In Italia, ogni tre giorni una donna viene uccisa, spesso da un uomo che conosceva. Chiamarci fuori da questo problema è impossibile. Ma come si può essere parte della soluzione?
A me non può succedere, io non c’entro. Quando sentiamo parlare dell’ennesimo caso di violenza contro le donne, molto spesso chiudiamo la questione con queste parole, sentendola comunque lontana da noi. Ci aiuta, e in fondo ci autoassolve, pensare che si tratti di una storia eccezionale, di una situazione sfuggita ai servizi o inserita in un contesto particolare, fatto di degrado e omertà. O che riguardi – in fondo – una donna non abbastanza forte né consapevole di quel che vive, dunque predestinata a essere “vittima”. Se l’è andata a cercare: vecchia storia. E così pensiamo di poterci chiamare fuori, e di poter assistere, indignati ma innocenti, alla strage silenziosa.
E invece in ogni violenza contro una donna c’entriamo, in fondo, tutte e tutti, perché è insieme che creiamo il contesto culturale che quella violenza alimenta, come sostengo in Niente scuse. La violenza di genere riguarda anche te (Il Mulino, 2025). Non lo alimentiamo, forse, quando stiamo zitti di fronte a una battuta misogina al lavoro? Quando ci sembra normale che nostro figlio abbia uno scatto di rabbia se la sua ragazza non risponde ai messaggi, o se pretenda di vedere come è vestita prima che esca di casa? O che nostra figlia smetta di vedere le amiche perché al suo ragazzo “non fa piacere”? Non contribuiamo anche noi quando rinunciamo a far capire loro che la fiducia è una forma di rispetto della libertà dell’altro e che controllarsi a vicenda sui cellulari confonde l’amore con il possesso dell’altro? Non siamo anche noi parte di questa storia, quando ci sembra normale che nostro figlio alzi la voce contro nostra nuora perché la cena non era pronta: cosa ha fatto lei tutto il giorno! O quando urliamo contro nostra moglie, perché ci fa tante menate, noi che la sera vogliamo solo rilassarci, noi che vogliamo solo una famiglia normale. Alla fine sbottiamo e, sì, è vero, la rincorriamo per le stanze, è vero, a volte ci scappa di spintonarla, di farle paura, di prenderla per il collo. Ma non è violenza, no, no, noi con la violenza non c’entriamo, non siamo mica mostri, noi.
Ecco, questo è il terreno culturale nel quale la violenza di genere affonda quotidianamente le sue radici. Essere consapevoli del fatto che lo alimentiamo collettivamente non significa deresponsabilizzare il singolo, ma al contrario responsabilizzarci tutti, come cittadini e come comunità che deve dotarsi di un piano contro questa piaga. Il fatto che essa si riproduca culturalmente non significa, infatti, che non possiamo agirvi strutturalmente. Siamo responsabili come comunità quando riteniamo che a scuola non si debba parlare di educazione sessuale o affettiva, come se la conoscenza e la consapevolezza non fossero strumenti fondamentali di libertà e rispetto: lasciamo così che a riempire un vuoto di immaginazione e informazione, quando la sessualità deve ancora essere esperita, siano la pornografia e altre fonti non vagliate da controllo pubblico (come riporta un recente rapporto di Save the Children sui giovani italiani). Siamo responsabili come comunità quando tacciamo la violenza sui soggetti meno interessanti per i media, come le donne anziane o le donne trans; scordiamo che quando dei bulli agiscono violenza contro un ragazzo con un’espressione di sé non binaria, è sempre sulle attese di genere che essi fondano il loro agire. Quando parlandone sui giornali o sui social riduciamo la questione a una mascolinità tossica che pare nascere dal nulla e nel nulla torna una volta arrestato l’uomo violento. Quando non cerchiamo di contrastare l’assuefazione a un linguaggio di guerra e di legge del più forte che pervade il nostro quotidiano con la cultura e con una nuova prospettiva sul possibile. E quando votiamo partiti e amministratori che combattono il problema solo con politiche repressive e leggi penali a invarianza finanziaria, mentre tagliano sul welfare e sulle risorse dei centri antiviolenza, anziché adottare le misure che quella violenza possono contenere e cercare di prevenire.
