Lorenzo Gramatica
03 Settembre 2023
A Venezia 80, Frederick Wiseman presenta fuori concorso il suo ultimo documentario, dove racconta con maestria quello che accade in un ristorante tre stelle Michelin.
Aldo Buzzi, gastronomo colto ed esigente, alle volte veniva preso da una violenta nostalgia della “cucina delle mense”. Entrava in una trattoria qualsiasi e ordinava uno spaghetto al ragù – sugo che altrimenti avrebbe evitato – che gli sarebbe stato puntualmente servito stracotto e in un piatto gelato. Divorato con gusto questo “piatto di pasta alla rovescia”, cucinato senza la minima cura e impiattato quasi rabbiosamente, Buzzi riprendeva con le sue sofisticate abitudini alimentari.
Lo capisco: che c’è di meglio che abbandonarsi a un piacere colpevole e inusuale? Non si vuole solo quello che non si può avere, ma pure quello che sembra sconveniente o a cui non si è più abituati. Per questo, qui al Lido di Venezia, io sogno da giorni gelatine, foie gras, riduzioni di pomodorino confit, carpacci di storione e battute di fassona o anche solo uno spaghetto cucinato al dente. Al Lido infatti, nei dintorni della Mostra del cinema soprattutto, si mangia malissimo e questa metodica imperizia nella cucina si paga anche a caro prezzo. Chissà cosa ne direbbe il conte Volpi, che il Lido di Venezia se l’era immaginato per compiacere una clientela internazionale molto chic, di principesse e consoli; di certo qui sarebbero gli unici a potersi permettere senza patemi un pranzo – ma si sa che ai veri ricchi mangiare non interessa poi tanto.
Per questo, l’ultimo film di Frederick Wiseman presentato fuori concorso, Menus-Plaisirs Les Troisgros, ambientato nei ristoranti (un tre stelle Michelin e due più informali) della famiglia Troisgros a Roanne, è il film adatto a risvegliare il mio inconscio frustrato: sono in sala, ma vorrei essere lì, tra i banchi del mercato dove gli chef scelgono sculture di funghi e indivia verdissima, nelle cucine satinate dove si mondano verdure e si maneggiano rognoni con gesti che si susseguono ordinati e precisi e, ovviamente, seduto a tavola col tovagliolo sulle gambe e la testa nel piatto.
In un certo senso è come se fossi lì – è spesso così quando si guarda un film di Wiseman.
Frederick Wiseman, americano da qualche anno a Parigi, è un regista straordinario per originalità e coerenza. Venerato dai cinefili, amatissimo dalla critica, da più di cinquant’anni posa il suo sguardo sui luoghi – la National Gallery di Londra, l’università di Berkeley, l’American Ballet Theatre, il quartiere newyorkese di Jackson Heights tra i tanti – per raccontarli, mostrando così anche gli esseri umani immersi in un determinato contesto e, per estensione, la società (o una versione di essa), con tutte le sue complessità, contraddizioni, brutalità, bizzarrie e tenerezze.
I documentari di Wiseman, al loro meglio, riescono a coniugare ironia sottile ed empatia, e l’occhio attento dell’antropologo a quello curioso e svagato del bambino.
Michel Troisgros, terza generazione di una dinastia di chef, gestisce due ristoranti: uno che da più di cinquant’anni si può fregiare di tre stelle Michelin, l’altro più informale, senza stelle ma con vista bucolica di alberi, erba incolta e cavalli che si scorgono dalle ampie vetrate.
Con lui la moglie, i due figli, anch’essi chef, e la figlia, che si occupa della gestione amministrativa.
I figli si confrontano col padre in modo molto – e quasi sospettosamente – civile sulle ricette, gli ingredienti, gli abbinamenti: cosa possiamo aggiungere per dare sapidità o colore o acidità a questo piatto o a quell’altro? E se l’asparago lo facessimo a striscioline? Perché vuoi metterci anche le mandorle qui?
A loro toccherà prendersi carico del futuro dei ristoranti: saranno bravi come il padre – e come il nonno e il bisnonno? Di certo studiano, si applicano molto, a volte fanno un po’ i primi della classe ma si vede che è come se si mettessero in punta di piedi per mostrarsi più alti di quello che sono.
Nel corso di quattro ore, Wiseman racconta loro, i camerieri, i sommelier, gli allevatori, i produttori di formaggio, la clientela – quella elegante e davvero ricca, quella pretenziosa, quella che non appartiene a nessuna delle due categorie sopra citate. A un certo punto compare per qualche secondo, come una visione in un film di Buñuel, un prete, che mangia accompagnando il tutto con dell’ottimo vino.
