Nicola H. Cosentino e Domenico Starnone
26 Febbraio 2025
Gli esordi, lo Strega, la politica. E le molte volte in cui ha pensato di non avere talento, fino a quella corsa in ospedale. Una lunga chiacchierata con uno dei più importanti scrittori italiani, che ha appena compiuto 82 anni.
L’intervista che segue è la trascrittura di una chiacchierata di tre ore e mezza con Domenico Starnone, alla fine della quale ci siamo entrambi un po’ pentiti di averla fatta, o meglio di averla fatta così, registrando. Lui era più pentito di me, e prima di salutarmi mi ha detto: “Tre ore e mezza sono troppe, se penso che la devi sbobinare mi viene da piangere per te. Fai una cosa: inventala. Torna a casa e scrivi quello che vuoi, quello che ti ricordi”. Non sapeva – e non ci avevo pensato neanche io, in quel momento – che la nostra chiacchierata sarebbe stata sbobinata da un software, ma il consiglio di inventarla l’ho dovuto seguire comunque, per esigenze, diciamo, di abbellimento, e anche perché mi sono convinto che Domenico abbia detto cose che forse non ha detto mai, e che io però ci tengo molto a fargli dire.
Ha appena compiuto ottantadue anni. Alle età precedenti è stato professore, giornalista, sceneggiatore, principiante fortunato e nume intellettuale tutelare della scuola. Finché non ha scritto Via Gemito, con cui ha vinto il premio Strega nel 2001, edificando così un ponte fra più vite e più carriere, la più recente delle quali – quella dei “racconti bombardati”, come li chiama lui – è iniziata con Lacci, nel 2014.
Mi ha ricevuto nel suo studio, in cui è appeso il bel quadro di Dario Maglionico che fa da copertina a Scherzetto, uscito nel 2016. Durante una breve pausa, Domenico è andato a fare una telefonata e io ho passato il tempo fissando il quadro. Quando è rientrato mi ha chiesto “Ti piace?”. Ho risposto di sì e sono rimasto in attesa, certo che la sua fosse una domanda retorica, che quel “Ti piace?” anticipasse un “Allora devi sapere che”. Invece no. Si è seduto, ha detto “Anche a me” e abbiamo ripreso l’intervista. È che da lui mi aspetto sempre un disvelamento. E ogni volta che lo sento parlare, così come quando lo leggo, non capisco mai se questo modo peculiare di chiarificare la realtà – insieme ironico e grave, didattico e poetico – sia il frutto di quello che altrove ha definito “un tirocinio di esito incerto” (cioè la vita) o una predestinazione. In ogni caso l’esito è, come scriveva Baldassarre Castiglione, “una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”. Quello a cui ambisce qualsiasi scrittore, insomma, e che Starnone stesso indica, alla fine dell’intervista, come la sua cosa preferita (almeno sulla pagina).
Vorrei partire dalle tue carriere, al plurale. Quante sono? Sei stato professore, giornalista, sceneggiatore… E anche da scrittore, sei stato tre scrittori diversi: quello dei libri sulla scuola, quello di Via Gemito e poi, più di recente, quello di Lacci, Confidenza, Scherzetto… Sono stati cambi volontari o naturali? Cosa è successo tra una carriera e l’altra?
Non ti voglio dire le solite cose, farò uno sforzo di ripensamento. Partendo dall’inizio. Da ragazzo volevo scrivere, e ho scritto anche molto, moltissimo. Possiamo collocare questa fase di grafomania fra i diciassette e i ventitré anni. Dopodiché, mi sono ritrovato con l’acqua alla gola. Nel senso che mi ero sposato, vivevo di lezioni private. Avevo urgenza di un lavoro vero, feci il punto della situazione e per prima cosa decisi che come scrittore non avevo sufficiente talento.
E hai messo da parte l’ambizione.
Scrivere non era propriamente un’ambizione, diciamo, lavorativa. L’idea di fare di mestiere lo scrittore non ce l’avevo, forse all’epoca – almeno nel mio ambiente – non era nemmeno possibile concepirla. Ti trovavi un lavoro e caso mai scrivevi. Quindi mollai con lo scrivere per sfiducia, perché mi prendeva gran parte del tempo, e andai a insegnare. Insegnare mi piacque al punto che il mio esordio da scrittore arrivò vent’anni dopo, e fu motivato proprio dal lavoro che facevo. Nel senso che a metà anni Ottanta lavoravo nella redazione de «il manifesto»…
Mentre insegnavi?
Sì, di mattina a scuola, al pomeriggio in redazione, e fino a notte a correggere compiti. A un certo punto, al giornale, mi chiesero di fare una cosetta settimanale sulla scuola, e io mi inventai, quasi senza volerlo, una sorta di finto diario scolastico a puntate.
Perché quasi senza volerlo?
Al giornale si aspettavano una rubrica politico-sindacale, e io stesso avevo in mente quello, ma, forse per stanchezza, per un allentamento dei freni inibitori, mi venne fuori un racconto. Era il 1985, avevo quarantadue anni.
