Irene Graziosi
06 Ottobre 2025
Una riflessione su cosa pensano gli uomini, di cosa hanno paura, perché sembrano temere così tanto i femminismi e quali vantaggi potrebbero invece avere se abbandonassero la lente gerarchica attraverso la quale hanno sempre guardato al mondo. A partire da "La voce del padrone", edito da add editore.
“Quando un uomo si dichiara femminista, tirati su le mutande” dice Natalia Aspesi. Questo è il primo impulso di qualunque donna avvertita davanti a un uomo che si dichiara femminista. Se questa è anche la vostra paura di fronte al nuovo libro di Francesco Pacifico, La voce del padrone (add editore), potete rilassarvi. Pacifico, a differenza dei molti autori maschi che ormai affollano mestamente le sezioni “femministe” delle librerie, femminista non si dichiara mai. Anzi, fin dal principio premette ciò che tutte sappiamo: un uomo non può essere femminista, perché il femminismo realizzato presuppone che l’uomo abbia meno privilegi materiali di un tempo – ed è ovvio che qui non ci siamo ancora arrivati. Pacifico suddivide dunque gli uomini in “conservatori” e “progressisti-capibara”. I primi lo sappiamo cosa professano, mentre i secondi sono più subdoli. Si dichiarano entusiasti del femminismo, come se le loro vite non fossero intaccate dal movimento.
Pacifico si avvicina al femminismo grazie a sua moglie. Lavorano nello stesso ambito, e in appena una decina d’anni lui sostiene che lei sia diventa più ambita, più “amata” di lui. Qualcosa è successo negli ultimi dieci anni, complice anche il MeToo, qualcosa che in realtà si stava preparando da molto più tempo, con le donne che sono più brave negli studi, più determinate, più indipendenti economicamente e quindi meno disposte a sopportare gli uomini. Parallelamente a questa maggiore libertà e assertività femminile, monta la frustrazione maschile per gli antichi privilegi sbeccati; sebbene questo scenario riguardi tutti, per molto tempo si è creduto che questa frustrazione appartenesse solo a uomini abietti e ai margini. Incel, estremisti, lubrici vecchi che postano foto delle loro mogli online quando non le offrono direttamente al… primo che passa, ovvero a un uomo qualunque. E infatti, dice Pacifico – così come Francesco Piccolo, un altro scrittore che si è spesso occupato di questi temi – gli stessi sentimenti che abitano questi uomini abitano anche tutti gli altri. Paura di perdere il posto, paura di rimanere soli, paura dell’abbandono, paura di essere visti per ciò che si è e non per ciò che si vuole far credere di essere. Questo è un libro che dovrebbero leggere gli uomini, scrive Pacifico, ma temo che lo leggeranno soprattutto le donne, dico io, e che lo troveranno più o meno ingenuo, più o meno tenero, più o meno sincero, più o meno intelligente. Io ho trovato che fosse più o meno tutte queste cose, ben scritto come tutto ciò che scrive Pacifico. Il tentativo riuscito di un uomo di fare autocoscienza – anche se non può dirlo – dopo aver letto e frequentato donne liberate, e che arriva a cinquant’anni alla conclusione a cui tutte noi siamo arrivate a dodici: più se ne parla, meglio si sta.
Così ne abbiamo parlato.
Mi ha divertito leggere il tuo libro. Ovviamente è un animale strano. Ce ne vuole di sfacciataggine per fare un libro sulle femministe. Qui la postura era tutto, e suppongo ci sia stato un grande lavoro per assumere quella “giusta”, senza apparire arrogante, compiacente, paternalista. Come l’hai trovata? E come mai l’hai scritto?
Alcuni editori mi hanno proposto di scrivere di queste cose, perché ne ho scritto e parlato in giro per anni. È stata la redazione di add a chiedermi di connettere tra loro cose molto personali di cui parlavo da anni, che andavano oltre il femminismo. Il mio libro sul sesso (Solo storie di sesso, nottetempo). Certi discorsi sulla religione. Quelli sulle classi sociali. Cosa unisce queste cose? Non volevano un libro di semplice reazione ai femminismi, volevano che portassi una combinazione di cose, la mia stratificazione, per rapportare i femminismi a vari aspetti della mia formazione. Quindi nel libro sono confluiti vari temi: il problema delle classi sociali, del potere, del sesso. C’è un sacco di religione. Ci sono io, c’è la mia storia. Però dopo la proposta iniziale faticavo a scrivere, perché sì mi sembrava interessante, ma avevo paura. Tra l’altro, la futura protagonista del libro, Francesca, mia moglie, diceva “Ma sei sicuro?”
