Valeria Verdolini
Nonostante gli sforzi delle corti internazionali, a Gaza si assiste a una sospensione dei principi umanitari. Se la politica è reticente e il diritto non sortisce effetto, che fare?
L’ultimo assedio della striscia di Gaza è iniziato più di 600 giorni fa, dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. In questi venti mesi esperti e studiosi si sono interrogati su quali siano le categorie più adeguate per interpretare tali violenze nella Striscia, che si sommano ai moltissimi episodi che si sono susseguiti in Cisgiordania. Recentemente, alcuni osservatori e relatori delle Nazioni Unite hanno sostenuto con sempre maggior forza che a Gaza si sta concretizzando un progetto di distruzione configurabile come genocidio. Il dibattito è aperto, ancora in corso, ma parte da lontano.
Nel 1933, Raphael Lemkin, giurista ebreo polacco, diede inizio alla sua battaglia per il riconoscimento giuridico di una protezione internazionale delle minoranze, avendo assistito sia allo sterminio degli armeni sia ai pogrom contro gli ebrei. Al centro della sua riflessione vi era il paradosso tra la punibilità dell’omicidio individuale e l’impunità per crimini di dimensioni ben più vaste, come massacri e stermini collettivi. Lemkin chiese, perciò, che tali crimini venissero ufficialmente riconosciuti a livello internazionale, ben consapevole che l’ufficializzazione normativa rappresentava solamente un mero esercizio di nominazione: “Genocide is a new word, but the evil it describes is old. It is as old as the history of mankind” (Lemkin, 2012).
Se per Lemkin sono le deportazioni e i massacri compiuti dall’Impero Ottomano ai danni del popolo armeno ad offrirsi come spunto ed esempio concreto per la definizione del reato di genocidio, il concetto si amplierà presto alle persecuzioni e agli stemini di massa perpetrati dalla Germania nazista nei confronti di ebrei, rom, sinti, disabili, omosessuali; nefandezze che, per scala e lucida efferattezza, finiranno per diventare esemplificative dell’idea di genocidio.
Il crimine di genocidio viene riconosciuto ufficialmente solo nel 1946, sull’onda dell’emotività prodotta dalla Shoah e dagli stermini degli altri gruppi sterminati dai nazisti perché ritenuti inferiori; l’Assemblea generale dell’Onu lo riconobbe con la Risoluzione n°96, e fu ratificato nella Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (CPPCG), or The Genocide Convention del 1948, poi entrata in vigore come Convenzione contro il Genocidio del 1951.
Il diritto era allora chiamato a segnare una soglia morale, definendo l’orrore e confinandolo entro i limiti di un crimine giuridicamente riconoscibile. La stretta coincidenza tra esperienze storiche e loro codificazione giuridica ha però ancorato il concetto di genocidio a una specifica memoria condivisa. Come ha osservato il sociologo Jeffrey Alexander in Trauma, A Social Theory (2012), parlare di genocidio oggi significa confrontarsi con un trauma culturale che richiama l’eredità della Shoah e di altre persecuzioni, così come la razionalizzazione tecnica dello sterminio su scala industriale. Ad oggi, solo due genocidi sono stati pienamente riconosciuti e condannati da corti internazionali: Ruanda e Srebrenica. Altri casi hanno avuto riconoscimenti politici, morali o accademici, ma non (ancora) giuridici.
Non si tratta solo di individuare le responsabilità degli esecutori materiali delle violenze, ma anche di chi ne è mandante o ispiratore. Il filosofo Danilo Zolo ha sottolineato come la Convenzione sul Genocidio abbia istituito un sistema repressivo particolarmente ambizioso: ogni Stato firmatario ha l’obbligo di giudicare i responsabili o di estradarli. Tuttavia, sul piano processuale, permangono ostacoli significativi, in particolare nella dimostrazione non solo dell’intento generico di compiere l’atto, ma del dolo specifico di distruggere un gruppo in quanto tale. La definizione giuridica di genocidio implica dunque sia un elemento materiale – la strage – sia uno intenzionale e politico: la volontà di annientamento.
Nel marzo 2024, la relatrice ONU Francesca Albanese ha presentato il rapporto Anatomy of a Genocide, sostenendo che Israele avrebbe commesso a Gaza almeno tre degli atti previsti dalla Convenzione sul Genocidio. L’intento si coglierebbe nella sistematicità degli attacchi e nell’uso reiterato di un linguaggio disumanizzante.