Il tuo esordio quindi è la rubrica sul «manifesto».
Sì, quella fu la mia prima esperienza narrativa in pubblico. Ed ebbe subito successo. Un paio d’anni dopo, «il manifesto» e una rivista che si chiamava «Rosso Scuola» ne fecero un libro, Ex cattedra, con delle belle tavole di Staino. Il libro fu un piccolo caso editoriale e quindi scattò il solito congegno così riassumibile: “se questo tizio ha un po’ di pubblico, facciamogli scrivere un altro libro”. Però arrivarono solo proposte tipo: “scrivi un’altra cosa sulla scuola che faccia ridere”. Solo Feltrinelli disse: “scrivi quello che ti pare”. A quel punto riemerse la vocazione giovanile di narratore e provai a lasciarmi alle spalle il racconto d’ambientazione scolastica.
Ed è uscito Il salto con le aste.
Sì, nel 1989. Che però in principio, nella mia testa, si chiamava La lettera di Calvino.
“Non ti voglio dire le solite cose, farò uno sforzo di ripensamento. Partendo dall’inizio. Da ragazzo volevo scrivere, e ho scritto anche molto, moltissimo”.
Com’è andato?
Mah, inevitabilmente venne meno il successo di Ex cattedra. Il pubblico si aspettava che continuassi per quella strada, e invece il Salto con le aste prendeva la scuola solo di striscio e andava altrove. Ma rimase uno zoccolo duro di lettori che mi permise di fare altri libri, libri sempre più distanti dalle tematiche scolastiche. Non che non scrivessi più di scuola, l’ho fatto lungo tutti gli anni ’90 sui giornali. Avevo una rubrica su «Cuore», una sul «Corriere della Sera», e chi aveva nostalgia di Ex cattedra mi seguiva lì. Ma con i romanzi cercavo di andare da altre parti. Intanto, nel ’91, ecco che si presenta un giovane attore e mi chiede di scrivere per il teatro.
Chi era?
Silvio Orlando. Mi propose un monologo tratto da Ex cattedra, invece scrissi una commedia in cui si raccontava un consiglio di classe: Sottobanco. Funzionò, ed è un testo che dopo quasi trentacinque anni continua a fare il suo lavoro.
Il cinema è arrivato in quella fase?
Più o meno, sì. Il successo di Sottobanco fu dovuto a Silvio, ad Angela Finocchiaro, a tutti quelli che ci lavorarono, ma anche alla regia di Daniele Luchetti. Sempre Luchetti, nel 1995, diresse il film tratto dallo spettacolo: La scuola. La scuola ebbe un notevole successo. Non avevo mai scritto per il teatro e nemmeno avevo mai scritto film, ma in quella fase tutto pareva andare bene, cominciai a lavorare molto per il cinema.
Hai scritto anche Auguri professore, di Riccardo Milani.
Sì. Perché, hai visto Auguri professore?
Certo. “Allibisco”.
[Sorride.] Fu una fortuna il cinema. Mi liberò dall’ansia di perdere lettori. Scrivevo libri così come mi venivano in mente, e se andavano bene ero contento, se andavano male pazienza. Così scrivo cose come Segni d’oro, Eccesso di zelo, Denti, racconti sui quarantenni che avevo sotto gli occhi.
Tutto però in chiave ironica.
Sì, con quella tonalità. L’ironia si modifica, si attenua, ma resta.
E cosa si aggiunge?
Una cosa che finché scrivevo di scuola era rimasta in sottofondo: il bisogno di riesaminare la mia esperienza, di frugare nel passato in funzione del presente, la mia famiglia d’origine, l’infanzia e l’adolescenza. Ma quasi non ci faccio caso, perché intanto la vita è: scuola la mattina, redazione del «manifesto» nel pomeriggio – fino a quando non si chiudevano le pagine –, libri, articoli, sceneggiature… Una folla di cose che facevo per passione, per curiosità, perché me le chiedevano, perché era bello. Avevo l’impressione di partecipare molto intensamente, in svariate forme, ai vari mondi che attraversavo. Solo che a un certo punto comincio a non reggere.
E lasci la scuola.
Sì. Un colpo di testa, non riuscivo più a farla bene, mi sentivo in colpa. Solo che con l’addio a una trentina d’anni di insegnamento cominciò, per me, una vera e propria crisi. Mi sembrò che si fermasse tutto. Arrancavo, mi era passata la smania di mettermi di continuo alla prova. I miei libri avevano un pubblico, ma non quello di Ex cattedra. Così tornai a pensare che non dovevo scrivere più, proprio come a ventitré anni. Con la differenza che all’epoca, con moglie e un figlio in arrivo, avevo rinunciato anche in nome della sopravvivenza economica. Ora mollavo perché mi pareva che un’occasione mi fosse stata data senza che avessi combinato granché.