E invece Annalisa Camilli, di «Internazionale», mi aveva detto che voleva leggere un mio libro su questa cosa. Tanto che c’era anche una possibilità a un certo punto di farlo insieme, poi non siamo riusciti. Però appunto non iniziavo mai perché ero diffidente pure io. Si agitava in me un desiderio enorme di parlare di questo confronto quotidiano con Francesca, che non posso chiamare propriamente “autocoscienza” non essendo un oppresso e che però ha influenzato tutti i miei libri recenti, a partire da Le donne amate (Rizzoli), che ho iniziato l’anno in cui ci siamo sposati chiedendole di mantenermi durante il periodo di scrittura.
Mi è impossibile scrivere della mia vita senza scrivere delle femministe. Mia moglie fa un festival femminista.
Poi l’ho scritto con una editor, Sandra Piana, che ha avuto potere di veto su tutto, le ho lasciato cancellare una cinquantina di cartelle. Anche Francesca ha avuto il potere di cancellare. Tutta la mia sostanza è stata sagomata dall’esterno. Era l’unico modo possibile per scrivere questo libro. Annotavo tutte le mie impressioni sul tema e mi rendevo conto di non avere gli strumenti per capire cosa tenere e cosa buttare.
Tu grazie a Dio non dici di essere femminista. Ce ne sono tanti che scrivono di femminismo, che vogliono “decostruirsi” (horror). Invece questo libro ha l’onestà di non essere femminista. Tu scindi il genere maschile in “conservatori” e “progressisti capibara”. Personalmente ho sempre preferito i conservatori, almeno sono trasparenti.
Tu cerchi di trovare un’altra via, un terzo tipo di uomo. A un certo punto confessi la tua paura: “sono a questi festival, in cui una volta c’erano tutti uomini… e ora non più”. E io me lo ricordo quando noi due ci siamo conosciuti, io spesso ero l’unica ragazza.
[Ho conosciuto Francesco Pacifico quando avevo circa diciassette o diciotto anni e avevo deciso che partecipare in qualche modo al mondo editoriale indipendente romano era importantissimo. Così gli chiesi di coinvolgermi in vari progetti, tra cui traduzioni (mi vennero assegnati racconti di Emily Witt e Kurt Vonnegut), correzioni bozze e infine la partecipazione alla rivista letteraria «Piscine»].
Sì, sì, era il periodo token. In cui al limite c’era una donna sola, come token.
Ma neanche token, nel mio caso, perché era un momento storico in cui non c’era neanche bisogno di inserire token. Io ci venivo di mio, stavo là in mezzo, mi ricordo nel periodo di «Piscine»… Non c’era nessuna donna a parte me.
Ok, facciamo l’elenco. «Piscine» è una rivista che ci siamo inventati io, Cristiano De Maio («Rivista Studio») e l’art director Stefano Cipolla, che ora sta all’«Espresso», e dentro c’eravate te, Niccolò Contessa, Luigi Di Capua dei The Pills, Daniele Manusia, fondatore di «Ultimo Uomo». Per dire, ho citato tutti uomini.
Già. E adesso è tutto diverso. Pur essendo ancora lontani da una “parità”, qualunque cosa significhi, molti ambiti si sono riempiti di donne: Caterina Barbieri è la direttrice di Biennale Musica, solo per fare un esempio. Nel mondo del cinema alcuni degli esordi più interessanti in Italia sono di donne, quelli di Margherita Vicario e di Sara Petraglia, o, il film più bello probabilmente Vermiglio di Maura Delpero. Di esempi ce ne sono tanti. Eppure questa cosa è cambiata da poco…
Hai fatto un buon esempio, perché nel periodo di «Piscine» Margherita Vicario era dello stesso giro dove ho conosciuto te, Contessa e Di Capua, però non mi è mai venuto in mente di chiamarla.
Bisognava insistere, se no non esistevi. Poi qualcosa è cambiato quando io avevo circa venticinque anni. Ricordo che a un certo punto ho iniziato a scrivere per «Vice» e ho avuto l’impressione che le donne fossero diventate interessanti. Non c’era ancora stato il MeToo, era il 2016, giusto un anno prima. Stavamo per.
