Leonardo Bianchi
Violenze, dileggiamenti e potenziali crimini di guerra vengono condivisi, ogni giorno, da account legati all’esercito israeliano. Contenuti pubblicati con leggerezza, nella certezza di rimanere impuniti, forti anche della generale radicalizzazione a destra del governo di Netanyahu.
Verso la fine di maggio del 2024, sui social network è molto circolata una foto in cui si vede un soldato israeliano di fronte a dei libri in fiamme tra gli scaffali della biblioteca dell’università Al-Aqsa a Gaza City, parzialmente distrutta da un bombardamento israeliano qualche mese prima, a gennaio.
È una foto sconvolgente; per questo in molti hanno ventilato l’ipotesi che fosse contraffatta. Varie testate, tra cui «Snopes» e «France24», hanno però confermato l’autenticità dello scatto. D’altra parte, l’immagine era stata pubblicata lo stesso soldato sul proprio profilo Instagram, in un carosello di fotografie accompagnato da questa didascalia: “Qualche momento della gita annuale 😉”.
È autentico anche un altro contenuto, emerso all’incirca nello stesso periodo, e di cui si è a sua volta parlato molto: una brevissima clip che mostra un altro soldato israeliano reggere sorridente quella che sembra essere una copia del Corano, per poi gettarla tra le fiamme all’interno di una moschea a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.
Dopo la diffusione della foto e del video, l’esercito israeliano (IDF) ha annunciato di aver avviato un’inchiesta disciplinare nei confronti dei soldati perché questi “gravi episodi” sono “incompatibili con i valori dell’IDF e i suoi protocolli”.
Tuttavia, post del genere non sono casi isolati. Al contrario: dall’inizio dell’“assedio totale” della Striscia di Gaza, lanciato in risposta all’attacco di Hamas e altri gruppi armati palestinesi del 7 ottobre 2023, i militari israeliani hanno pubblicato, documentato e propagandato con molta leggerezza, sui social, atti di violenza e sopraffazione – nonché potenziali crimini di guerra – che stavano commettendo.
Una prolifica produzione, che in questi mesi è stata catalogata in maniera certosina da molti giornalisti e ricercatori. Tra i più attivi c’è il giornalista palestinese Younis Tirawi, che ricava il materiale dai profili privati e pubblici dei soldati – soprattutto su Instagram e TikTok – e lo ripubblica su X.
Questo macabro genere social è talmente vasto che è addirittura possibile, ormai, isolare alcuni specifici sotto-generi. Uno di questi è il trattamento inumano e degradante dei prigionieri. Su Instagram c’è un profilo – gestito da alcuni soldati israelo-americani – chiamato “Hamas Hunting Club” in cui compaiono decine di foto di uomini palestinesi in manette, bendati, ammassati per terra, seminudi, trascinati da soldati che fanno il gesto della vittoria, o avvolti nella bandiera israeliana. Dalle immagini – e dalle relative didascalie – è impossibile sapere se si tratti di civili o di miliziani del gruppo armato. Nell’ottica dei soldati che pubblicano quei contenuti, la distinzione sembra essere irrilevante: sono comunque considerati trofei di caccia.
Un altro filone piuttosto gettonato è quello dell’esibizione degli oggetti rubati all’interno delle abitazioni abbandonate dai palestinesi. In molte immagini, i soldati indossano sopra le loro divise reggiseni, indumenti intimi e vestiti femminili. Ravina Shamdasani, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha definito questo comportamento “umiliante per le donne palestinesi e per le donne in generale”.
In un video pubblicato su TikTok si vede un soldato suonare una chitarra in mezzo alle rovine di Gaza City. Lo strumento musicale non è suo: è del cantante palestinese Hamada Nasrallah. “Conosco molto bene quella chitarra, perché non ce ne sono molte a Gaza”, ha scritto Nasrallah sul suo profilo Instagram nel novembre del 2023. “Me l’ha regalato mio padre 15 anni fa. Mio padre è morto poco dopo l’attacco a Gaza del 2014, e ora sono venuti a prendersi l’ultima cosa che avevo di lui”.
“Un filone piuttosto gettonato è quello dell’esibizione degli oggetti rubati all’interno delle abitazioni abbandonate dai palestinesi. In molte immagini, i soldati indossano sopra le loro divise reggiseni, indumenti intimi e vestiti femminili”.
Neanche i giocattoli sono risparmiati dalle ruberie. In diverse clip compaiono soldati pedalare su biciclette per bambini; saltellare su cavalli a dondolo; e regalare ai commilitoni delle piccole pianole. Il fenomeno del saccheggio, stando a un’inchiesta delle riviste israeliane «+972» e «Local Call», è talmente capillare da essere ormai tollerato dagli ufficiali e dalle gerarchie militari. Come ha dichiarato un soldato al giornalista Oren Ziv, “tutti sanno che la gente ruba le cose. È considerato divertente. Non avviene in segreto. I comandanti ne sono conoscenza, chiunque lo sa, a nessuno frega nulla”.
