Nicola Lagioia
24 Novembre 2023
Il femminicidio di Giulia Cecchettin solleva rabbia, indignazione e pone una domanda sempre più urgente: che fare? Quale tipo di lavoro intraprendere, quali strategie adottare affinché tragedie come questa non si ripetano?
1. Antigone a Vigonovo
Il femminicidio di Giulia Cecchettin sta dando origine a uno dei dibattiti più intensi, importanti e rivelatori tra quelli che si sono tenuti ultimamente nel nostro paese su questo tema. Le manifestazioni di sabato 25 novembre per l’eliminazione della violenza contro le donne porteranno la discussione in uno dei luoghi chiave per l’esperienza democratica: le piazze. Come mai, tra tanti femminicidi, proprio questo ha avuto un effetto così esplosivo nel dibattito pubblico? Paolo Giordano, sul «Corriere della Sera», ha individuato tra le diverse ragioni il contesto piccolo borghese in cui si è svolto il fatto, la “piccola borghesia” a cui tutti o quasi apparteniamo, l’impossibilità di porre una distanza sociale tra noi e i protagonisti della tragedia.
A questo si è aggiunto il ruolo chiave di Elena Cecchettin, la sorella della vittima, la quale non si è chiusa nel contegnoso silenzio domestico che i suoi futuri detrattori le auguravano, ma ha parlato, trasformando il proprio dolore in un fatto politico.
Le trasmissioni del pomeriggio – non di rado i telegiornali, compresi quelli del servizio pubblico – sognano l’Italia del maestro Manzi. Per i fatti di cronaca nera sono tarate sulla confusione mentale, la bassa scolarizzazione e la goffaggine dei parenti delle vittime a cui bramano di strappare dichiarazioni.
Queste dichiarazioni sono spesso (come è normale, per chi è distrutto dal dolore) semplici, confuse, di circostanza, appartengono a un “discorso standard” che i professionisti dell’informazione sanno molto bene come dominare per conto dei propri referenti, dal momento che quel discorso lo hanno inventato loro. Sanno come maneggiare parole come “dolore”, “giustizia”, “famiglia”, “vendetta”, “galera”, “perdono”, e quanto più queste parole saranno pronunciate con inflessione dialettale tanto più i professionisti dell’informazione si sentiranno a proprio agio. Sono educati a far montare un servizio televisivo intorno alla parola “dolore”. Non si aspettano parole come “patriarcato”.
Facendo saltare per un attimo questi dispositivi, Elena Cecchettin si è presentata davanti alle telecamere lucida e presente a se stessa. Una ragazza consapevole, istruita, a cui il dolore non ha impedito di fare un ragionamento più complesso del solito, e di lanciare una sfida. “Filippo Turetta”, ha detto Elena Cecchettin, “non è un mostro, perché mostro è quello che esce dai canoni normali della nostra società. Ma lui è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro. È una struttura che beneficia tutti gli uomini”.
E poi ha detto: “Non tutti gli uomini sono cattivi. Sì, è vero. Ma in questo caso sono tutti uomini e tutti gli uomini traggono benefici da questo tipo di società. Quindi tutti gli uomini devono essere attenti. Devono richiamare l’amico che fa catcalling ai passanti, devono richiamare il collega che controlla il telefono alla ragazza. Dovete essere ostili a questi comportamenti che possono sembrare delle banalità ma sono il preludio del femminicidio”.
Infine ha detto: “Il femminicidio è un delitto di potere. Il femminicidio è un omicidio di Stato perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge. Bisogna prevedere un’educazione sessuale e affettiva in maniera da prevenire queste cose. Bisogna finanziare i centri antiviolenza in modo tale che se le persone devono chiedere aiuto siano in grado di farlo. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”.
2. Rigore di Stato
Il femminicidio è un omicidio di Stato? È una domanda più insidiosa di quel che sembra, è una domanda-trappola, un’ipotesi destinata a rivelarsi più o meno fondata a seconda della reazione dei destinatari – i rappresentanti dello Stato sotto accusa –, e infatti si è dimostrata un calibro per misurare la salute mentale di certi nostri rappresentanti. Dopo aver visto il filmato di Elena Cecchettin, un consigliere della regione Veneto eletto con la lista Zaia, Stefano Valdegamberi, ha sentito puzza di zolfo.