E la cosa ti causava frustrazione?
Be’, da ragazzo, dopo aver ammucchiato quaderni su quaderni, la rinuncia mi era sembrata comunque eroica, cioè una di quelle cose da giovane ventenne tutto d’un pezzo che scopre di non avere talento, dice “no, basta”, e va a tuffarsi nel mondo, dove casomai gli accadranno cose meravigliose. La seconda volta, invece, di anni ne avevo più di cinquanta, e il dialogo con me stesso è stato diverso. Mi sono detto: “ti sei messo alla prova ed è venuto fuori quello che avevi già capito: più di quello che hai fatto non puoi fare”. Sono stati anni brutti.
Poi cos’è successo?
Una mattina ero al telefono con… Anzi no, andiamo a un anno prima di quella mattina, novembre del ’98. Era morto mio padre, con cui avevo avuto un rapporto di forte dipendenza e di scontro tanto duro quanto muto e sordo. E anche quello mi aveva fatto sbandare. L’anno dopo, giugno del ‘99, io stavo, mi ricordo, al telefono con Sergio Rubini – parlavamo di un film – quando a un certo punto dico: “Sergio, scusa, non mi sento bene”. Attacco, ho un malore. Vado in ospedale e ci resto per dodici giorni: emorragia gastrica. Quando mi dimettono non mi reggo in piedi, dunque sono in ferie obbligate. Mi trasferisco al mare. Lì una mattina comincio a scrivere, tanto per passare il tempo, un piccolo episodio di quello che poi sarà Via Gemito.
Da quanto non scrivevi?
Quattro anni. Ma stavolta non mi fermo, e Via Gemito viene fuori a gran velocità, sebbene sia un racconto faticoso da organizzare e duro da scrivere. Quando lo finisco, mi sembra automaticamente di aver scritto il libro che covavo già a vent’anni, solo che era venuto fuori a cinquantasei. Ci avevo provato molte volte, naturalmente, ma non mi riusciva al modo giusto, non avevo gli strumenti adeguati, capisci?
Esce Via Gemito e che succede?
Che funziona immediatamente, a Napoli innanzitutto. A questo punto io – che venivo da un ambiente politico e culturale in cui andare a un premio era considerato un po’ sporcarsi, e infatti non ero mai andato a un premio – dico “voglio che questo libro si veda il più possibile, voglio andare allo Strega”. Perché pensavo che fosse l’unico libro vero che mi era stato dato in sorte di scrivere, e anche l’ultimo libro che avrei scritto, non mi pareva di avere altro da raccontare. Feltrinelli mi manda allo Strega. Amici, scrittori e non, mi dicevano “ma no, lascia perdere che finisci in un casino, ci vai per niente”.
Invece.
Invece va bene. Via Gemito aveva intorno una generosa benevolenza, critiche molto positive su tutti i giornali. E poi era scattato l’appoggio dei napoletani: Ajello, La Capria, Rosi…
Cos’ha cambiato lo Strega?
Mah, non era quello di oggi, che sembra l’Oscar. Era un premio letterario molto importante, ma pur sempre un premio. Eppure ha cambiato molto lo stesso, ed è seguita una nuova crisi. Avevo una mia identità – insegnante, «il manifesto», il cinema, le cose divertenti sulla scuola, – ma non una gavetta letteraria. Temo che ai più io sia sembrato sbucato dal nulla. E io stesso mi sentivo fuori luogo. Ricordo il titolo, mi pare, dell’«Unità»: “Dall’eskimo allo Strega”.
Questa contrapposizione fra l’eskimo e lo Strega oggi non verrebbe in mente a nessuno. Perché, così come è cambiato lo Strega, è cambiato anche tutto l’esoscheletro dello scrittore, a partire dalla centralità nel suo lavoro dell’impegno politico.
Quello non esiste più.
E cosa esiste, adesso?
Io vengo dalla guerra fredda, quando il mondo era diviso in due blocchi e sempre sull’orlo della guerra atomica. Chiunque avesse un qualche ruolo intellettuale era chiamato a dire da che parte stava. E un imperativo del genere mi è rimasto da qualche parte. Nell’89 avevo quarantasei anni, mi sentivo marxista-leopardiano, antistalinista e comunista nella più densa accezione di quella parola. C’erano ormai mille modi per stare dentro quelle etichette, e il bello del «manifesto» era il gran traffico di libri e di idee che si discutevano. Ma “essere impegnato”, di certo, non l’ho mai sentito come una cosa che avesse a che fare con la letteratura. A partire dai libri sulla scuola mi sono sempre fidato soltanto di dove mi sospingeva il racconto, e pazienza se divergeva dalle mie stesse opinioni. Chi scrive deve scrivere anche, forse soprattutto, contro se stesso.
Ma deve intervenire sulle cose o no? E se sì, deve intervenire sulle cose attraverso i libri e basta? O deve intervenire anche fuori dai libri? Insomma, quanto e come deve essere politico, uno scrittore, oggi?