Nel maggio 2024, il procuratore della Corte Penale Internazionale, Karim Khan, ha richiesto mandati d’arresto per alti funzionari israeliani e di Hamas. Le reazioni sono state immediate: rifiuto di cooperazione da parte di Israele, condanna da Washington, ambiguità da parte di molti Stati europei.
Secondo il Ministero della Salute a Gaza, al 27 maggio 2025, i morti sono almeno 54.056. L’UNICEF stima che oltre 50.000 bambini siano stati uccisi o mutilati dall’ottobre 2023. Più di 632.700 persone sono state nuovamente sfollate nelle ultime settimane, costrette a spostarsi verso aree sempre più affollate e inospitali. L’81% della Striscia è ora zona militarizzata o sottoposta a ordini di evacuazione. Lo spazio vitale si restringe quotidianamente. Dal 7 ottobre 2023, Gaza è diventata il laboratorio estremo dell’ingiustizia globale.
Anche Amnesty International, nel rapporto You Feel Like You are Subhuman, ha documentato l’uso sistematico della fame, la distruzione deliberata delle infrastrutture civili e l’ostacolo agli aiuti umanitari. Pur in assenza di un riconoscimento giuridico formale da parte di una corte internazionale, il quadro delineato – tra dichiarazioni, pratiche e conseguenze – rientra chiaramente nei crimini contro l’umanità.
Se le prove si accumulano, la giustizia resta però bloccata.
Perché?
Un punto cruciale è la responsabilità: chi sono gli autori del genocidio e quanto ne sono consapevoli?
Non sono solo gli esecutori materiali ad avere responsabilità, ma anche i mandanti e chi contribuisce a creare le condizioni propizie affinché il massacro possa verificarsi, come coloro che vendono armi o che ricevono guadagni diretti dai crimini.
La giurisprudenza internazionale, a partire dal caso Nahimana del Tribunale per il Ruanda, ha già riconosciuto che l’incitamento pubblico e diretto al genocidio costituisce un crimine autonomo, anche in assenza di atti immediati.
Emblematica, in questo senso, è la retorica israeliana recente: dal piano “Gideon’s Chariots” annunciato da Netanyahu nel maggio 2025, che prevede l’occupazione stabile di Gaza e la creazione di aree “sterili da Hamas”, fino alle dichiarazioni apertamente disumanizzanti di esponenti del governo tra ottobre e novembre 2023, ma anticipati da vari precedenti degli attuali esponenti governativi. Si configura così un discorso ufficiale che articola un progetto coerente di annientamento e ricollocazione forzata, sostenuto da un lessico che legittima la violenza come necessaria e divina.
Di fronte a tutto questo, le reazioni della comunità internazionale appaiono deboli e disarticolate, incapaci di affrontare la gravità degli atti e del linguaggio che li accompagna.
A Gaza la violenza non è solo raccontata con le parole, ma anche quotidianamente e abbondantemente visibile, al punto che siamo sommersi da immagini che documentano quello che accade.
L’eccesso di immagini non produce consapevolezza, ma assuefazione. L’orrore è trasparente ma reso inintelligibile: i morti diventano “danni collaterali”, i bambini mutilati “prezzi necessari”. Le parole di Smotrich e Ben Gvir, per quanto apertamente genocidarie, non richiedono censura: basta che il senso venga oscurato, disinnescato.
Impotenti, di fronte a queste immagini resta solo la vergogna.
La vergogna segnala che in una società esiste ancora un confine tra ciò che si può dire e ciò che deve restare indicibile, tra l’agibile e l’inammissibile. Cicerone lo riassumeva così: perché è osceno dire ciò che non è vergognoso fare, purché in disparte dagli sguardi altrui. Definiva una soglia dell’osceno, che da allora ad oggi è diventata il prodotto di un lungo e faticoso processo di civilizzazione in cui le pulsioni si sono trasformate in autocontrollo, e l’osceno è diventato -teoricamente- indicibile.
La vergogna è una tecnologia sociale: inibisce, interiorizza il limite, costruisce una soggettività regolata. Quando però questo meccanismo si incrina, resta la dis-grazia: la perdita della misura, della grazia, dell’ordine simbolico che distingue l’umano dal disumano. In inglese, disgrace indica proprio il crollo della dignità pubblica, la frattura della maschera sociale, la dissoluzione del patto di responsabilità.
Ma cosa accade quando la dis-grazia non genera più ritiro o indignazione, e anzi viene rivendicata come segno di forza?