“Ho ascoltato le dichiarazioni della sorella di Giulia”, ha esternato Valdegamberi nello stupore generale, “e posso dire che non solo non mi hanno convinto per la freddezza ed apaticità di fronte a una tragedia così grande, ma mi hanno sollevato dubbi e sospetti che spero i magistrati valutino attentamente. Mi sembra un messaggio ideologico costruito ad hoc, pronto per la recita. E poi quella felpa con certi simboli aiuta a capire molto… spero che le indagini facciano chiarezza. Società patriarcale? Cultura dello stupro? Più che società patriarcale dovremmo parlare di società satanista, cara ragazza”.
Ho potuto pensare che il femminicidio non fosse anche un omicidio di Stato fino alla risposta di Valdegamberi, un pubblico ufficiale.
Si dirà che un consigliere regionale non è un ministro. E infatti, pochi giorni dopo, si è scoperto che il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha scelto come consulente per combattere la violenza di genere Alessandro Amadori, docente a contratto di psicologia all’università Cattolica di Milano. Amadori è autore di un libro intitolato La guerra dei sessi, in cui si spiega che “il diavolo è anche donna”, che le “donne sanno essere cattive, più di quanto pensiamo”, che i femminicidi sono causati “dal bisogno di sottomissione maschile”, che la violenza di genere deve essere letta come “cattiveria”, per non tacere di una temibile organizzazione di donne chiamate Ginarche, dedita alla “totale svalutazione del maschile” e alla “sua riduzione in schiavitù”.
Amadori dovrebbe svolgere un ruolo nel progetto di educazione affettiva e sentimentale per le scuole lanciato dal governo Meloni dopo oltre 100 femminicidi in meno di un anno.
“La Lega ce l’ha duro” era del resto uno degli slogan con cui è nato il partito di Zaia e Valditara.
Ignazio La Russa, la seconda carica dello Stato, che adesso ha un figlio sotto processo per stupro, nel 2019 si interrogava sull’eventualità che una rosa riesca a pungere meglio se si cambiasse il nome. Scriveva: “per far approvare la castrazione chimica chiamiamola scelta temporanea di azzeramento della libido”.
Giorgia Meloni, il nostro premier, dopo aver difeso il padre di sua figlia che in tv raccomandava sobrietà alle vittime di stupro, ha dovuto arrendersi davanti alla logica del “foursome” teorizzata dallo stesso papà, e l’ha mollato.
È tutto così goffo, volgare, retrogrado, assurdo, sbracato, malato… Se anche questo Stato ce l’ha duro, è rigor mortis?
3. La sottile linea rossa
L’invito ai maschi di buona volontà di Elena Cecchettin è stato raccolto in un modo per me sorprendentemente interessante, nei giorni successivi. Sono intervenuti scrittori, intellettuali, sociologi, psicologi, e ho l’impressione che molti di loro abbiano fatto uno sforzo maggiore, più autentico, giocando meno in difesa rispetto al passato.
Il confine invisibile, ma complicatissimo, da superare in questi casi – la resistenza da vincere – è quello che separa la presunta buona condotta dall’orgoglio. Quanto più la prima è immacolata tanto più il secondo può gonfiarsi a dismisura, con esiti imprevisti. Guardatemi!, diciamo, io non sono così, non aggredirei mai una donna, non le userei mai violenza, non l’ho mai fatto, non lo farò mai, non potrei diventare un assassino di donne! Dovrei sentirmi lo stesso coinvolto, responsabile, partecipe del clima culturale che favorisce i femminicidi?
“Responsabilità” non è “colpa”. La colpa evoca atmosfere vetero clericali e punizioni esemplari. Puzza di rogo, ci riporta dritti al patriarcato. Credo che il privilegio vada rielaborato non in termini di colpa ma di “responsabilità”. E quale sarebbe la nostra responsabilità in questo caso? Provare a ridurlo quel privilegio, contribuire a erodere la cultura che lo alimenta.