Diversi video immortalano poi soldati israeliani mentre vandalizzano deliberatamente negozi, utensili da cucina o l’arredo. In un caso – originariamente pubblicato in una storia su Instagram – un militare del 890esimo battaglione aviotrasportato lancia delle tazzine per terra all’esterno di un’abitazione bombardata a Khan Yunis. Poi, rivolgendosi al cellulare che lo riprende, dice sprezzantemente: “E adesso denunciatemi all’Aia, bastardi!”. Il riferimento è alla città dei Paesi Bassi in cui hanno sede la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale.
Spesso i contenuti sono accompagnati da testi violenti e razzisti, se non apertamente genocidari. Qualche esempio: un sergente maggiore ha scritto su Facebook che il loro “obiettivo è semplice: trasformare Gaza in una spianata con delle bellissime spiagge. Mi interessa qualcosa dei suoi abitanti? Lo dico subito: NO”. Il comandante di una brigata di fanteria del comando settentrionale ha invocato, sempre su Facebook, una “seconda o terza Nakba” – termine arabo che indica “l’esodo forzato” di centinaia di migliaia di palestinesi tra il 1947 e il 1948. In un video che mostra edifici in fiamme nel quartiere Shuja’iyya di Gaza City – pubblicato su Instagram da soldati della brigata Givati – si sente la voce maschile di un militare dire che “li ridurremo in polvere”. E ancora: in vari post i soldati auspicano l’espulsione di massa dei palestinesi, reggono provocatoriamente degli striscioni in cui pubblicizzano la prossima apertura di attività commerciali israeliane a Gaza, e chiedono il ripristino delle colonie all’interno della Striscia di Gaza. Questa idea, in particolare, è sostenuta anche da diversi deputati ed esponenti del governo Netanyahu – su tutti il Ministro della pubblica sicurezza Itamar Ben-Gvir, di Potere Ebraico, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, del Partito Sionista Religioso, e il ministro delle comunicazioni Shlomo Karhi, del Likud.
Abbondano poi momenti “goliardici” o dileggianti: in un video si vedono alcuni soldati giocare a pallone dentro un palazzo semi-demolito; in un altro, un militare fa finta di tagliare i capelli a un commilitone all’interno del negozio di un barbiere danneggiato dai bombardamenti. In una foto, un soldato rivolge il dito medio verso un edificio in fiamme che ospitava una scuola gestita dall’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (dall’UNRWA); e in un’altra foto ancora dei soldati sbandierano mazzette di soldi, scimmiottando l’iconografia dei rapper.
Gli stessi soldati che pubblicano questi contenuti non sembrano ritenere problematiche condotte di questo tipo, né dal punto di vista etico, né tanto meno da quello legale – nonostante alcuni di questi post siano stati citati nella denuncia per genocidio presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia. Nel febbraio del 2024 è diventato virale un video in cui il riservista LeRoi Taljaard, che ha la doppia cittadinanza israeliano-sudafricana, celebra, scherzando, il bombardamento di un edificio a Khan Yunis. Intervistato dall’emittente statunitense ABC News, il 24enne si è giustificato dicendo che “io e miei amici eravamo in un momento molto difficile, e lo humour nero è stato il nostro modo di affrontarlo”. In risposta, il governo sudafricano ha minacciato di indagare e arrestare i cittadini israeliano-sudafricani che svolgono il servizio militare nell’IDF e si macchiano di potenziali violazioni del diritto internazionale umanitario. Lo stesso ha fatto il governo francese, dopo che alcuni soldati israeliano-francesi erano stati ripresi a torturare e umiliare dei prigionieri palestinesi. Dal canto suo, Taljaard ha detto di non temere ripercussioni di sorta: l’esercito israeliano non ha mai preso provvedimenti nei suoi confronti; non l’ha mai nemmeno contattato.
Eppure, tutti questi post sarebbero teoricamente contrari al codice di condotta delle forze armate di Israele, secondo il quale i soldati possono incorrere in provvedimenti disciplinari o penali se pubblicano contenuti che “deviano dai valori dell’IDF”, ledono “la dignità umana”, danneggiano “l’immagine e la percezione pubblica” dell’esercito e “compromettono la sicurezza nazionale”. L’ha recentemente ribadito anche il portavoce dell’IDF Daniel Hagari: comportamenti di questo genere “saranno sanzionati severamente”, perché “questo è un esercito del popolo” che “segue i principi fondamentali e il diritto internazionale”.
Nella pratica, l’incredibile disinvoltura con cui i soldati postano tutto questo sembra testimoniare una sistematicità ampiamente normalizzata. In un articolo per «Zeteo», il nuovo progetto del giornalista britannico-statunitense Mehdi Hasan, Tirawi ha commentato, perentorio, che le foto e i video dei militari “non offrono soltanto uno scorcio della guerra, ma forniscono una visione d’insieme molto più ampia: tolgono infatti il velo da quello che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito ‘l’esercito più morale del mondo’”.
