Sofia Assirelli
Superati i trent'anni tra amiche se ne parla spesso, ma sono poche le donne single a decidere di procedere con la crioconservazione degli ovuli. Ecco come può essere intraprendere questa scelta.
La prima volta che ho sentito parlare di social freezing ho immaginato qualcosa di ghiacciato e mondano, come un daiquiri frozen o uno stravagante format di appuntamenti al buio dentro un igloo. Anche quando ho scoperto che l’espressione indica la crioconservazione degli ovociti – il congelamento degli ovuli per motivi non terapeutici – è rimasta intatta l’aura di frizzante leggerezza che la circondava: dà l’idea di una pratica fatua, non necessaria, un passatempo qualunque di signore che iniziano ad avere una certa età e una buona disponibilità economica. Ma poi mi è venuto in mente anche un altro possibile significato, ben più inquietante: qualcosa che congela te lungo il crinale anagrafico su cui stai tentando di mantenerti in equilibrio. E in effetti è così, il social freezing ti cristallizza in un tempo e in un’etichetta con cui devi fare i conti, anche se non pensi che ti rappresenti in alcun modo.
Tutto è cominciato con uno strappo del mio orizzonte, che all’epoca era rappresentato da una lunghissima relazione che si è interrotta bruscamente sotto il portico dei Servi a Bologna in un giorno di metà marzo. Una volta rimessi insieme i cocci della mia esistenza mi sono chiesta cosa ne avrei fatto di quel vago desiderio di maternità che avevo percepito negli ultimi anni. Non era un bambino che volevo, ma non ero pronta a rinunciare all’idea di poterlo avere, e non volevo affrontare il mare – lo stagno? – degli uomini ancora a piede libero tormentata dall’immagine di uno spiraglio su un’altra vita possibile che si andava assottigliando ogni giorno di più. Ma avevo 39 anni.
Solo una persona che conoscevo aveva portato avanti il social freezing, una ragazza lesbica che comunque avrebbe dovuto passare per la fecondazione in vitro per poter rimanere incinta. Ho saccheggiato informazioni sulla sua esperienza, e appena sono riuscita a racimolare la giusta dose di autodeterminazione ho deciso di seguire il suo esempio.
“La prima volta che ho sentito parlare di social freezing ho immaginato qualcosa di ghiacciato e mondano, come un daiquiri frozen o uno stravagante format di appuntamenti al buio dentro un igloo”.
Nel corridoio della clinica erano sedute tante coppie, mentre io attraversavo da sola quella navata, come in un matrimonio al contrario. Quando sono entrata nell’ufficio della dottoressa lei mi ha guardato sospettosa e mi ha chiesto: “bè: dov’è suo marito?”. Dentro di me percepivo uno stridore doloroso, una sensazione d’imposta inadeguatezza, ho farfugliato dati e mostrato analisi, finché la dottoressa ha detto: “Bè, questo ormone antimulleriano non mi pare proprio una gran meraviglia!”. L’AMH è un ormone che dà indicazioni sulla fertilità, e io ho preso atto di colpo che il livello del mio stava scendendo in picchiata nonostante io mi sentissi fresca come un bocciolo di pesco. “La conta dei follicoli tuttavia non è poi così disastrosa”, ha concluso la dottoressa, tentando di essere consolatoria. Io però volevo solo fuggire. Non da lì, ma da me, dal mio corpo, che come tutti pensavo eterno e invece no.
Alla fermata dell’autobus ho pianto disperata davanti alle altre persone in attesa. Il cielo, sopra il tetto rosso della pensilina, era opprimente e color ghisa e avevo voglia di batterci la testa sopra. Ho chiamato una delle mie migliori amiche che mi ha detto: da ora in poi questa cosa non la fai più da sola.
Nella seconda clinica sono andata insieme a lei. Il dottore ci ha accolto entrambe nel suo studio, senza fare alcuna domanda sul nostro legame. La diagnosi della situazione e i consigli che mi hanno dato sono gli stessi dell’altra clinica, ma con una modalità che mi ha incoraggiata invece che farmi vergognare della mia data di scadenza ormai ampiamente raggiunta. Ho sentito che quel medico era la persona giusta a cui affidare i miei ovuli, e i miei soldi. Perché sì, ovviamente si tratta molto anche di soldi: i prezzi delle cliniche variano, ma tra medicinali e intervento le cifre vanno dai duemila e cinquecento ai cinquemila euro a ciclo. I medicinali, che in Italia sono passati gratuitamente per le coppie eterosessuali con un conclamato problema di fertilità, per noi capricciose donne sole sono a prezzo pieno. Inoltre, spesso bisogna considerare anche una cospicua quota annuale per la conservazione. In un Paese con un grave problema di natalità, perché non agevolare la possibilità alle donne di scegliere un momento giusto per il proprio percorso di vita, di carriera, sentimentale?
Per prima cosa si compilano le scartoffie burocratiche: quando ho dovuto dichiarare per quale motivo volevo congelare gli ovuli ho proposto alla dottoressa davanti a me “manca la materia prima per restare incinta”, ma l’’ho guardata scrivere “ritardare gravidanza”, mentre avvampava di caldane da menopausa.