Eh, lo stavamo per è interessante. È stato lo stesso anno in cui Francesca e le sue compagne hanno fondato InQuiete Festival. Quindi era lì, stava per succedere. 2016.
Nel libro tu dici di avere paura. Paura che non ci sia più posto per te nel momento in cui la concorrenza raddoppia a causa delle donne. Ho chiesto ai miei amici se per loro era lo stesso. Mi hanno risposto di sì, con qualche esitazione. Mi ha stupito perché spesso si dice che gli uomini hanno paura delle donne, ma a dirlo sono le donne stesse, cosa che mi è sempre sembrata arrogante. D’altro canto, quando ho posto la stessa domanda alle donne, cioè se avessero paura della concorrenza maschile o femminile sul lavoro, mi è stato risposto di no. Anzi, molte di loro mi hanno detto che non ci hanno mai pensato troppo perché sono in generale contente di lavorare e stupite dai buoni risultati e tendono a non vedersi sostituibili come individui da altri o altre.
Secondo me l’elemento che spiega la differenza di visioni è la gerarchia. Noi siamo stati talmente educati all’idea della gerarchia da sapere sempre chi è sotto di te e chi è sopra di te. Sicché tutto fa paura, perché tutto è in continuo movimento. La vita lavorativa non si armonizza con la propria identità, ma si concentra solo su dove stai piazzato te nella gerarchia. La gerarchia è un elemento chiave nella nostra percezione di lavoro e competizione. Per questo si è sostituibili, perché si occupa una casella in una piramide.
Poi c’è il tema della paura degli uomini davanti a questi argomenti. Ieri ho fatto un incontro al festival di Tlon a Piacenza, Conversazioni sul futuro. A un certo punto il compagno di una femminista mi ha chiesto: “Secondo te c’è un modo per far capire alle donne che alcuni uomini vogliono impegnarsi e non sono come gli altri?” C’è stata una pausa molto densa e poi ho risposto “No”. Lui aveva una faccia molto aperta, molto buona. Abbiamo sentito le risate delle donne. Non si possono convincere le donne della propria bontà. Dopo questi anni passati a discutere con le femministe mi pare che la questione sia l’attitudine, la disposizione. Forse la postura di cui parlavi all’inizio. Ma gli uomini non vogliono mai essere colti in castagna, pensano di doversi mostrare zelanti o dover spiegare fino allo sfinimento di essere “bravi”.
Tu scrivi che “l’autocoscienza di genere” esiste nel momento in cui si fa parte di una categoria marginalizzata. Sto semplificando naturalmente, ma diciamo che nel potere che gli uomini hanno detenuto così a lungo risiederebbe la ragione dell’assenza di autocoscienza. Se niente ti mette in discussione, non ti frammenti mai e non puoi riflettere su te stesso. E questo avviene perfino quando la tua vita non ti soddisfa poi così tanto, perché come scrivi tu neanche all’uomo andava di tornare a casa, avere una moglie che gli rompeva le palle, i figli che magari non voleva avere, essere l’unico a lavorare, per non parlare dell’andare a morire in guerra.
Qui hai toccato il punto fondamentale. Non potendo essere femminista, perché sono uomo, l’ho scritto dal nostro punto di vista, cercando di capire cosa la struttura patriarcale ci ha portato via. E io credo che il genere maschile sia oppresso dalla gerarchia. Basta pensare a Cristiano Ronaldo, che malgrado sia un giocatore stratosferico sembra sempre che debba convincerti di esserlo, perché ha avuto la sfortuna di essere della stessa generazione di Messi che ha vinto più palloni d’oro.
…
Carla Lonzi dice una cosa bellissima, ovvero che sia la religione sia l’arte come ambiti dell’espressione umana sono stati ridotti dalla cultura patriarcale (traduco a parole mie) a una serie di gerarchie, tassonomie, elenchi di cose da fare, classifiche. La religione e l’arte sono state due componenti fondamentali della mia biografia, e ha ragione Lonzi: lo spirito quando cerca l’arte e la religione scivola spesso in secondo piano perché queste due frequenze della vita sono usate a fini gerarchici. Chi è più buono, chi è più bravo.
