Caterina Orsenigo
Quella dei Giochi olimpici invernali 2026 di Milano-Cortina doveva essere una edizione a costo zero. Ha invece mostrato in fretta la sua insostenibilità a livello ambientale, sociale, economico – sollevando le proteste di molte associazioni. Un malcontento che non era mai stato così diffuso. Forse è ora di ripensare la natura di questi grandi eventi.
Da qualche giorno la Fondazione Milano Cortina 2026 ha lanciato “nuova campagna per sognare e vivere insieme” in attesa delle Olimpiadi. In Piazza della Scala sono stati installati i simboli dei giochi olimpici e paralimpici. Sul nuovo sito si contano i minuti e i secondi che mancano al 6 febbraio 2026 e si propongono incontri nelle scuole, iniziative culturali, presentazioni di libri. C’è un contest per scegliere un inno, votando fra due canzoni, ce n’è un altro per chi vuole diventare “testimonial digitale” dell’evento, e per gli studenti c’è il concorso “Disegna la mascotte”. Offerte di lavoro e soprattutto di volontariato, e un’ampia rassegna stampa con foto di cime innevate. Si parla di scambi orizzontali con i territori e si promette la stessa neve soffice dei nostri ricordi d’infanzia.
Non tutti, però, stanno festeggiando. In questi stessi giorni, a Milano, sono state organizzate proteste, assemblee, conferenze e occasioni di confronto. Una serie di mobilitazioni diffuse volute dal Comitato Insostenibili Olimpiadi 2026 (CIO). L’acronimo fa il verso al CIO ufficiale, il Comitato Olimpico Internazionale, quello fondato da Pierre de Coubertin nel 1864.
Il Comitato Insostenibili Olimpiadi è composto dalla storica APE (l’Associazione Proletaria Escursionisti fondata nel 1919 per immaginare escursionismo in chiave popolare e sociale), dal collettivo Off Topic – laboratorio politico milanese che porta avanti un ragionamento sulla città cominciato con Expo 2015 e proseguito nel tempo – e le associazioni di sport popolare di cui fanno parte collettivi napoletani, romani, torinesi oltre che vari spazi sociali milanesi.
Nel CIO ci sono però anche associazioni di matrice molto meno politica, come l’organizzazione alpina Mountain Wilderness, Italia Nostra, i comitati montani impegnati nel contrasto alla devastazione delle valli dolomitiche: tutti concordi nel ritenere questi giochi insostenibili a livello ambientale, sociale, economico.
“Si parla di scambi orizzontali con i territori e si promette la stessa neve soffice dei nostri ricordi d’infanzia”.
Anche le istituzioni, d’altra parte, sempre più spesso si tirano indietro da manifestazioni di questo tipo: dopo l’Italia, le successive Olimpiadi invernali toccheranno alla Francia, che era l’unico paese in gara per ospitarle, insieme agli Stati Uniti con Salt Lake City. Ma il punto del Comitato non è tanto opporsi all’evento in sé, che, come racconta la sociologa Laura Raccanelli di Off Topic, non si può fermare, quanto “contrastare la narrazione del modello dei grandi eventi”.
L’edizione 2026 delle Olimpiadi era stata presentata come a costo zero, sia sul piano economico che sul piano ambientale. Poi i costi hanno raggiunto i 3,6 miliardi di euro. La dibattuta vicenda della pista da bob è esemplare del modo in cui si stanno realmente affrontando le cose. L’opzione di ricostruire l’impianto di Cortina era parsa subito troppo onerosa, anche in termini di impatto ambientale, persino al Comitato Olimpico Internazionale. WWF, Touring Club, CAI, Legambiente, Italia Nostra, Mountain WIlderness e altre associazioni avevano firmato un comunicato stampa in cui ribadivano l’opposizione all’opera. Il sindaco di Innsbruck aveva offerto l’utilizzo della pista di Igls. Invece, venerdì 2 febbraio è stato trovato un accordo.
L’impresa incaricata è Pizzarotti, i lavori cominceranno il 19 febbraio. Verrà costruita con 81,6 milioni di soldi pubblici, nonostante i tempi ormai strettissimi facciano pensare che non si riuscirà a testare adeguatamente in tempo, col rischio di non poterla utilizzare. Un investimento senza futuro, perché come si è ripetuto tante volte, in Italia solo 59 persone praticano ufficialmente lo sport e non aumenteranno: di neve non ce n’è quasi più e ce ne sarà sempre meno.
Queste Olimpiadi invernali riuniscono molte questioni critiche, emblematiche del presente, indissolubilmente collegate l’una all’altra. È per questo, forse, che avvicinano le proteste di realtà più istituzionali come WWF, CAI e Touring a quelle dei Proletari escursionisti, di Off Topic e delle palestre popolari. Si parla di lavoro, prima di tutto, perché i grandi eventi portano con sé lavoro sottopagato e spesso volontario, scarsa sicurezza sui cantieri, turni sfiancanti per stare dietro a progetti sempre in ritardo, come l’Arena Santa Giulia che ospiterà le partite di hockey maschile, la cui costruzione prevede oggi rotazioni di tre turni in 24 ore per non sospendere mai le attività (e per cui sono stati previsti già 70 milioni di euro di extra-costi).