Non è la prima volta che l’esercito israeliano si trova a dover gestire accuse di questo tipo. Nel 2010, la riservista israeliana Eden Abergil aveva postato sul proprio profilo Facebook alcuni selfie che la ritraevano, in posa dileggiante, davanti a tre prigionieri palestinesi bendati e ammanettati nella Striscia di Gaza. La foto venne scoperta da blogger israeliani di sinistra e innescò un acceso dibattito sia fuori che dentro Israele. Come ha sottolineato l’antropologa Rebecca Stein, autrice dei saggi Digital Militarism e Screen Shots, si trattava “del primo caso virale di un militare israeliano che usava i social media per auto-documentare la violenza [esercitata contro i palestinesi] nei territori occupati”.
La stessa l’IDF parlò, all’epoca, di “comportamento vergognoso”, e promise di prendere provvedimenti contro Abergil (che alla fine non furono presi). Scandali del genere, dopotutto, rischiavano di rendere vani gli sforzi dell’esercito israeliano di migliorare la propria immagine sui social network. Intorno a quel periodo, infatti, all’interno dell’IDF venne istituita l’unità speciale dei “nuovi media”, nella convinzione che “i computer e le tastiere sono le armi, mentre [i social] sono i campi di battaglia” – come disse nel 2011 l’allora responsabile, il colonnello Sasha Dratwa.
“Abbondano i momenti ‘goliardici’ o dileggianti: in un video si vedono alcuni soldati giocare a pallone dentro un palazzo semi-demolito; in un altro, un militare fa finta di tagliare i capelli a un commilitone all’interno del negozio di un barbiere danneggiato dai bombardamenti”.
Uno dei principali obiettivi della strategia comunicativa dell’IDF, annota la ricercatrice Noura Tafeche in un articolo sulla rivista «Futuress», è sempre stato quello di “addolcire la brutale occupazione militare” dei territori palestinesi in vari modi. Tra questi l’utilizzo di meme e trend social, specialmente su TikTok; il richiamo alla cultura pop e al cinema hollywoodiano (ad esempio i film della Marvel); e soprattutto l’umanizzazione dei propri ranghi, che passa anche attraverso l’iper-sessualizzazione delle soldate.
Negli ultimi anni sono emerse così alcune “influencer militari”, come l’ex agente dei corpi di polizia militare Yael Deri e la riservista Natalia Fadeev. Quest’ultima ha fatto anche parte delle Alpha Gun Angels, un’agenzia di soldate-modelle fondata nel 2018 dalla veterana delle IDF Orin Julie che punta a trasformare il “militarismo israeliano” in qualcosa di “ripulito, sexy e vendibile”.
Tuttavia, è proprio osservando il profilo di Fadeev che si nota un netto cambiamento di tono dopo l’attacco del 7 ottobre. In un video postato a novembre del 2023 su TikTok la si vede in divisa, mentre balla sulle note di una canzone con questa scritta in sovrimpressione: “trasformeremo Hamas in hummus”. Lo scorso marzo, Fadeev ha postato un reel su Instagram accompagnato dalla seguente didascalia: “rispettiamo [i palestinesi] durante il Ramadan così come loro il 7 ottobre hanno rispettato le nostre festività”. E in effetti, l’esercito israeliano ha continuato a bombardare la Striscia anche durante il periodo sacro per i musulmani. I contenuti sessualmente ammiccanti delle influencer militari israeliane oggi servono a proiettare l’immagine di un esercito spietato e implacabile, disposto a tutto pur di schiacciare il proprio nemico.
Come ha scoperto un’inchiesta del quotidiano isrealiano «Haaretz», l’unità dell’esercito dedicata alla “guerra psicologica” ha creato e gestito un canale Telegram chiamato “Senza censura – 72 vergini”, inaugurato il 9 ottobre (attualmente non più attivo). Il canale pubblicava contenuti espliciti: video e immagini di corpi straziati di miliziani di Hamas o di civili, con tanto di didascalie razziste in cui i palestinesi erano definiti “scarafaggi” o “ratti”. Altri post invitano gli iscritti a “bruciare le madri” dei palestinesi, oppure mostravano soldati intenti a immergere i proiettili nel grasso di maiale – carne impura per i musulmani – prima di usarli in combattimento.
L’operazione non era formalmente autorizzata, e anche in questo caso l’IDF ha annunciato di aver preso provvedimenti contro i responsabili. Il fatto che un’operazione del genere sia stata pensata e realizzata all’interno dell’IDF restituisce però la misura della radicalizzazione della propaganda bellica israeliana, che a sua volta rispecchia la generale radicalizzazione a destra di molta politica israeliana avvenuta negli ultimi decenni. Viste le dichiarazioni dei ministri del governo Netanyahu, che ogni giorno puntano a disumanizzare il nemico, non sorprende insomma che i soldati sul campo si comportino di conseguenza, pubblicando i propri crimini sui social nella pressoché totale certezza di rimanere impuniti.
Leonardo Bianchi
Leonardo Bianchi è giornalista. È stato news editor di «Vice» . Il suo ultimo libro è Complotti! (minimum fax, 2021).
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