto d’opera, su canzoni di Camille e musiche di Clément Ducol, poi vira decisamente verso il musical, approntato con “urgenza e rapidità. C’è qualcosa di schematico, siamo in un impianto operistico, siamo in un musical, non ci addentriamo nella psicologia dei personaggi. I personaggi sono diventati degli archetipi, quasi delle caricature.”. 

“Nel protocollo della serata, spesso illustrativa dello spirito del tempo o almeno della sua rappresentazione, si è ignorato il ritorno alla Casa Bianca di una delle escrescenze più purulente della società dello spettacolo: Donald Trump”.

Sulle caricature, Audiard ha proprio ragione.  A cominciare dal suo protagonista Manitas, sanguinario narcotrafficante messicano, macho patriarca con moglie, figli e stuolo di scagnozzi al seguito. Da sempre pervaso da un desiderio inconfessabile: diventare donna. Per portare a termine l’agognata transizione, ingaggia un’avvocata frustrata, nata povera, vittima del patriarcato forense e ormai pronta a tutto. Anche a organizzare la morte apparente di Manitas, il suo ricovero in una clinica specializzata e la trasformazione dell’uomo brutto e cattivo in Emilia Pérez, solare donna trans, piena d’energico amore per il prossimo, impegnata nella meticolosa ricerca dei cadaveri dei suoi stessi crimini, per restituirli alle famiglie. Un po’ come se il compianto Matteo Messina Denaro, invece di godersi il relativo anonimato di tanti anni di latitanza domestica, diventato trans, fosse diventato testimonial di maratone di beneficenza, e magari stimato professionista dell’antimafia. Davvero un plot di grande potenzialità, a patto di affidarlo all’umorismo apocalittico di Franco Maresco.

Audiard, invece, non si scatena davvero in nessuna deriva camp, rimanendo serioso e superficiale allo stesso tempo. L’imperativo del suo protagonista è cambiare corpo, per mutare l’anima, ma nel film mancano sia l’uno che l’altra. La corporeità, nella sua dolorosa e bramata trasformazione è asettica, stilizzata nella cornicetta di un musical fatto di brutte canzoni e voci stonate, come dimenticabile è la coreografia, la sceneggiatura, persino la recitazione. Sembra una versione anemica, patinata e senza inventiva, di Tano da morire, esordio di Roberta Torre, risalente a quasi trent’anni fa. Musical neomelodico, debitore del mondo di Cinico Tv, presente nella fotografia di Daniele Ciprì, era un film arguto e sgradevole, Nella recitazione volutamente amatoriale e nelle sonorità chiassose di Nino D’Angelo restituiva senza filtri il pacchiano e la ferocia irreversibile di un mondo mafioso smitizzato, ridotto a farsa grottesca.

Audiard cuce la sua protagonista sul corpo di Karla Sofía Gascón, attrice spagnola e donna transgender. Il suo passato attoriale nelle telenovelas, precedente alla transizione, si rivela adatto ai languori sentimentaloidi, da soap, della trama di Audiard. Dopo la finta morte del boss, moglie e figli, dolenti e ignari, vengono mandati a elaborare il lutto nel lusso svizzero. Emilia, nel frattempo è diventata una manager poliglotta, oscillante tra Londra e Città del Messico. Rimpiange il padre che è stato, e la madre che potrebbe essere; per rivedere i suoi figli, si affida ancora alla sua legale di fiducia. La mutazione chirurgica del sesso sembra averle rivoluzionato anche l’apparato etico, ma la redenzione è difettosa, forse solo apparente: sotto i sorrisi palpita ancora la natura ferina del narcos. Ma questo dissidio non diventa feconda complessità narrativa, rimanendo solo una trovata meccanica, di superficie, funzionale a far sbracare il melò in tragedia.

Il film sembra davvero un’operazione a tavolino, un folklorico concentrato di furbo estetismo kitsch.  Le piaghe del Messico, le sue zone d’ombra da narcostato, i suoi desaparecidos sepolti chissà dove dopo i continui regolamenti di contri tra cartelli, sono guardati con esotismo ai limiti del coloniale. Quasi come se contasse, nell’operazione, solo centrare un primato: esibire come protagonista la prima donna trans candidata agli Oscar, come miglior attrice protagonista. Obiettivo centrato.

In gioco, come spesso accade nelle procedure dell’Academy, non è la qualità del film, ma la sua ricaduta simbolica: proposto per tredici Premi, Emilia Perez diventa il film non in lingua inglese con più candidature di sempre agli Oscar. Ma, qualche settimana prima della manifestazione, una reporter disseppellisce vecchi tweet di Gascon, portandone a galla un qualunquismo greve e confuso, con derive razziste. Frasi da hater, grossolane come le sue scuse: fatte pubblicamente senza consultare Netflix e seguirne i protocolli, contribuiranno ad affossarla definitivamente. Il nuovo simbolo mondiale dell’inclusività è passato in un battito di ciglio dalla glorificazione all’ostracismo imbarazzato. Viene emarginata dagli eventi di promozione del film, mentre anche Audiard e il resto della troupe ne prendono le distanze, lasciandola a subire in solitudine il suo destino di lapidazione mediatica.

Il record di nomination, alla fine, frutterà al film solo una statuetta. Zoe Saldana, insignita come miglior attrice non protagonista, non ringrazia nemmeno per sbaglio Karla Sofia Gascon e commenta: “ Sono la prima americana di origine domenicana a vincere questo Oscar. Un ruolo in cui canto, parlo e recito in spagnolo, mia nonna sarebbe orgogliosissima”. Peccato che abbia fatto tutto mediocremente, ma almeno un primato resta. 

Giuseppe Sansonna

Giuseppe Sansonna è autore e regista di Rai Cultura e ha firmato diversi libri e documentari. Dal 2019 scrive recensioni cinematografiche e saggi per la rivista «Linus». Il suo ultimo libro è Hollywood sul Tevere. Storie scellerate (Minimum Fax, 2016).

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