“L’edizione 2026 delle Olimpiadi era stata presentata come a costo zero, sia sul piano economico che sul piano ambientale. Poi i costi hanno raggiunto i 3,6 miliardi”.
C’è la macro-questione della sostenibilità ambientale: a partire dall’occupazione di suolo e dai cantieri su montagne ormai fragilissime per costruire opere effimere, fino alla delicatissima questione dell’acqua, rinchiusa in bacini per farne neve artificiale, con additivi che poi si sciolgono, entrano nelle falde, inquinano. E gli scompensi di drenaggio idrico causati dalla cementificazione, soprattutto in città. Lì dove si sviluppa l’altro tema decisivo: l’abitare.
A Milano, il quartiere intorno allo scalo di Porta Romana si sta trasformando, con i lavori per il Villaggio Olimpico; il valore delle case aumenterà, espellendo man mano gli attuali residenti e negando ulteriormente il diritto all’abitare alle fasce più vulnerabili. Certo, è una peculiarità di queste Olimpiadi, ma il prezzo delle grandi privatizzazioni sistematizzate, dove la città mette se stessa a profitto e si priva della propria base, forse del proprio sangue, mentre si trasforma in una renderizzazione.
La narrazione ufficiale racconta che le Olimpiadi avranno una ricaduta positiva per tutti. Ma i soldi dei giochi non verranno destinati ai servizi sanitari, a quelli educativi o ad opzioni di trasporto pubblico più efficienti per gli abitanti delle zone di montagna. Buona parte dei fondi finiranno su strade statali e bretelle nell’arco alpino, o su opere come la tangenziale di Sondrio, infrastrutture di trasporto veloce su gomma, inquinanti, spesso sovradimensionate, che impattano su un ambiente già fragile. In un contesto di crisi, non solo climatica, in cui la spesa pubblica subisce contrazioni sempre più forti, con tagli su tanti settori, si sceglie di investire 3,6 miliardi in impianti e infrastrutture che non corrispondono alle necessità reali della popolazione. Sono decisioni che vengono prese per decreti, quindi con decisioni forzate, senza un vero confronto con il territorio.
Il gruppo veneto di Mountain Wilderness, che è stato chiamato a partecipare al processo decisionale, racconta di un coinvolgimento puramente di facciata, e definisce oggi quell’esperienza un percorso “frustrante di sussunzione e greenwashing”. Le loro istanze e preoccupazioni non sono mai state ascoltate.
“A Milano, il quartiere intorno allo scalo di Porta Romana si sta trasformando, con i lavori per il Villaggio Olimpico; il valore delle case aumenterà, espellendo man mano gli attuali residenti e negando ulteriormente il diritto all’abitare alle fasce più vulnerabili”.
Lo sport, del resto, dovrebbe essere il tema centrale. Nel Novecento le Olimpiadi erano pensate come un momento per attirare l’attenzione sulle discipline, sia a livello scolastico che professionale, un’occasione per ammodernare stadi e impianti che sarebbero stati poi utilizzati da tutti – come ancora accade nelle Olimpiadi di Roma del 1960. Oggi invece gli investimenti sono scollegati dai bisogni concreti delle comunità. Si costruiscono palazzine nuove a costi altissimi invece di usare le risorse per rimettere a posto strutture già esistenti (un esempio è il Palasharp di Milano, che si potrebbero ristrutturare con pochi milioni di euro). Si punta su impianti di risalita per uno sport ormai d’élite come lo sci, sapendo che senza neve artificiale saranno presto inutilizzabili.
La settimana di proteste si chiuderà il 10 con un corteo che partirà da Piazzale Lodi e raccoglierà, insieme alle realtà milanesi, tutte le associazioni e i comitati delle valli alpine interessate, il collettivo di Ecologia Politica e la rete Saccage 24, un insieme di realtà francesi che si occupano del discorso “anti-jeu”, in vista del 2030. Parallelamente, a Venezia, Fridays For Future, Extinction Rebellion e Venice Climate Camp hanno organizzato un presidio insieme davanti alla sede della Regione Veneto: “Dalla montagna alla laguna contro il cemento delle Olimpiadi” mentre al mattino la tangenziale di Sondrio sarà occupata da un’assemblea pubblica.
Le mobilitazioni di queste settimane portano con sé un confronto interessante fra città e montagna e mostrano una rete di realtà che si sta consolidando. Il 20 gennaio c’è stata un’assemblea nazionale partecipatissima, e l’impressione è che il tema sia sempre più sentito. Non appartiene più a una bolla ristretta, si allarga, proprio perché tiene insieme tante questioni, tutte fondamentali. Fra città e montagna, le preoccupazioni, le ferite e le vulnerabilità si rifrangono e riflettono creando convergenze.
L’obiettivo è quello di creare un immaginario comune che guardi realisticamente al futuro, anziché aggrapparsi con le unghie a un mondo che appartiene già al passato, mentre tutto intorno la neve si scioglie.
Caterina Orsenigo
Caterina Orsenigo è editor e giornalista. Scrive di letteratura, crisi climatica, mitologia per diversi giornali e riviste. Il suo ultimo libro è Con tutti i mezzi necessari (Prospero editore, 2022).
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