È un lavoro complicato, perché al di là della volontà (che quel privilegio è magari disposta a lasciarlo andare) l’istinto lo tiene invece stretto con le unghie. Soprattutto, quel privilegio e la mia identità sono intrecciati. Qual è allora il confine oltre il quale la spoliazione inizia a intaccare il mio nucleo irriducibile?
“Guardatemi!, diciamo, io non sono così, non aggredirei mai una donna, non le userei mai violenza, non l’ho mai fatto, non lo farò mai, non potrei diventare un assassino di donne!”
Chiara Valerio scrive su «Repubblica»,: “Lilli Gruber, giornalista, ha detto che Giorgia Meloni è espressione della cultura patriarcale, ed è vero. Io sono espressione della cultura patriarcale. Lilli Gruber è espressione della cultura patriarcale. Lo siamo”.
Il patriarcato non riguarda dunque solo i maschi. Qual è allora il confine – secondo problema – superato il quale la spoliazione di cui sopra intacca l’identità del maschio cessando di renderlo desiderabile, interessante o anche solo degno d’attenzione agli occhi di chi maschio non è, ma verso una parte di quella identità (maschile) prova affezione, o la ritiene necessaria per definire (ci differenziamo attraverso l’altro da noi) anche la propria identità?
Soprattutto: stiamo parlando di un confine mobile? Si sposta nel tempo? Non è semplice disarmarsi da soli.
Qualcosa di diverso (forse di nuovo) è risuonato allora nelle parole di Elena Cecchettin, perché l’invito a farsi avanti ho l’impressione che questa volta sia stato accolto in modo più deciso rispetto al passato.
4. La separazione del maschio
Francesco Piccolo è intervenuto su «La Repubblica». Di fronte alla violenza degli uomini, scrive, ci sono due strade: o il senso di estraneità (io non sono così, un episodio come il femminicidio di Giulia Cecchettin per me sarebbe inconcepibile), o il prendersene carico. “Non mi piacciono gli uomini che si sottraggono all’accusa di essere violenti”, scrive Piccolo, “non mi piacciono gli uomini che si vogliono salvare. Dico di più: non mi piacciono gli uomini progressisti, perché sono un’invenzione o al massimo un involucro”.
“Credo che il privilegio vada rielaborato non in termini di colpa ma di ‘responsabilità’. E quale sarebbe la nostra responsabilità in questo caso? Provare a ridurlo quel privilegio, contribuire a erodere la cultura che lo alimenta”.
Secondo Piccolo esiste il maschio che non vuole essere come è, e questo è il massimo del progresso che i maschi possono concedersi. È qui che la sua riflessione arriva al nocciolo. In quanto individui, scrive Piccolo, siamo uno diverso dall’altro, e da individui possiamo arrivare perfino a essere progressisti. In quanto maschi, però, saremmo invece di nuovo tutti uguali, o comunque ci assomigliamo molto.
“Siamo stati almeno una volta nella vita quello che urlava sopra, che doveva parlare prima lui; quello che spiegava come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere; quello che ha cercato di imporre il suo ruolo, quello che si è incazzato di più perché sapeva di avere torto, quello che non ha accettato che si amasse un altro uomo. Quello che quando parla a una riunione si rivolge agli altri uomini. Quello che si dimentica come si chiama una collega. Quello che manda messaggi ambigui per tutta una vita”.
Cambiare le regole, conclude Piccolo, non basterà. Almeno nell’immediato. Inutile illudersi. Il cambiamento sarà lungo, faticoso, doloroso, cruento. Perché “quanto più al maschio verranno sottratte arroganza e supremazia, sicurezza e predominio, tanto più si sentirà fragile; e quanto più si sentirà fragile tanto più combatterà disperatamente”. I progressisti possono negoziare con la fragilità. Ma i maschi? Nei maschi fragilità e violenza sono intrecciate. Ci vorrà tempo, dice Piccolo, non fatela più semplice di quel che è.