Lo scrittore deve fare lo scrittore. Cioè, in parole povere, deve provare a dare forma al suo mondo. Scrivere quello che lentamente, negli anni, s’è andato precisando veramente come suo. Che attraverso quel mondo passi, poi, tutto il mondo – nel senso di fatti, misfatti, ideologie, letture, amicizie, urti, nemici, ostilità, percezione dell’ingiustizia, cambiamenti di tutti i tipi, tradizioni culturali che si impastano tra loro, sofferenze e gioie – quella è una cosa che riguarda i lettori. Fermo restando che la rete delle parole più cattura, meglio è. E se quella rete pesca pochino, i libri saranno inevitabilmente poveri.
Quindi lo scrittore interviene nei libri.
Interviene con tutti i mezzi che ha a disposizione in quanto cittadino che, tra l’altro, fa lo scrittore. Sicché quando scrivo “La politica di Meloni è pericolosa” non faccio letteratura, faccio il più degnamente possibile intervento politico. Anche quando dico una serie di cose pesanti e pesantissime sulle istituzioni letterarie, non faccio il letterato, intervengo politicamente. E propendo a dire, ma con cautela, che persino quando metto la mia abilità tecnica al servizio di temi fondamentali per la nostra vita pubblica oggi, non sto facendo letteratura ma mi servo di un uso specifico della lingua per sostenere cause che ritengo giuste. Su questo sono però meno categorico. La storia della letteratura ha da sempre testi dove l’energia delle parole, la forza dell’immaginazione, la ricchezza dei personaggi vanno ben oltre l’intenzione “politica” iniziale. Resta il fatto che sostenere cause giuste non è disgraziatamente di per sé garanzia di buona letteratura. Anche dal grembo delle posizioni più inique può venire buona letteratura.
Torniamo a Via Gemito. Cos’è successo dopo?
Ho pensato di aver esaurito le ragioni per scrivere. Volevo fare quel libro da ragazzo, ora l’avevo fatto, ero contento. Ma poi? Ho continuato, sì, ma con maggiore sforzo e con riscontri tiepidi. Sono nati libri come Labilità – ben cinque anni dopo Via Gemito – e Prima esecuzione. Li avevo in mente da tempo, li volevo scrivere, gli sono affezionato. E la Feltrinelli pareva contenta, non mi imponeva niente, non faceva pressioni di nessun genere. Il problema era che tendevo a dirmi: basta, non strafare, scrivere non è un lavoro.
Come ti sei trovato con Feltrinelli?
Benissimo.
Ci sei stato quasi vent’anni.
Diciassette. I libri venivano curati, venivano seguiti, le librerie li potenziavano.
Però?
Però a un certo punto, nel 2007, era da poco uscito Prima esecuzione, ho chiamato Carlo Feltrinelli e gli ho detto “Carlo, scrivere è diventato meccanico, ho bisogno di uno scossone”.
E sei passato a Einaudi. Come l’hanno presa?
Non bene, credo. Ma con disinvoltura. E da parte mia è rimasto molto affetto.
“Lo scrittore deve fare lo scrittore. Cioè, in parole povere, deve provare a dare forma al suo mondo. Scrivere quello che lentamente, negli anni, s’è andato precisando veramente come suo”.
E perché te ne sei andato? Cioè, lo immagino, ma…
Per le stesse ragioni che ti portano all’adulterio. Diciassette anni senza un intoppo. Scrivi, spedisci, lavori – la redattrice nel mio caso era una persona meravigliosa, Annalisa Agrati, sensibile, intelligente e colta –, il libro esce, si controllano le recensioni, l’andamento, poi nuovo libro, nuovo contratto… Così, per diciassette anni. Finché di colpo vai verso altro e non sai nemmeno tu perché.
Quello ad Annalisa Agrati, alla fine di Prima esecuzione, è l’unico ringraziamento che hai scritto nella tua carriera.
Si era ammalata, ho sentito l’urgenza di dimostrarle tutta la mia stima e la mia gratitudine. È stato un gran dolore.
Mi stupisce, comunque, che tu dica che scrivere era diventato meccanico. Prima esecuzione è un romanzo vivace, particolarissimo. Mi sembra un libro di uno scrittore ancora molto curioso.
[Sorride.] Christian Raimo una volta mi ha detto: “Sei uno che lavora contro se stesso”.
È vero?
Sì, in un certo senso sì, e tutto sommato mi pare utile. Ai tempi di Prima esecuzione non era la qualità della scrittura, a essere in peggioramento, ma il modo in cui la pensavo. Il Novecento aveva buttato per aria tutto. Progettare di tornare indietro era tanto stupido quanto vano, fare gli iconoclasti quando tutto da tempo era a pezzi anche. Mi pareva che si potesse lavorare solo con ciò che era rimasto in piedi, i generi per esempio. Ma mi venivano fuori racconti disastrati. Così sono passato a Einaudi con l’idea che se uno cambia panorama gli cambia anche l’umore.