Si tratta allora di assumerci la responsabilità collettiva della violenza: coi nostri comportamenti, con il nostro linguaggio, con i nostri modi di pensare. Ma è necessario un cambio di passo ulteriore, anche a livello istituzionale e di politiche. C’è chi l’ha fatto e dei risultati li ha ottenuti.
Prendiamo ad esempio l’educazione sessuale e affettiva, di cui si dibatte molto nel nostro paese. Una rassegna di trent’anni di studi sui programmi scolastici di educazione sessuale comprensiva (CSE, dall’inglese Comprehensive Sex Education) condotta da due studiose di salute pubblica, Eva Goldfarb e Lisa Lieberman, non lascia adito a dubbi quanto alla loro efficacia: non sono solo efficaci per gli esiti tradizionali (contraccezione, riduzione delle malattie sessualmente trasmissibili, posticipazione dei primi rapporti sessuali), ma hanno anche un impatto positivo su dimensioni più ampie. Ad esempio, in termini di atteggiamento più equo tra generi, miglior comprensione della diversità sessuale, relazioni sane, e – appunto – prevenzione della violenza da partner e della coercizione sessuale. In particolare, l’emersione di situazioni di abuso in famiglia e la prevenzione della violenza nelle relazioni di coppia tra giovani rappresenta uno dei risultati della CSE dimostrati in modo più robusto: miglioramento delle conoscenze e degli atteggiamenti riguardo alla violenza sessuale e alla violenza da partner, nonché maggiore propensione a denunciarla; diminuzione degli atti commessi e della vittimizzazione; miglioramento nelle intenzione e nei comportamento di chi vi assiste o ne è a conoscenza. Un altro aspetto rilevante è che la CSE ben progettata include competenze socio-emotive, media literacy, comunicazione, rispetto per le relazioni, autonomia, valori di uguaglianza di genere: tutti elementi che sono direttamente collegati ai fattori di protezione dalla violenza. Non è un caso che i documenti internazionali di policy sulla CSE la indichino come strumento chiave per la prevenzione della violenza basata sul genere e della coercizione nelle relazioni con un approccio evidence-based (es. UNESCO, nel 2018).
Più in generale, politiche generose di finanziamento e sostegno di una maggiore equità di genere mostrano nel tempo i loro frutti. Certamente, la comparazione a livello europeo non è semplice, perché in Europa i tassi di violenza da parte di un partner sono più bassi e presentano minori variazioni tra paesi rispetto a quanto riscontrato nel resto del mondo, come uno studio multicentrico dell’OMS ha mostrato. Ma ciò non toglie che molte differenze ci siano e che in buona parte risentano delle politiche adottate dai rispettivi governi. La convenzione di Istanbul obbliga i paesi ratificanti, tra cui il nostro, alle “4 P”: Prevenzione, Protezione, Punizione, ma anche Politiche integrate, coordinate e globali, che sappiano dare una risposta omnicomprensiva alla questione. Alcune ricerche hanno mostrato, ad esempio, che la prevalenza della violenza fisica e/o sessuale diminuisce nei Paesi in cui una legge o un’azione politica coinvolge più settori di finanziamento pubblico. Altre ancora hanno evidenziato il ruolo del welfare: la violenza la si combatte anche coi posti al nido, con la formazione per il lavoro, con un sistema sanitario di qualità e con servizi a bassa soglia. Perché non basta dire “denuncialo”: a volte è il padre dei tuoi figli e la tua unica fonte di reddito, e devi pensare al dopo.
“Politiche generose di finanziamento e sostegno di una maggiore equità di genere mostrano nel tempo i loro frutti. Certamente, la comparazione a livello europeo non è semplice, perché in Europa i tassi di violenza da parte di un partner sono più bassi e presentano minori variazioni tra paesi rispetto a quanto riscontrato nel resto del mondo”.