Parafrasando Stevenson, come individui potremmo ambire a diventare degli amabili Dr. Jekyll, mentre da maschi saremmo continuamente minacciati da Mr. Hyde. La domanda che mi sono posto, ragionando su questa scissione, è: quanto il Mr. Hyde che ci abita sia un prodotto culturale, e quanto un portato biologico. Ci torno tra poco.
5. Ciao maschio
Maurizio Maggiani è intervenuto su «La Stampa». Raccontando la propria vicenda personale, ripercorre anche la storia d’Italia.
“Sono nato in una famiglia contadina. Mi hanno cresciuto le femmine della casa, una bisnonna, una nonna, due zie e mia madre. Non ci sono stati molti discorsi, imparavo vivendo con loro; ho imparato una certa gentilezza dei loro modi, una solidarietà sorgiva, quella severa dolcezza nell’indicarmi cosa fare, cos’era consentito e cosa no nel regime di libertà in cui veniva cresciuto un bambino di campagna che doveva saper badare a se stesso e non infastidire gli adulti che lavoravano”.
I maschi, in quel mondo, comparivano la sera, a cena, quando tornavano dal lavoro. Parlavano poco e niente, la voce del patriarca non era quasi necessaria, veniva dispensata con parsimonia. Ma quelle leggi, le leggi patriarcali, mosaiche, indiscutibili, erano sempre presenti, erano comandamenti interiorizzati: onestà, obbedienza, dedizione al lavoro, fedeltà. Era la matriarca a testimoniarli e farli rispettare.
“Se ho sempre accondisceso all’amorevole autorità femminile”, scrive Maggiani, “mi sono sempre ribellato a quella di mio padre”.
Nel contesto in cui viveva, continua lo scrittore, non c’è mai stato un gesto violento, “ma la violenza di genere esisteva eccome”. Esplodeva di continuo nelle case dei disperati: i senza lavoro, gli alcolisti, gli emarginati.
“Ho ricevuto un’educazione femminista? Ma neanche per sogno!”, continua Maggiani, “la morale in cui sono cresciuto era frutto di ignoranza, di arretratezza, ma era pur sempre una morale, a cui era possibile ribellarsi”. Ribellarsi alle regole dei padri – regole molto chiare, in apparenza incrollabili – diventava un modo per definirsi, per acquistare autonomia interiore. Non c’è libertà senza possibilità di trasgressione, non c’è possibilità di trasgressione senza regola.
Maggiani scrive di essersi ribellato alla vecchia morale in nome di una morale nuova, anzi nuovissima.
“A diciott’anni ero nel mezzo di una rivoluzione che non è stata solo sociale, culturale, politica, ma totale, e morale, sessuale, perfino religiosa”. Maggiani sta parlando degli enormi cambiamenti che hanno investito l’Italia e gran parte del mondo negli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Ho difficoltà a dare un nome a quella rivoluzione, nel nostro paese. Ho l’impressione sia stata tante cose insieme, cose tra loro spesso in contraddizione. Anzi: una cosa, conteneva a volte anche il suo opposto. C’entra la critica al capitalismo e il Partito Comunista Italiano, la sinistra extraparlamentare e i radicali, le battaglie per l’aborto e il divorzio, la rivoluzione sessuale, l’invenzione dei giovani, il rock, Franco Basaglia, il femminismo, don Milani, e il lato oscuro della luna su tutto quel periodo, la mutazione di cui parlava Pasolini.
“La parola d’ordine era liberarsi dalla proprietà e dunque anche dal possesso. E però non capivamo del tutto bene, perché eravamo pur sempre maschi e i maschi sono più antichi del capitalismo”, scrive ancora Maggiani parlando dei rapporti con le donne in quel periodo, “ed è stata ancora una volta una questione di amore, perché odiavamo gli stessi nemici, volevamo la stessa cosa, la fine di questo mondo e del suo ordine di potere, e il potere che le femmine rivendicavano era un nuovo ordine di amore. Di così appassionato amore da potermi far sentire amato anche quando la mia compagna nella stanza di là discuteva con le sue compagne dell’atavico fascismo implicito nel mio pene, intanto che nella stanza di qua preparavo la pasta al pomodoro per tutte loro”.