E per salvare il desiderio di scrivere, verificare che fosse ancora vivo.
Sì. Ma come dici tu, vivo era vivo. Quindi con il cambio non è che viene fuori un nuovo me, ma solo l’impressione di un nuovo me, che però non è poco. Il passaggio genera una rinnovata voglia di fare. Scrivo Spavento e Autobiografia erotica di Aristide Gambìa.
Poi nel 2014 esce Lacci.
Lacci si rivela una sorpresa. Nasce intorno a quel libro un pubblico nuovo. E io sperimento una specie di terza fase che però nella sostanza, ai miei occhi, è sempre la stessa.
Qual è, secondo te, il fatto nuovo di Lacci?
È ancora una volta un racconto bombardato, pieno di voragini e rovine. Se tu ci pensi, Lacci è un libro di genere, un giallo. Ma realizzato per frammenti, a blocchi separati: un monologo; una crisi di coppia; un appartamento ridotto a pezzi; poi la soluzione finale. Queste cose le avevo già fatte in Prima esecuzione e storie più ampie. Lacci inaugura una fase di libri brevi, asciugati, butto via il più possibile.
Il professore protagonista di Prima esecuzione ha “la pretesa feroce e disperata di essere assolutamente buono”. Tu ce l’hai?
L’ho sentita molto da ragazzo e me la sono trascinata dietro per tutta la vita.
Ma che cos’è?
È lo sforzo di aderire a comportamenti che non facciano male agli altri. Quando facevo l’insegnante, la mia più grande paura era sviluppare pregiudizi negativi, non saper riconoscere le buone qualità, diventare ostile senza vere ragioni. Ma è stato così sempre. La conseguenza è che sono particolarmente gentile con le persone che mi pare di non saper mettere a fuoco.
Per non rischiare.
Per non rischiare. Ma, tornando alla bontà, l’aspirazione al bene si scontra di continuo con un mondo che sente il bene come una manifestazione di stupidità.
Chi è, la persona buona?
Quella che è in grado di tenere a freno i suoi peggiori istinti. E che è capace di capire le ragioni degli altri, anche quando i cattivi istinti si sfrenano. Insomma, le persone buone sono quelle che sanno governarsi.
Sempre in Prima esecuzione c’è questo dialogo sulla giustizia fra il professore e un suo ex alunno poi diventato poliziotto. Il professore sostiene che si deve pretendere giustizia, ci si deve arrabbiare per ottenerla. Il poliziotto dice che però “i crimini, se si guarda bene, sono il frutto di una grande arrabbiatura per un’ingiustizia”. Che quindi la rabbia dietro la sete di giustizia provoca spesso altre ingiustizie. Come si coniuga la voglia di giustizia con il desiderio di essere persone assolutamente buone? Forse, paradossalmente, sono due cose inconciliabili.
Il punto è la mediazione. Senza la mediazione ogni convivenza, a tutti i livelli, crolla. Sei disposto a mediare? Bene. Non sei disposto a mediare? Esplode in termini devastanti il conflitto. La ricerca del bene è mediazione. Il desiderio di giustizia è mediazione. Ma non mediazione posticcia, opportunistica, finta. La buona mediazione è quella che va alla radice dei problemi. A complicare i disastri del genere umano in cerca di giustizia intervengono le false conciliazioni.
In questo, giustizia e letteratura sono interscambiabili. La letteratura è un’altra cosa che ha problemi con la mediazione, visto che c’è da andare a fondo, da cercare la verità. Puoi essere assolutamente buono, se sei uno scrittore? O ti devi far bastare il desiderio di esserlo?
Qui dipende da che cosa significa essere assolutamente buono per uno scrittore. La letteratura si fonda su un particolare uso della lingua, la quale per sua natura nasconde, sempre. Noi comunichiamo nascondendoci persino a noi stessi. La letteratura va a frugare nei nascondigli della lingua. Il paradosso è che devi frugare proprio con le stesse parole con cui ci nascondiamo. Cosa che richiede una radicalità e un’energia verbale non da poco. Una volta si diceva: una magia. Uno scrittore tanto più è buono quanto più va al fondo di se stesso e del suo mondo.
Una cosa che mi è sempre piaciuta, nei tuoi libri, ma anche nei tuoi discorsi, è il modo in cui parli di ambizione. A un certo punto di L’umanità è un tirocinio, che raccoglie saggi e articoli che hai scritto negli anni, c’è questo riferimento al «Ragionamento della stampa» ne I marmi di Anton Francesco Doni in cui ci si lamenta delle aspirazioni intellettuali originate dall’invenzione della stampa. I marmi è del 1555. Da allora, presumere di meritare un po’ di gloria è diventato comune, poi normale, poi necessario alla felicità di chiunque. Ma non è un paradosso? Se tutti ci sentiamo eccezionali automaticamente non lo è nessuno.