È attorno a questa rottura che ruota il concetto di Disgrace nei lavori di J.M. Coetzee, acuto indagatore della vergogna individuale e istituzionale nell’esperienza sudafricana. Più che nell’omonimo romanzo, è in Aspettando i barbari che il sentimento narrato dallo scrittore si amplifica: “Quando qualcuno soffre ingiustamente, – mi dicevo, – è destino di coloro che assistono alla sua sofferenza provarne vergogna”. E ancora: “Tutte le creature vengono al mondo con dentro la memoria della giustizia… Ma viviamo in un mondo di leggi, un mondo di mediocrità. Non ci possiamo fare niente. Siamo creature perdute. Tutto quello che possiamo fare è sostenere la legge, tutti, non permettere che il ricordo della giustizia sbiadisca”.
In questa torsione si innesta il nodo giuridico: la dis-grazia segna la perdita di efficacia simbolica e politica del diritto. Non c’è più grazia nel gesto normativo, perché manca il riconoscimento dell’altro come soggetto di diritto, e l’esigibilità della sanzione per chi lo viola. Il diritto parla, ma non limita. Legifera, ma non protegge. E così, nella “fine della vergogna”, la responsabilità statale non è più assunzione di colpa ma schermatura estetico-formale, gesto retorico senza effetto. La norma si fa liturgia, evocazione, l’umano è solo una parte della popolazione, il “disumano” si può lasciar morire.
Lo ha spiegato bene Simone Weil nel 1940 nel suo straordinario L’Iliade o il poema della forza, quando afferma che la guerra è, innanzitutto, un’esperienza di disumanizzazione. La forza, dice Weil, è ciò che trasforma l’uomo in una cosa, sia esso colui che la esercita o colui che la subisce. Nessuno è immune: il guerriero che uccide può a sua volta essere annientato, non solo fisicamente, ma spiritualmente. In questo senso, Weil ci invita a leggere l’Iliade non come un poema eroico, ma come una testimonianza cruda e realista della degradazione umana. Non c’è gloria nella guerra, solo la constatazione della fragilità e della precarietà dell’umano dinanzi alla forza bruta. Fino a quanto si può accettare la condizione di dis-grazia attuale?
Guardare Gaza, nominare Gaza – a fronte dei processi di invisibilizzazione mediatica – significa, allora, compiere un atto di disobbedienza epistemica. In un contesto dove il visibile è neutralizzato, il semplice atto di vedere e riconoscere diventa testimonianza – e assunzione di responsabilità.
Ma vedere, ora, non basta più. Sebbene tutte e tutti abbiano visto, le assunzioni di responsabilità politica per la situazione a Gaza sono state rare e tardive, e non sempre in grado di soddisfare gli obblighi internazionali di prevenzione, anzi. Solo alla vigilia del 2 giugno il presidente Mattarella ha condannato il mancato rispetto del diritto umanitario, mentre Macron ha definito il riconoscimento dello Stato palestinese un’urgenza morale e politica. La reazione israeliana è stata immediata e ostile. In Europa le risposte restano caute: la Germania ha riconosciuto una soglia oltrepassata ma ha escluso l’embargo militare; diciassette Paesi UE hanno chiesto inutilmente la revisione degli accordi con Israele; il Regno Unito ha adottato sanzioni limitate, senza intaccare la cooperazione strategica. Alcune regioni italiane hanno sospeso i rapporti economici con Israele. Tuttavia, il diritto internazionale, pur prevedendo meccanismi di responsabilità statale, appare inefficace: incapace di prevenire o fermare la violenza, e ridotto a una funzione simbolica o retrospettiva, come già accaduto in altri contesti di crisi.
Qui il diritto non precede l’azione, non la frena, né la giudica in tempo utile: arriva dopo, come gesto che pretende di nominare il male mentre lo lascia accadere. È in questo scarto che si colloca l’erosione dell’autorevolezza del diritto internazionale: il suo parlare senza conseguenze, la sua invocazione rituale, la sua estetica del lutto priva di potere effettivo, l’umanità ingannevole.
Il diritto, insomma, funziona solo dentro il confine dell’umano così come viene costruito spazialmente e culturalmente. Oltre quella soglia, l’umanità è disattivata: la morte non è omicidio, la fame non è crimine, l’assedio non è guerra, ma è solo una delle interpretazioni possibili. In questo senso, la responsabilità statale per crimini contro l’umanità viene evocata non per attivare giustizia, ma per preservare l’ordine discorsivo in cui la stessa giustizia può essere evocata nonostante tutto.