La prima volta che mi sono fatta le punture ero in video call con la mia amica medico. Non esiste nessuna difficoltà tecnica nel compiere questa operazione, le siringhe sono pre-riempite con l’applicazione “a penna”, ma anche in questo caso ho sottovalutato ciò che avrei provato. Iniettavo quel liquido dentro di me e sentivo tutto lo strappo da quello che pensavo sarebbe stato il mio futuro, mi vedevo rotolata in una vita che non era la mia con una siringa in mano, io, che ero sempre stata in regola con i traguardi previsti della vita, ero lì a recuperare in extremis il tempo perduto, seguendo le istruzioni dell’amica a cui venticinque anni fa avevo confidato la mia prima cotta.
Eppure era proprio la mia, di vita.
Per due settimane ogni giorno dovevo iniettarmi varie siringhe di ormoni, e un giorno sì e un giorno no dovevo fare le analisi del sangue e l’ecografia. Spesso le mie amiche mi accompagnavano, ed erano bei momenti di chiacchiere e aggiornamenti. Nella sala d’attesa c’erano fotografie alle pareti che ritraevano madri nordafricane con svariati bambini e io e le mie amiche ci interrogavamo sul perché di quella curiosa scelta, visto che evidentemente quelle donne non erano il target per la fecondazione assistita, ma piuttosto una sua nemesi. Attorno a me c’erano unicamente coppie, solo una volta ho incontrato una ragazza che apparteneva alla mia stessa categoria, una neurologa infantile. Ogni tanto accadeva qualche episodio sopra le righe, come la signora entrata con le lacrime agli occhi in sala d’attesa brandendo un neonato come se fosse un ostensorio al grido di “non mollate ragazze! Guardate qua!”. In quei giorni gli ormoni, che in teoria avrebbero dovuto indurmi uno stato pizzicorino e vivace, mi facevano sentire sopraffatta, priva di lucentezza e con una voglia molto precisa di nascondermi al mondo e scomparire inghiottita dai cuscini del divano. O forse quelle erano le conseguenze della carenza di alcol e carboidrati prevista dalla dieta che mi avevano consigliato di seguire.
L’intervento è durato circa un quarto d’ora ed è stato facile e privo di conseguenze, eccezion fatta per gli strascichi dell’anestesia totale, che mi ha privata di ogni filtro una volta rientrata nella stanzetta della degenza. Ho pianto – strano! – abbracciata all’infermiera, ripetendo che il mio compagno non c’era perché io ero sola, ero sola, ero sola, e poi non paga ho mandato un messaggio al mio ex con scritto: mi hai rovinato la vita.
Mano a mano arrivavano altre donne, non ci vedevamo l’un l’altra perché separate da una tendina, ma riuscivamo a intuire più o meno chi eravamo, perché ci eravamo incontrate talvolta in sala d’attesa e avevamo anche scambiato qualche parola. Anche la donna accanto a me, subito dopo l’intervento, si è messa a piangere. Distese e seminude, divise e protette dalla tenda blu, ci siamo confidate. Lei aveva già provato un ciclo di fecondazione assistita quando era molto più giovane che non era andato a buon termine, ma poi era riuscita ad avere un bambino naturalmente. Ora sperava di poter avere il secondo, ma fino a quel momento non ci era riuscita. Ad un certo punto si è palesata la dottoressa che ci aveva operate tutte, e ha riferito a ciascuna di noi com’era andata, in termini oggettivi e numerici. Sentivo le mie vicine di stanza ricevere ottime cifre, e poi è toccato a me: un numero che suonava come un brutto voto. E l’aggiunta – doverosa, lo so, ma anche dolorosa – per la sua età è normale.
“Per prima cosa si compilano le scartoffie burocratiche: quando ho dovuto dichiarare per quale motivo volevo congelare gli ovuli ho proposto alla dottoressa davanti a me ‘manca la materia prima per restare incinta’”.
E così ho deciso di ricominciare subito tutto da capo, per un altro ciclo, dicendomi che sarebbe stato comunque l’ultimo. Nella pausa tra i due cicli ho avuto un’esplosione pirotecnica di vita, di concerti, di bevute, di incontri, mi sono cibata con voracità di ogni occasione che quei giorni di giugno mi offrivano, con la consapevolezza che sarei rientrata presto in letargo. Nel mio rimbalzare come una pallina sparata da un flipper ho conosciuto un uomo timido e simpatico, dai grandi occhi tendenti al verde, al quale, per forza di cose, ho dovuto raccontare quello che stavo vivendo. Non ne sapeva nulla, come credo quasi tutti gli uomini e buona parte delle donne, ma ha ascoltato e cercato di capire. Soprattutto ha saputo sdrammatizzare la pesantezza della questione con il suo delizioso understatement.