Sì, quando la voglia di eccezionalità è di massa, l’eccezionalità si azzera. Doni scrive che dopo l’invenzione della stampa “ogni pedante fa stampare una leggenda scacazzata, rappezzata, rubacchiata e strappata da mille leggendaccie goffe, e se ne va altiero per due fogliuzzi, che pare che egli abbi beuto sangue di drago o pasciutosi di camaleonti”. Che in parole povere significa che già a metà del ‘500 si diceva che i veri intellettuali o i veri poeti erano quelli di una volta, con l’avvento della stampa lo scrivere si era degradato. Ogni generazione ha l’impressione che le cose stiano andando sempre peggio. I social sono stati preceduti dall’idea che la scrittura era finita, che la gente non sapeva più scrivere.
Invece oggi scriviamo tutti.
Diciamo che c’è più scrittura di quanto ce ne sia mai stata. Naturalmente è una scrittura degradata in rapporto ai modelli precedenti: meno elaborata, pensata, studiata eccetera. Parto da me: quando scrivo messaggini metto tutti i punti, tutte le virgole, tutti i punti e virgola. Quelli che mi arrivano non hanno punteggiatura.
“Il punto è la mediazione. Senza la mediazione ogni convivenza, a tutti i livelli, crolla. Sei disposto a mediare? Bene. Non sei disposto a mediare? Esplode in termini devastanti il conflitto”.
Adesso il punto non si usa più, nei messaggi, perché incute timore. La gente è spaventata dal punto.
Perché?
Perché usandolo sembra di essere imperiosi.
[Ride.] Vedi? Io ne abuso. Perché vengo, per formazione, dalla seconda metà del Novecento. Anzi dalla prima.
E qual è il futuro dei libri, visto da questa prospettiva?
Intanto non va confuso col futuro della scrittura. Sono due cose diverse. Un conto sono i supporti, un conto è la scrittura in sé. Pensa al trionfo odierno dei messaggi vocali. Non è la vecchia oralità. È scrivere con la voce, che subito diventa più studiata. O che è immediatamente trascritta, si fa scrittura. Ne vengono messaggi lunghissimi, appena sistemati per la lettura, veicolati su i nuovi supporti, i telefonini. Questo per dire che il futuro dei libri è direttamente connesso ai supporti del futuro. L’importante è ricordarsi due cose.
Quali?
La prima è che indietro non si torna. Bisogna darlo per scontato, anche all’apice del pessimismo. Va bene fare un po’ i nostalgici, dire “ah, com’erano belli il manoscritto e la penna d’oca, abbasso la penna a sfera e il computer”. Altra cosa è dire “dobbiamo tornare alla scrittura a mano”. I passi indietro sono sempre tanto inutili quanto farseschi.
La seconda cosa?
La seconda cosa è che non esistono cambiamenti immediati. I cambiamenti sono lunghi: il periodo che stiamo vivendo noi oggi non è cominciato ieri o l’altro ieri. È lo sviluppo nel tempo di quel mutamento epocale che si è verificato tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. Infatti impari parecchio sull’oggi leggendo Svevo, Proust, Woolf, Joyce, Beckett. E non perché quelli sono il Verbo, ma perché sono stati il primo grandioso sismografo di un mutamento senza precedenti che è ancora in atto.
A proposito di problemi di oggi e di ieri. Prima esecuzione ha una struttura molto ambiziosa e volutamente ingarbugliata, che riflette la difficoltà della letteratura di affrontare un determinato argomento, che, in quel caso, è la violenza.
La violenza dei buoni.
Che differenza c’è?
Noi abbiamo una spropositata ammirazione per quello che prende botte e non resta per terra ma anzi si tira su ancora e ancora per ribadire le sue ragioni all’aggressore, senza fargli del male. Il nostro eroe ideale è uno che incassa gli schiaffi senza restituirli ma proprio così vince. C’è però, anche in quel prototipo, un punto di rottura. Se ti occupi del punto di rottura si complica tutto. E la letteratura dovrebbe andare sempre dove si complica tutto.
Da quando hai scritto Prima esecuzione, che a breve sarà ripubblicato da Einaudi, sono passati quasi vent’anni. Pensi che la violenza dei buoni sia ancora una di quelle cose di cui la letteratura ha difficoltà a parlare?
La violenza è in tutta la nostra vita. C’è la violenza che si esercita sull’altro attraverso, chessò, l’infedeltà, oppure c’è la violenza dell’automobilista che si sente offeso e quindi esce col crick. Insomma, la violenza fa parte della vita quotidiana ed è stata sempre raccontata. Le scene di combattimento dell’Iliade fanno ancora oggi molta impressione. Il problema della letteratura non è la violenza come tema. In letteratura è importante scegliere un’angolatura, e capire perché ti interessa, perché la scegli.
Quindi tu non hai una lista di temi in sospeso. Di cose di cui vorresti scrivere, ma ancora non sei riuscito a.