Quindi il punto è che secondo me gli uomini sono oppressi da se stessi e anche dalle bugie in cui credono. Lonzi dice che la donna è oppressa dall’aver creduto al mito dell’uomo.
“Noi siamo stati talmente educati all’idea della gerarchia da sapere sempre chi è sotto di te e chi è sopra di te. Sicché tutto fa paura, perché tutto è in continuo movimento. La vita lavorativa non si armonizza con la propria identità, ma si concentra solo su dove stai piazzato te nella gerarchia”.
Sì, mia madre dice che gli uomini sono tutti Maghi di Oz, ombre enormi e potentissime proiettate da uomini minuscoli e privi di incanto dietro una tenda verde.
Sì. Ma a quel mito ci hanno creduto pure gli uomini! Quando ti accorgi che non vuoi partecipare a quella gerarchia ti rendi conto che magari tecnicamente è difficile, ma dal punto di vista spirituale lo è un po’ meno. Disinteressarsi alla gerarchia è il punto di partenza secondo me per capire anche i grandi vantaggi della vita femminista. C’è un’immagine che io cito sempre: una volta ho letto che nel Medioevo le vedove a volte costruivano delle case attaccate ai conventi per vivere con qualcuno, perché ovviamente a quel punto non valevano più niente in quanto vedove, e volevano appoggiarsi ai monaci. Io immagino la stessa cosa, case di uomini orfani della gerarchia che si appoggiano ai monasteri di femministe.
(Non so come suonerà questa cosa una volta trascritta).
Senti ma questa ferita gerarchica maschile secondo te è biologica o culturale?
La cosa che mi ha più scioccato leggendo Il secondo sesso di Simone de Beauvoir è che lei passa un sacco di tempo a spiegare la biologia della femmina del mammifero umano dicendo mamma mia che mammifero sfortunato ma poi rovescia tutto dicendo: “noi siamo esistenzialiste, noi crediamo che l’esistenza sia il compimento della natura umana e quindi trascendiamo la biologia”. Io ispirandomi a lei dico la stessa cosa sul maschio: mettiamo pure che certe cose vengano dalla natura; che il maschio alfa esista nel branco – comunque lo scopo della nostra vita è trascendere la biologia.
La stessa cosa che Simone de Beauvoir ha scoperto sulla biologia, io la penso di tutto ciò che di violento, di gerarchico possediamo in quanto uomini e che magari è insito nella nostra natura: si può trascendere.
Mio nonno diceva: “Quando sono nato io, avevo quattro serve: mia figlia, mia madre, mia moglie e la serva vera e propria, perché al tempo se avevi un po’ di soldi ne avevi una fissa. Ora che sono vecchio non ne ho manco una. Ho divorziato, mia figlia non c’è più, mia madre è morta e non ho più soldi per avere una serva fissa. La qualità della mia vita è peggiorata notevolmente”.
Bene, hai praticamente fatto un ritratto della crisi del maschio. Questo è un punto fondamentale anche per me perché la crisi del maschio ha due facce e ovviamente questa è la faccia ridicola – anche se è bene tenere presente che quando un popolo decade diventa violento. E poi l’altra faccia è invece quella che riguarda la gerarchia: l’uomo è oppresso dalla gerarchia che ha creato e quindi si deve sfogare su questo essere – la donna – che lui stesso ha dichiarato inferiore e che gli serve per tollerare la propria oppressione.
Ho dovuto molto sforzarmi per scrivere degnamente di queste cose perché suoniamo molto ridicoli – il vero problema è quello che ha detto tuo nonno. Io nel libro cerco di dare una dignità narrativa al fatto che se vado al festival femminista organizzato da mia moglie penso mia moglie mi sta levando il lavoro. Mia moglie è l’esercito di Riserva… Questo è il livello. La teoria della sostituzione etnica siete voi donne. Capito? E questi sono pensieri che dobbiamo reclamare, dobbiamo dire cosa sentiamo, anche se sono cose brutte, meschine, perché quella pancia spaventata non la usino solo i reazionari. Tutto l’umorismo di destra recente (Pepe the Frog…) è brutale perché dice che la realtà è più brutale di quanto non si dica a sinistra. Allora voglio essere io a dire che la realtà è brutale. La realtà è che se io sono stato abituato a vincere sempre su una donna e mi viene tolta questa vittoria sarò uno stronzo che sta male. E questo però ci porta a un fatto fondamentale: dobbiamo fare i conti con un soggetto politico che non ha più a disposizione una cosa che pensava che gli fosse dovuta.