Sono tutti molto educati, nessuno si manda affanculo, non si sbraita, non si sbattono pentole e non si lanciano coltelli come nelle serie tv ambientate nelle cucine. Il sospetto è che sia anche perché il clima è un po’ cambiato: il direttore di sala comunica alla brigata che d’ora in poi sarà meglio evitare nomignoli e prendersi troppa libertà coi colleghi perché qualcuno, come pare essere già accaduto, potrebbe aversene a male (e, pettegoli, si muore dalla curiosità di saperne di più: che è successo? Chi ha detto cosa a chi? Chi si è offeso e perché?).
Si scopre che nemmeno gli chef tristellati conoscono alla perfezione la stagionalità dei prodotti: “Il rabarbaro c’è ancora?” chiede Michel. “E la barbabietola?” Quando i dubbi non si riescono a fugare, si ricorre all’enciclopedia, un po’ come faremmo noi che non sappiamo nemmeno cuocere un uovo in camicia.
Si impara anche finalmente la differenza tra vini biologici e vini biodinamici e altre cose di cui non si sospettava nemmeno l’esistenza.
Come in ogni professione creativa, anche per gli chef la tentazione di credere alla predestinazione dell’intuizione è grande; per questo forse danno nomi pretenziosi ai piatti, cercano citazioni letterarie per infiocchettarli, raccontano del processo che ha generato le idee (forte è il dubbio che, alle volte, mentano). Sono leziosi e vanitosi e quando vanno in sala sembrano direttori d’orchestra che si preparano all’inchino.
Wiseman lavora da anni con un gruppo di lavoro molto ristretto: oltre a lui, un cameraman (James Bishop) e un direttore della fotografia (John Davey).
Questo gli consente quasi di scomparire e, per quanto sia assurdo e cliché sostenere che camera, microfoni e tre persone possano risultare invisibili, questo è quello che sembra accadere.
Altrimenti non si spiega come uno dei figli di Michel si possa prendere davanti ai clienti il merito di un’idea (un dolce col caviale) che però ha avuto il padre; noi lo sappiamo, eravamo lì! Possibile che il figlio non ricordi più di essere stato ripreso? E poi, lo stesso Michel, che, mentre si atteggia a precursore della cucina fusion, spinge altri due clienti a parlar male di un rivale, lo chef Thierry Marx.
Wiseman padroneggia le immagini con una maestria che a molti è preclusa. Ha un controllo pressoché totale del montaggio e dunque del tempo, anche se si potrebbe pensare il contrario in un film di quattro ore con la camera perlopiù immobile.
Momenti di grande cinema. Uno su tutti: ripreso di spalle, come Ray Liotta nel famoso piano sequenza al ristorante di Goodfellas, il sommelier dei formaggi entra in scena con il suo carrello e una cameriera gli dice incoraggiante: “È il tuo momento per brillare!”
Eppure guardando questo film, che è bello e ricco di cose e persone, ci si può anche assopire; io per esempio, ho dormito una ventina di minuti buoni. Non per noia: il ritmo e la confidenza che si crea con i personaggi sullo schermo favorisce la rilassatezza. A voler esagerare si può dire che, come dopo un buon pranzo, anche qui ci si concede una pennichella in segno di apprezzamento.
Sospetto che Wiseman, in questo ritratto largamente elogiativo che gli ho fatto, abbia però un lato oscuro.
Sullo schermo della sala (non sullo smartphone e nemmeno sul televisore), l’occhio è libero di vagare; quella libertà però è solo apparente, perché lo sguardo non può che posarsi solo su quello che il regista – uomo o donna di potere prima che artista – ha deciso di inquadrare. Fuori dallo schermo, nel buio, non c’è nient’altro e quella è l’unica porzione di realtà che abitiamo per qualche ora.
Wiseman riesce a farmi scordare questa condizione di prigionia a cui docilmente si sottopone chiunque guardi un film; nel suo cinema ho come l’impressione di essere io a scegliere cosa guardare e quando farlo. Ovviamente non è così. E però cose a cui mai avrei pensato di interessarmi, conversazioni dalle quali mi sarei sottratto con sollievo in qualsiasi altra circostanza, diventano d’improvviso le cose più interessanti al mondo. “Ah certo è così che si crea la muffa quindi”, mi ritrovo a pensare dopo almeno dieci minuti di spiegazione dettagliata della stagionatura del formaggio da parte di un uomo che sta massaggiando una forma di caprino. E poi eccomi a guardare con attenzione un mazzetto di menta marocchina e scoprire che non vorrei guardare altro per i successivi due minuti.
Forse Wiseman riesce a ottenere non solo la completa adesione al suo sguardo ma anche la fiducia dello spettatore perché quest’ultimo non ha mai la sensazione di essere manipolato. Ma non è questa la forma di manipolazione più alta e sublime? Non è questa l’essenza del cinema? Credere ciecamente a una visione del mondo che non potrà mai essere la tua, amare la menzogna più della verità e, addirittura, smettere di chiedersi se la verità è davvero tale.
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