Non penso che uno che vuole scrivere debba chiedersi “Qual è un tema interessante che andrebbe trattato?”. Penso che dovrebbe dire “Che cosa mi riguarda intimamente? E di quali strumenti ho bisogno per cavare fuori da me questa cosa?”.
Per te una di queste cose è l’adulterio. In quasi tutti i tuoi romanzi a un certo punto c’è qualcuno che tradisce. In Prima esecuzione lo dici esplicitamente: “il tema dell’adulterio me lo porto dietro da sempre, dall’infanzia”. Perché secondo te?
Perché è una cosa che mi riguarda molto intimamente. Chiunque abbia letto Via Gemito sa che parte da una scenata notturna di gelosia, una vera e propria aggressione, del padre nei confronti della madre.
“Vanesia”.
“Vanesia”, sì. Quello è uno dei nodi intorno a cui ho lavorato per tutta la vita. In Via Gemito è la scena della lite fra il padre e la madre. Ma anche l’incipit di Denti è simile: c’è uno che sta facendo una scenata di gelosia alla fidanzata. E lei, stufa, afferra il posacenere e gli dà un colpo che gli spacca i denti. Chi scrive deve prestare orecchio alle proprie ossessioni e poi si deve chiedere: “dove mi portano? Quale origine hanno?”.
E a te dove portano? Che origine hanno?
Ho sempre evitato la psicanalisi. Tendo a stare terra terra, mi concentro su quello che deve fare uno scrittore, cioè raccontare. È il racconto che si trascina dietro quello che gli serve, ciò che scivola in superficie e ciò che se ne sta nel pozzo nero.
In un articolo qui su Lucy hai scritto che a un certo punto ti sei accorto che l’io è l’unica garanzia di realismo. Ma perché ci interessa così tanto il realismo? La letteratura è nata in un modo completamente diverso.
È un discorso lungo. [Sospira.] Le interviste vengono bene quando sono chiare e veloci. Colpa mia che divago.
Fa niente.
Diciamo sommariamente così: gli effetti di realtà sono stati fondati da sempre sul dono divino dell’onniscienza del narratore, e anche quando gli dei si sono ritirati dal mondo l’onniscienza ha seguitato a funzionare tecnicamente alla grande. Era una convenzione robustissima che collocava la terza persona dentro un mondo minutamente finto con materiali di varia provenienza. Il progressivo trionfo dell’io narrante, che col suo punto di vista limitato ci è sembrato più vero e più vicino alla nostra esperienza, ha aperto una voragine nella lunga elaborata finzione della terza persona. E oggi siamo fermi sul bordo di quella voragine, aggrappati a un io sempre più limitato, sempre più parziale, un io che non conosce bene nemmeno se stesso, bugiardo, opportunista, fatto di pezzetti e pezzettini che è difficilissimo tenere insieme. Non l’io proustiano e nemmeno quello di Zeno – quelli sono al centro di grandiose opere fondative, – ma filiazioni a volte di genio e più spesso di media fattura, ricavate dal nostro tran tran quotidiano. Facciamo insomma sempre più letteratura spicciola. Che non è poco, l’espressione è di Svevo, si trova in una lettera alla moglie. Sto cercando di ricordare le parole precise, una cosa di questo tipo: “lo so che t’ho telefonato un’ora fa, ma adesso ti scrivo comunque perché voglio fare un po’ di letteratura spicciola”.
Che cos’è, la letteratura spicciola?
Esercizi preparatori in attesa della grande opera. Ma i tempi sono duri, la grande opera non arriva, ci rifugiamo nella letteratura spicciola – piccole storie, il saccheggio quotidiano degli accidenti delle nostre vite – che prima era scrittura privata e ora diventa libro.
Quanto è importante saccheggiare la propria vita, cioè quanto è utile, quanto è efficace? E poi, per vivere una vita che valga la pena di essere saccheggiata uno che deve fare? Oppure tutte le vite meritano di essere saccheggiate?
Tutte le vite meritano di essere saccheggiate, anche le più banali. Famiglia d’origine, storie d’amore, malattie, piccoli accidenti, memorie di nonni, padri, madri, amici, fantasie, figli, lavori, libri e film e canzoni che ci hanno segnato: va bene tutto. Il problema è l’energia verbale, la potenza immaginativa. Il salto qualitativo avviene, se avviene, su quel terreno lì.
Qual è la cosa nella scrittura – tua, degli altri – che ti dà più fastidio?
Mi infastidisce la scrittura che non fa attrito, quella dove si vede l’ossessione della bella formulazione. È una scrittura così aggiustata, così apparecchiata, che perde forza per eccesso di lindore. Un rischio a cui siamo esposti tutti.
E invece quella che ti piace di più? Una cosa che ti fa pensare “ah, sono proprio felice della pagina che ho fatto, della pagina che ho letto”.
La scrittura sprezzata. Quella dove la tensione verso la perfezione c’è ma non si vede.