Nel libro c’è un capitolo sull’adolescenza. Tu incredibilmente hai tenuto dei diari, cosa che ti invidio molto. Pagherei oro per aver tenuto dei diari in adolescenza. Dai tuoi emerge il ritratto di un ragazzo che sta vivendo secondo dei falsi desideri che gli sono stati forniti dalla famiglia, dalla società, dalla scuola, da tutto quello che ha intorno. Così non riesce neanche a individuare qual è il suo desiderio più autentico, soprattutto nei confronti delle donne. Questa cosa l’ho trovata interessante. Tu dici: “Questi sentimenti adolescenziali sono molto simili ai discorsi degli Incel”. E in effetti queste ragazze nel tuo diario sono sempre una proiezione della tua onnipotenza o della tua frustrazione, no? Però mi chiedo se questo vissuto non sia un prodotto dell’adolescenza più che del genere. Cioè che tanti adolescenti, maschi e femmine, abbiano questo tipo di impulsi, di pensieri. Se potessi leggere i miei pensieri dell’adolescenza credo troverei delle cose analoghe alle tue.
A volte infatti mi chiedo se non esistano due tipi di evoluzione per quanto riguarda le dinamiche di genere. Una filogenetica, cioè della specie umana, che ora si trova a fare i conti, in Occidente, con questo grande cambiamento. L’altra invece è ontogenetica, cioè si dispiega durante la vita dell’individuo. E mi pare che questa seconda faccia sì che fino ai 20, 25 anni le dinamiche tra generi siano più “primitive”, e quindi patriarcali. Poi all’improvviso cambia proprio il panorama valoriale, le femmine scoprono il femminismo, si scoprono brave a studiare e via dicendo. Mi chiedo se la prima dinamica, quella più classica rispetto ai ruoli di genere che vediamo in adolescenza sia influenzabile da una diversa educazione o cultura.
Nei libri di psicologia ho letto che una crescita psicologica sana consiste nel vivere anche un periodo in cui sei sottomesso all’ideologia degli adulti che hai intorno. Poi te ne distanzi. Essere completamente sganciati dall’influsso degli adulti è praticamente un disturbo psichico. Io però ho visto figli con disturbi simili ai miei trovarsi davanti genitori che si sono messi a studiare come capirli meglio, e quei disturbi sono passati. L’ho visto sia in bambini figli di donne molto interessate dall’educazione, sia in bambini figli di femministe, che quindi applicano una loro cornice educativa.
E ho visto nei maschi una varietà di espressione emotiva – in quelle famiglie – che mi fa pensare che il maschio becero tredicenne sia il prodotto del mancato ascolto da parte dei genitori della sua parte emotiva. Nel concreto, a un certo punto una mia cara amica ha iniziato a incoraggiare e ascoltare le emozioni del figlio, perché lo aveva visto un po’ sfasato. Il figlio è improvvisamente diventato una creatura molto più articolata, che non rimaneva intrappolato nelle solite due reazioni in croce.
Io vedo figli di femministe molto forastici, ma al tempo stesso con aspetti che noi da piccoli avremmo definito “da femmina”. Poi certo, magari sei parte di una famiglia tradizionale, borghese o meno, frequenti una scuola pubblica italiana, ci sta che tu sia incasinato e contraddittorio, però quella parte dell’espressione secondo me è fondamentale e infatti io penso di non aver avuto l’infanzia giusta per me. Ero troppo delicato per diventare un maschio etero che aspettava il primo bacio e imparava a giocare a pallone.
Se avessi espresso cos’ero da piccolo mi avrebbero massacrato. Agli scout dovevo sempre dominare le situazioni perché quando non lo facevo venivo subito trattato come un freak.
Mi sembra sia stata Ferrante a far notare che l’Arturo di Elsa Morante è in realtà una femmina, perché fino ai dodici anni gli uomini non sono ancora uomini. È una cosa che io mi sto chiedendo molto davanti a mio figlio maschio appena nato, perché penso che adesso lui è femmina, ma prima o poi diventerà maschio.