Poi però quella rivoluzione è fallita, è stata duramente sconfitta. L’Italia, scrive Maggiani, è stata invasa dal più becero capitalismo, da un consumismo sfrenato, dal trionfo dell’individuo, dall’etica della svolta, della botta di culo, dalla trasformazione del maschio da possibile soggetto rivoluzionario a animale rampante, assetato di successo, dall’esaltazione della donna (agli occhi dell’animale maschio) “non solo come oggetto, ma come oggetto di momentaneo uso”.
L’amore, o almeno quel tipo di amore rivoluzionario, dissolta l’idea stessa di rivoluzione, si è ridotto a impotenza e disordine, ed è nell’impotenza e nel disordine, continua amaramente Maggiani, che la sua generazione è invecchiata e ha cresciuto i propri figli, nella frustrazione, nella pornografia di Stato. È anche da questa fragilità, da questo sconforto, da questa nuova infelicità, scrive Maggiani, che esplodono le tragedie come quella che ha portato alla morte di Giulia Cecchettin.
“Non credo che sia la forza del sistema patriarcale ad armare la mano dei femminicidi, ma proprio la sua debolezza, e il suo estremo e violento tentativo di non dissolversi. Il suo sistema ha regnato per millenni non solo con l’esercizio della forza, ma con l’accettazione della responsabilità che ne derivava”. Nel mondo arcaico il maschio svolgeva il ruolo dominante perché nutriva le donne e i figli, li proteggeva, ne garantiva la sopravvivenza. “Chi, tra i violatori, gli assassini, può prendersi oggi questa responsabilità?” Le donne non hanno più bisogno di essere difese o nutrite, se la cavano benissimo da sole. Nel caso dei femminicidi siamo dunque, conclude Maggiani, di nuovo dentro un contesto di disperazione, ma non è più la disperazione degli alcolisti o dei disoccupati del mondo contadino.
6. Saper stare nel conflitto
Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, era tutt’altro che un maschio alfa. Tutti lo descrivono come mite, riservato, silenzioso. Un figlio perfetto dice suo padre, uno che non aveva mai dato problemi. Mai un litigio, una rissa, un gesto violento. Com’è possibile che uno così sia diventato un assassino?
È il tema di cui si occupa Daniele Novara su «Avvenire». Siamo abituati a pensare che la violenza maschile riguardi soprattutto l’uomo macho. Al contrario, scrive Novara, i violenti “hanno spesso un deficit di virilità, ossia la capacità di farsi rispettare rispettando gli altri”. La violenza maschile sarebbe spesso legata alla carenza conflittuale, all’incapacità di affrontare e gestire le difficoltà relazionali quando nascono.
“La violenza contro le donne non ha matrici passionali o amorose”, scrive Novara, “si tratta di brutalità allo stato puro, inadeguatezza totale a gestire le proprie reazioni emotive, volontà di possesso e di dominio assoluto, come se i corpi fossero una proprietà privata e potessero essere resi in schiavitù perpetua. Esiste un nesso molto stretto tra uomini violenti e un’educazione che, quando erano bambini, ha precluso la possibilità di litigare, impedendo loro di imparare a stare nelle contrarietà: non imparano ad ascoltare l’opinione degli altri; non imparano ad affrontare la divergenza; non imparano a tollerare un’opposizione alla propria volontà. E così non riescono a relazionarsi nelle situazioni critiche ed esplodono in rabbia e violenza”.
Il discorso sull’educazione dei maschi comincia dai padri, scrive sempre Novara, che da padri padroni rischiano di trasformarsi oggi in “padri peluche” (nell’assenza di argini, il possibile seme della violenza). Può tuttavia essere dannoso anche un eccesso di ruolo materno, di cura, di controllo, continua Novara, “ovvero una mamma che non libera il proprio figlio e che non si rende conto di mantenere il piccolo in una situazione di ambiguità, anche un po’ morbosa”.