A un certo punto di Via Gemito, mentre racconti la fatica di Mimì nel restare in posa per suo padre, scrivi: “soffre l’artista che guarda la realtà, soffre la realtà sotto lo sguardo dell’artista”. In che modi soffre la realtà sotto lo sguardo di un artista, nel tuo caso di uno scrittore?
Cosa ho scritto di preciso? Via Gemito risale a oltre venticinque anni fa.
“Soffre l’artista che guarda la realtà, soffre la realtà sotto lo sguardo dell’artista. Se uno non capisce questo, è inutile che si mette in posa”.
Mah, è come quando guardi una persona con simpatia o con rimprovero e quella persona arrossisce. L’osservato e l’osservatore si urtano e in quei momenti c’è uno squilibrio. È quell’urto che va raccontato, la sofferenza o il piacere che ne deriva.
Sempre in Via Gemito, parlando di Rusinè, la madre, scrivi: “Di lei non so niente, eppure è rimasta dappertutto”.
È così. All’altro ti puoi approssimare, la vicinanza può diventare un’ossessione, ma come accade all’io proustiano con Albertine, anche chi ci è più vicino e occupa ogni angolo della nostra vita resta in sostanza inconoscibile.
Alcuni dei tuoi libri li ho intesi, almeno in parte, come tentativi di immortalare quello che sta in mezzo fra la persona e il personaggio: una madre, una nonna, un primo amore. La letteratura immortala, oppure questa illusione di immortalità è un modo come un altro per essere religiosi? Un credo di chi legge e scrive.
Sono formule di lunghissima tradizione e sì, di origine religiosa. Ma le persone, c’è poco da fare, muoiono. Si vive, se va bene, nei segni alfabetici, una vita metaforica da personaggio che non cancella la perdita e certo non consola i morti. Ma persino nella scrittura la mortalità è altissima, i libri diventano velocemente sarcofaghi. Non parliamo dell’immortalità degli autori. In pochissimi ce la fanno, e anche quelli non credo che se la godano molto all’idea di vivere – fino all’estinzione del genere umano – sotto forma di mucchietto di lettere.
“Tutte le vite meritano di essere saccheggiate, anche le più banali. Famiglia d’origine, storie d’amore, malattie, piccoli accidenti, memorie di nonni, padri, madri, amici, fantasie, figli, lavori, libri e film e canzoni che ci hanno segnato: va bene tutto”.
Sempre in Via Gemito, Federì, il padre, si rivolge a un suo modello che sta fissando il quadro per cui ha posato, e gli dice: “Non vi ho fatto tale e quale, vi ho fatto meglio. Vi ho fatto in modo che adesso non morirete più”.
È una piccola storia a cui tengo. C’è il venditore di verdure, Luigi ‘o verdummàro, a cui manca un pollice, gliel’ha strappato tempo addietro l’asino con un morso. Ora, Federì sta facendo un grande quadro intitolato I bevitori e prende come modello anche Luigi, proprio per via di questo dito mozzato. Il venditore accetta, ma a una condizione: vuole vivere in eterno con tutte e cinque le dita. E Federì si trova davanti a un bivio: l’arte vorrebbe Luigi com’è, mutilato, ma Luigi si vergogna della sua mutilazione, vuole durare per sempre nella sua forma migliore.
E tu cosa vuoi? Cioè, qual è la cosa che desideri di più? E la cosa che ti scoccia di più?
Adesso?
Sì.
Be’, se comincio un libro spero di riuscire a finirlo, diventa la cosa che voglio di più, temo di non avere forze e tempo necessari. In parallelo però, più la scrittura procede con piacere, più scatta il desiderio opposto: non voglio arrivare alla fine. Forse la fine di un libro dovrebbe coincidere con l’esaurimento della spinta a raccontare, sarebbe bello. Uno dei grandi problemi del romanzo, si sa, è che, per finire, ha bisogno di pagine che però ti secca scrivere. Sai sempre che a un certo punto ti troverai in una palude e che per quanto cerchi di aggirarla, sulla pagina resta.
Ok, ma non lo so se me l’hai detto, qual è la cosa che ti scoccia di più.
Come no, te l’ho detto. Che scrivere mi dia piacere o che mi annoi, detesto dover per forza finire.
In cover: dettaglio da Operai che pranzano. I bevitori di Federico Starnone, esposto nella Saletta consiliare del Comune di Positano.
Nicola H. Cosentino
Nicola H. Cosentino è scrittore, critico letterario e editor di Lucy. Collabora con «La Lettura». Il suo ultimo romanzo è Le tracce fantasma (Minimum Fax, 2022).
Domenico Starnone
Domenico Starnone è scrittore e sceneggiatore. Collabora con «Internazionale» e altre testate. Il suo ultimo romanzo è Il vecchio al mare (Einaudi, 2024).
newsletter
Le vite degli altri
Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.
La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.
Contenuti correlati
© Lucy 2025
art direction undesign
web design & development cosmo
sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga
00:00
00:00