Ti dico solo che agli scout mi resi conto che dovevo cambiare il modo in cui mi sedevo, cioè con le gambe ripiegate da una parte, un po’ a sirena. Ai maschi viene detto di nascondere le proprie parti da sirena, e di imparare a dominare.
“Quando ti accorgi che non vuoi partecipare a quella gerarchia ti rendi conto che magari tecnicamente è difficile, ma dal punto di vista spirituale lo è un po’ meno. Disinteressarsi alla gerarchia è il punto di partenza secondo me per capire anche i grandi vantaggi della vita femminista”.
Mi sorprende sempre quanto gli uomini accettino di essere soli… Non so quanto tu segua TikTok, però mi fanno molto ridere i video delle fidanzate che danno al fidanzato le liste di cose da chiedere agli amici. Tipo se un amico di lui si lascia, le fidanzate gli danno una lista per sapere perché, chi ha tradito chi, chi ha detto cosa. A prima vista sembra solo un modo per fare pettegolezzo – un termine malvisto, associato al mondo femminile ma che, se ben fatto, è letteratura, è psicologia, è introspezione – ma che in realtà è un modo per conoscere meglio l’altro. Tutt’ora io ho amici maschi che non parlano tra di loro delle cose che gli capitano. E questo non può che generare malessere. I sentimenti violenti, brutali, negativi si esorcizzano anche rivelandoli a una persona fidata.
L’altro giorno a Milano Francesca Coin a una presentazione mi ha detto, “Sono contenta che esista questo libro perché almeno ho saputo un po’ cosa pensano gli uomini”. C’è un mistero dato dal fatto che neanche tra di noi (non io personalmente) ci chiediamo le cose importanti.
Io non frequento gruppi di soli uomini. L’ultimo è stato il calciotto, è finita molto male. C’è questo movimento molto più vario che sento nei gruppi di donne, che si costruisce anche sul parlare, sul gossip, sul raccontarsi i vari fatti, gli amanti, i litigi. Ovviamente ci sono uomini che mi piacciono molto. Certi baristi del quartiere, certi musicisti. Però se dovessi descrivere in maniera puntuale com’è sedersi a chiacchierare con un uomo… Abbiamo gli attacchi panico, ci vogliamo suicidare, andiamo dallo psichiatra, ma non possiamo sederci e dire “Ciao, mi sento così e cosà”. Il mio migliore amico, che invece è un uomo meraviglioso, una volta, mentre eravamo seduti a un tavolino mi fa: “Guarda quelle tre”. Erano delle donne sulla trentina. Una stava raccontando un fatto alle altre due, e lui mi disse: “Guarda l’attenzione con cui loro due stanno ascoltando quella che sta parlando, guarda come sono protese in avanti, hanno questi occhi tutti trasparenti, e stanno reagendo alle cose che sta dicendo l’altra. Guarda che bello”.
Che poi sono le cose che ho imparato da Francesca, mia moglie. Come si sta ad ascoltare qualcuno.
Devo dirti che un po’ non sopporto gli uomini che mi dicono “Sai, io preferisco molto di più stare con le femmine”. Me lo dicono tutti. Eh, grazie. Certo che preferite. Ma mi viene sempre detto come se fosse un vezzo personale, una confidenza. No, tutti gli uomini preferiscono stare con le donne. Evidentemente non ve lo dite a vicenda.
Eh, è difficile essere così rilassati tra uomini e quindi uno va di nascosto in altri gruppi, un po’ come quando i personaggi di Conrad andavano in Asia. Vai da dei popoli più gentili dove puoi essere un attimo più tranquillo.
Una cosa che mi rende molto felice è vedere, in tutte le chiacchierate che ho fatto da quando è uscito il libro, quanto ci sia bisogno di costruire una specie di database mancante.
Sì.
Noi ora stiamo parlando delle cose più ovvie dell’esistenza, come se fosse la prima volta.
Sì.
È molto piacevole parlare in modo così lineare. Perché al di là dello sdoganare i cerchi di autocoscienza tra uomini… Intanto forse avrebbe senso imparare ad andare al bar alle sette di sera e non avere una scopa in culo quando si parla.
Sì.
Perché ora sembra che sei performativo con le donne quando fai vedere che leggi bell hooks, ma sei altrettanto performativo con gli uomini quando ti vedi alle sette di sera dopo che hai lavorato e non parli di come stai.
Irene Graziosi
Irene Graziosi è scrittrice. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).
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