7. Oggetto d’amore
Il discorso sul rapporto tra madri e figli maschi lo riprende su «Il manifesto» Lea Melandri rovesciandolo, cioè sviluppandolo dal punto dei vista dei maschi. Finalmente, scrive Melandri, i mass media stanno iniziando a trattare i femminicidi come un fenomeno strutturale, e non come singoli casi di cronaca nera.
Tra i meriti del femminismo c’è quello di aver provato a snidare gli effetti più violenti del dominio maschile nel rapporto tra i sessi lì dove si credeva di doverne trovarne meno: nell’assoluta normalità. “Gli uomini sono figli delle donne”, scrive Melandri, “il corpo di chi hanno sottomesso è quello che li ha generati, che ha dato loro le prime cure, un corpo che conoscono nel momento della loro maggiore inermità e dipendenza, e che ritrovano nella vita amorosa adulta quando i rapporti di potere sono ormai capovolti”.
Sono sì capovolti, ma non sarebbe invece allentato il cordone ombelicale che mette ancora simbolicamente una donna e un uomo in una relazione di madre e figlio. Gli uomini che uccidono le donne sono spesso incapaci di gestire un rifiuto. Per quale motivo? “I femminicidi”, scrive Melandri, “parlano della intollerabilità di un abbandono che richiama la relazione originaria con un oggetto d’amore che è anche, come nella prima infanzia, garanzia di sopravvivenza”. Troncando la relazione, la donna “non colpirebbe perciò solo un privilegio e un potere indiscutibile della mascolinità, ma l’amore in sé, la fonte prima, anche nell’età adulta, dell’autoconservazione”. Per questo la disperazione di alcuni maschi lasciati dalle proprie mogli o compagne rischia nei casi peggiori di spostarsi pericolosamente verso le zone oscure dell’omicidio, del suicidio, o verso entrambe le soluzioni. Non ci troviamo di fronte a un problema di patologie individuali, conclude Melandri, ma sociale, culturale, politico.
8. Testosterone e altri squilibri
Loredana Lipperini, più volte intervenuta sul tema, ha posto come molti commentatori la sua attenzione sul ruolo dell’educazione e della scuola. Se ne sta parlando molto in questi giorni. Di sicuro la scuola è un luogo di formazione più affidabile di Meta. Lipperini riporta a tal proposito un aneddoto curioso. Qualche giorno fa, Facebook l’ha censurata per aver pubblicato un post che “incitava all’odio”. Si trattava in realtà di una semplice intervista rilasciata da Stephen King, uno scrittore molto sensibile al tema della violenza contro le donne, il quale parlava della propensione alla violenza connaturata nei maschi.
“Tra i meriti del femminismo c’è quello di aver provato a snidare gli effetti più violenti del dominio maschile nel rapporto tra i sessi lì dove si credeva di doverne trovarne meno: nell’assoluta normalità”.
“Mi ricordo una ragazza”, dice King nell’intervista, “aveva un livido sotto l’occhio. ‘Che è successo?’, le ho detto. ‘Non voglio parlarne’, ha risposto lei. ‘Andiamo a prenderci un caffè’, ho proposto. Era successo che era stata con un ragazzo, e quel ragazzo voleva fare qualcosa che lei non voleva fare. Così, lui l’ha picchiata. Non l’ho mai dimenticato. Ricordo di averle detto: ‘Ci vuole coraggio per uscire con un ragazzo, vero? Quel ragazzo ti attrae, forse ti interessa. Ma quel che stai pensando, in fondo è Sto per entrare nella tua macchina. Sto per andare con te da qualche parte. Sto per aver fede nel fatto che mi riporterai indietro intera. Ci vuole coraggio’. Lei mi ha risposto: ‘Tu non potrai mai saperlo’. Gli uomini sono un pericolo’. Siamo grossi animali”.
Come è possibile, si chiede Lipperini su «La Stampa», che Facebook censuri brani come questi e non blocchi gli account di chi si dedica ogni giorno al bodyshaming? “C’entra con l’orribile morte di Giulia Cecchettin? C’entra. Da anni due sociologhe, Lucia Bainotti e Silvia Semenzin, stanno facendo un lavoro enorme sul rapporto fra odio online e violenza offline”.