Il secondo ciclo, che ho affrontato con la facilità spavalda di una veterana, è andato liscio, senza alcun melodramma, ormai mi facevo le punture durante le riunioni di brainstorming e trovavo normale e quasi piacevole la routine mattutina di caffè ed ecografia dall’altra parte della città. Al rientro dell’intervento stavolta ho solamente gridato alla stessa disgraziata infermiera “Ho fame! Ho fame! Ho fame!”, e il numero che ho ricevuto come esito è quello di quando andavo bene nei temi. Stavolta, invece di inviare strali al mio ex, ho mandato un messaggio all’uomo simpatico comunicandogli com’era andata, e lui ha risposto Manolo, Kevin, Ruslan, Touchdown, Pamela, Shania, Chantal, Jerry, Nathanfalco, Ramona: nomi assurdi per quella combriccola congelata. Io ho sorriso, per una volta davvero, della bellezza che esiste nella potenzialità. Di bambini che non sono ancora bambini e potranno non esserlo mai, oppure sì. Di incontri che potrebbero diventare qualsiasi cosa, ma sono già luminosi nel loro essere possibilità.
Non ho mai immaginato un giorno in cui tornerò alla clinica a chiedere di scongelare il bottino, io desideravo più che altro liberarmi dall’ansia. Ci sono riuscita solo parzialmente, anche perché congelare gli ovociti non significa in alcun modo avere la certezza di una gravidanza. Secondo i dati (2023) dell’ESHRE, Società Europea della Riproduzione Umana ed Embriologia, il 27 per cento delle donne che ha fatto congelare gli ovuli per ragioni non mediche in un centro di fertilità europeo tra il 2009 e il 2019 (lo studio si è basato su 843 donne) è tornata in clinica per utilizzarli, e di queste il 40 per cento è riuscita ad avere un bambino. Inoltre, nonostante tutte le cliniche che offrono il servizio di crioconservazione consiglino di congelare gli ovuli prima dei 35 anni, l’età media delle donne che si sottopongono a questo trattamento è oltre i trentasei anni in Europa (in Italia è probabilmente più alta). Questo per vari motivi: perché non è facile avere la necessaria disponibilità economica prima di quella età, per ragioni contingenti della vita, ma anche perché spesso ci si rende conto di avere un problema di fertilità troppo tardi. A poche mie amiche negli anni sono state proposte analisi di controllo prima che dichiarassero esplicitamente di essere in cerca di una gravidanza. Ho chiesto ad alcuni ginecologi il perché di questa prassi, e mi è stato risposto che la questione è molto delicata, potrebbe sembrare un’invasione nelle scelte personali della paziente. Capisco perfettamente l’argomentazione, ma forse bisognerebbe considerare la fertilità come un fattore riguardante la salute della persona, a prescindere, e non qualcosa legato necessariamente all’esistenza di una coppia o di un progetto di vita.
Esiste l’obiezione secondo cui il congelamento degli ovuli sia l’ennesima dimostrazione che oggi si vuole tutto e che ci si illude di governare tutto, mentre sui corpi, come sugli eventi atmosferici, non abbiamo alcun controllo: hanno tempi e modi che prescindono da noi, dai nostri piani e dalle nostre fantasie. Conosco bene la malattia, la mia famiglia ci ha fatto i conti in vari modi nel tempo, e giusto un mese prima di cominciare questo percorso avevo trascorso un mese in ospedale accanto a mia sorella, alla quale avevano diagnosticato una malattia rara. Mi è diventata ancora più chiara la differenza tra un trattamento terapeutico imposto e uno scelto, ma su questioni personali come questa ho capito che non si può mai giudicare dall’esterno, e che nella sala d’attesa di quella clinica, come di tutte le cliniche, ci sono storie, desideri, bisogni profondi, frustrazioni, dolori talvolta indicibili, che vanno in ogni caso rispettati.
“Nella pausa tra i due cicli ho avuto un’esplosione pirotecnica di vita, di concerti, di bevute, di incontri, mi sono cibata con voracità di ogni occasione che quei giorni di giugno mi offrivano, con la consapevolezza che sarei rientrata presto in letargo”.
Il medico con cui ho deciso di fare questo percorso mi ha rivelato che pochissime donne che decidono di congelare gli ovuli vogliono parlare pubblicamente di questa loro scelta, forse perché non tutti vogliono sbandierare la propria intimità (problema che non affligge l’autrice), ma forse anche perché resta il mito della gravidanza naturale, al quale si aggiunge lo stigma tuttora attuale di essere una zitella.
Ho deciso di raccontare la mia esperienza perché qualcuna come me scopra e valuti questa opzione, se può aiutarla a stare meglio. Non è come bere un bicchier d’acqua e non è priva di un prezzo da pagare, letteralmente e non, ma per me è stata una maniera per smarcarmi dall’impotenza e andare a capo. Forse persino io, che non apprendo mai dagli errori, che non ho cominciato a bere tanta acqua nemmeno dopo gli spasimi dei calcoli renali, stavolta sono riuscita ad imparare qualcosa di davvero molto difficile: prendermi cura di me.
Sofia Assirelli
Sofia Assirelli è autrice e sceneggiatrice. Ha scritto numerose serie televisive, documentari e lungometraggi, tra cui La vita da grandi. Per Feltrinelli Comics ha pubblicato la graphic novel Tettonica disegnata da Cristina Portolano.
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