Alcuni citano il cosiddetto “paradosso nordico” per sostenere che la violenza è alta proprio in quei paesi in cui c’è maggiore parità di genere, come i paesi scandinavi e le repubbliche baltiche, e che dunque queste misure non servirebbero. Questa critica, in realtà, è stata messa in discussione da più fonti. Da una parte, si è detto inizialmente, essa si basa su un’angolazione parziale, che non tiene conto, ad esempio, del fatto che in quei paesi sono anche più alti i tassi di omicidio e suicidio; non considera che la presenza della violenza di genere in termini di denunce o di definizione della propria storia attuale o passata può essere la conseguenza non di una maggiore presenza del problema, ma di una maggiore consapevolezza della violenza e di una maggiore fiducia nel denunciarla, o della reazione degli uomini alle perdute prerogative. Dall’altra parte, secondo studi più recenti sui femminicidi (es. Eurostat) basati su dataset più omogenei provenienti da vari paesi e che tengono conto della relazione tra autore e vittima, questo primato negativo dei paesi dove le politiche hanno portato a una maggiore parità sparisce. Uno studio comparato, ad esempio, ha mostrato che in questi paesi a essere più alta è percezione di averla subita nella vita, mentre se si considera la violenza più vicina, quella vissuta nella relazione attuale, essa è più alta nei paesi con minori livelli di uguaglianza di genere, come Romania, Bulgaria, Slovacchia, Grecia.
Più utile allora guardare a cosa ha fatto uno stesso paese nel tempo. Il caso spagnolo è eloquente a riguardo. La Spagna è un paese vicino a noi, in termini socio-demografici, di regime di welfare sud-europeo e di tradizioni culturali. Eppure è ben diverso in termini di genere, come testimonia la distanza tra i nostri rispettivi posizionamenti nei ranking dell’EIGE (Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) e in quello ancora più noto del Global Gender Gap Report del World Economic Forum: nel 2025, su 148 paesi, l’Italia si piazza all’85° posto, mentre la Spagna al 12°. Ebbene, da più di vent’anni la Spagna si è dotata, tra le altre cose, di una legge organica di contrasto alla violenza di genere (Legge 1/2004) che ha previsto, sostanzialmente, misure di sensibilizzazione, di riorganizzazione degli obiettivi dei servizi sociali, di tutela dei diritti economici e lavorativi, l’istituzione di un sistema completo di protezione istituzionale, un rafforzamento del quadro penale, la specializzazione dei professionisti coinvolti, il coordinamento delle risorse e una maggiore partecipazione di organizzazioni e associazioni. Il governo ha poi previsto un maxi stanziamento di fondi per più di 500 milioni al Ministero delle pari opportunità, dedicando una buona quota solo alla voce violenza di genere. E si è dotato di un sistema di raccolta dati statistici ufficiali sui femminicidi tra i più completi che esistano. Un risultato misurabile di tutto questo vent’anni dopo? La diminuzione dei femminicidi di più del 30%, secondo i dati più aggiornati del Ministerio de Igualdad, il ministero delle pari opportunità spagnolo. Ma anche una maggiore domanda di protezione dalle forze di polizia, letta dagli istituti di ricerca (a cominciare dall’INE, Instituto Nacional de Estadística) come una maggiore propensione alla denuncia e un rafforzamento del sistema di tutela, con un avvicinamento dei casi senza rischio percepito a quelli che richiedono protezione della polizia, e un maggior riconoscimento delle situazioni a più alto rischio rispetto a un tempo. Una ricerca dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali, d’altra parte, ha mostrato che nel 2014 le donne spagnole erano tra le più informate sulle istituzioni di supporto alle donne vittime di violenza e che la percentuale di coloro che avevano sentito parlare di campagne contro la violenza di genere era una delle più alte d’Europa: 85% (l’Italia era invece ferma la 66%).
Insomma, inutile liquidare il problema della violenza contro le donne dicendo che tanto ci sarà sempre o che esso sia intrinseco alla natura maschile – il che suona, in fondo, come assolutorio, se non come alibi per misure insufficienti o prive di adeguato finanziamento. La violenza di genere non è un problema privato, né una somma di casi isolati: affonda certamente le sue radici nella biografia dei singoli, ma è anche un fenomeno forgiato da rapporti asimmetrici, diseguaglianze economiche e modelli culturali che continuano a definire chi ha diritto di comandare, controllare, parlare o tacere. Su questi rapporti, su queste disuguaglianze, su questi modelli possiamo e dobbiamo intervenire: la violenza di genere è una questione politica perché nasce e si riproduce nei luoghi che condividiamo – la famiglia, gli amici, la scuola, il lavoro, i media, le reti, le istituzioni. Dobbiamo impegnarci tutte e tutti, agendo culturalmente e strutturalmente per estirparla. Nessuno può chiamarsi fuori.