“Un giorno tutti diranno di essere stati contro”. Con queste parole lo scrittore Omar El Akkad smaschera in anticipo il meccanismo più insidioso della memoria collettiva: la dissociazione retroattiva, la neutralizzazione etica a posteriori di chi non vorrà essere, poi, connivente. Non è solo un monito, ma la diagnosi di un riflesso storico e psicologico costante. Il genocidio non accade malgrado il mondo, ma dentro il mondo: in una rete di giustificazioni, rimozioni e “buone intenzioni” che El Akkad decostruisce senza indulgenza. Non è la crudeltà di pochi, ma l’adattamento di molti.
Le atrocità più indicibili possono essere perdonate, perché – scrive El Akkad – “cos’altro ci resta, se non voltare pagina per sopravvivere?” Ma intanto, restano “quelli che non dimenticano”: quelli che continuano a sentire le urla mentre si celebrano i diritti umani; che vedono “i brividi d’oca sull’orizzonte”, ricordando le fosse comuni; che non smettono di vedere le ossa affiorare.
Questa è la soglia decisiva: il diritto può nominare il crimine, ma solo l’agire politico può impedirne il ritorno. Quando tutto sarà finito, molti si autoassolveranno per aver “fatto la cosa giusta” mentre distoglievano lo sguardo. Verrà il tempo del cordoglio rituale, dell’indignazione postuma, delle scuse costruite. Ma la domanda bruciante è adesso: chi sta guardando? Chi sceglie di restare umano, mentre accade? El Akkad spezza la distanza tra evento e soggetto: non è che un giorno ci sarà qualcosa di orribile – sta già accadendo, e ti interroga ora. Ogni volta che scegli il silenzio, ti abitui a non sentire. “Ogni volta che sentiranno parlare di diritti umani e uguaglianza”, scrive, “sentiranno solo urla.”
“Guardare Gaza, nominare Gaza – a fronte dei processi di invisibilizzazione mediatica – significa, allora, compiere un atto di disobbedienza epistemica. In un contesto dove il visibile è neutralizzato, il semplice atto di vedere e riconoscere diventa testimonianza – e assunzione di responsabilità”.
A oltre 160 anni dalla sua nascita, e a 80 dalla sua più concreta applicazione, constatiamo come il diritto umanitario rischi di restare lettera morta. Nonostante gli sforzi, come il recente appello di giuristi e docenti di diritto internazionale che denunciano l’inazione della comunità internazionale di fronte alla crisi in corso, le violazioni continuano, e le dissociazioni latitano. Il documento condanna il comportamento del governo italiano e delle istituzioni europee, accusati di porre Israele al di sopra della legalità internazionale. Eppure – si legge – i giuristi e la società civile palestinese continuano a riporre fiducia nel diritto. Raji Sourani, direttore del Palestinian Centre for Human Rights di Gaza, ha affermato: “Gaza non sarà la tomba del diritto internazionale. Il popolo palestinese non rinuncerà alla dignità, ai diritti, alla giustizia.”
Una delle ragioni ineluttabili è che non abbiamo, in fondo, molti altri strumenti a parte quelli giuridici. Non bastano perché non sono supportati da una reale volontà politica, che dipende, in gran parte, da noi. Per questo possiamo solo riempirli di senso, attraverso le pratiche e la costante domanda di giustizia.
La psichiatra e psicoterapeuta Samah Jabr ha affermato però che uno dei grandi equivoci è immaginare l’umanità come un’unità. “L’umanità è dialettica”, ha detto Jabr. Non è fatta solo di luce, ma anche di tenebra. E ci piacerebbe credere che il male sia il gesto isolato di una minoranza patologica. Ma il presente ci mostra che il male è sistemico, organizzato, funzionale a un ordine mondiale difficile da scardinare. E tuttavia, ha aggiunto, esiste un altro potere: meno visibile, ma non meno reale. Il potere di chi si oppone. Non cambia il mondo in un giorno, ma apre brecce. Ed è in quelle brecce che sopravvive l’umano.
Perciò sono i moti d’animo a restituire un valore politico a una tecnica – quella normativa – che si aziona solo se accompagnata dall’intenzione.
Il “noi” può allora riemergere solo dall’azione. Non un “noi” morale o retorico, ma un “noi” fatto di gesti, parole, relazioni, corpi.
Non basta più indignarsi, non è più il tempo per commuoversi ed essere per questo assolti: è tempo di abitare la vergogna, non come destino ineluttabile, ma come spazio di responsabilità e di scelta. E da lì – forse – muovere.
Valeria Verdolini
Valeria Verdolini è ricercatrice universitaria, sociologa, attivista e presidente di “Antigone Lombardia”.
newsletter
Le vite degli altri
Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.
La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.
Contenuti correlati
© Lucy 2025
art direction undesign
web design & development cosmo
sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga
00:00
00:00