Le parole non sono ininfluenti, contribuiscono al clima culturale. Naturalmente non basta. È necessario allora, conclude Lipperini, “il ripristino dei 17 milioni dei fondi per la prevenzione della violenza di genere appena ridotti a 5. E ci vorrebbe che, in accordo, le due donne protagoniste della politica italiana, Giorgia Meloni ed Elly Schlein, facessero di tutto per far approvare il disegno di legge che riguarda la violenza di genere fermo al Senato, e per avere finalmente una norma per l’educazione sentimentale a scuola”.
Chi ritiene che l’educazione sentimentale a scuola sia poco utile, è invece Guia Soncini, che ne scrive su «Linkiesta». A proposito dei grossi animali evocati da King: c’è un problema biologico, scrive Soncini. I maschi sono fisicamente più forti delle femmine, sono più aggressivi e brutali. E, in ordine alle leggi di natura, potendo esercitare quella forza può succedere che lo facciano. Il patriarcato non sarebbe il principale responsabile dei femminicidi, ma al contrario (grazie al suo ordine di leggi, e di relative punizioni quando la legge viene infranta) un argine.
Rileggendo Soncini mi sono fatto l’idea che il suo vero bersaglio non sia tanto l’educazione sentimentale a scuola, ma chi si illude che basti quello a trasformare il mondo in un posto dove la violenza sia bandita. Un mondo senza violenza è inimmaginabile. Niente soluzioni semplici.
Che il problema sia anche di origine biologica, lo scrive Vittorio Lingiardi sempre su «La Stampa», ma le sue conclusioni sono diverse. È vero, mi dice Lingiardi che raggiungo al telefono mentre scrivo questo pezzo, i maschi hanno una concentrazione di testosterone che li rende più aggressivi delle femmine. Oltre che fisicamente più forti, hanno fisiologicamente una maggiore propensione all’aggressività, al dominio, a un certo tipo di prevaricazione. Ma la cultura è da sempre il partner della biologia, in questi casi, funziona anche quella (la cultura) in chiave evolutiva. L’educazione dunque, dice Lingiardi, serve eccome.
È anche grazie all’educazione, alla cultura, che la nostra specie muta nel tempo fisiologicamente, biologicamente, e una cultura che si proponga di lavorare sulla violenza di genere ha speranza di produrre maschi biologicamente meno preoccupanti. Certo, ci vuole tempo. Ma dal momento che siamo stati altro, aggiungo io (addirittura siamo stati altre specie), e dal momento che se non ci estingueremo diventeremo altro, non siamo lentissimamente in trasformazione, anche adesso, mentre scrivo e qualcuno forse legge? Non siamo creature immutabili. Siamo condannati alla trasformazione. Forse a spaventarci è anche questo.
9. C’è ancora un domani (punk)
Mentre il dibattito va avanti, e si avvicinano le manifestazioni del 25 novembre, il film più visto in Italia è C’è ancora domani di Paola Cortellesi, scritto dalla regista e attrice con Giulia Calenda e Furio Andreotti. Quando l’ho visto al cinema (erano le tre e mezzo di pomeriggio, un orario assurdo, eppure la sala era piena di gente) ne sono rimasto turbato in un modo che non avevo previsto.
Il film è ambientato nella seconda metà degli anni Quaranta. Io sono nato nei Settanta. Eppure, del maschio violento e prevaricatorio interpretato da Valerio Mastandrea io ne avevo esperienza diretta. L’ho frequentato per tutta la vita, quel maschio, l’ho visto durante la mia vita famigliare, in una parte della mia vita lavorativa e, da un momento in poi, l’ho visto nelle sue successive incarnazioni, nei suoi diversi aggiornamenti, nei progressivi disarmi che lambiscono anche me. La conoscevo benissimo, quella figura, eppure l’avevo rimossa.
I miei nonni sono stati contadini, mezzadri e coltivatori diretti tra prima e seconda metà del Novecento. Mia nonna è morta a 107 anni lo scorso agosto. I miei genitori non sono mai stati borghesi, ma degli ex contadini ed ex proletari che in un certo momento della loro vita si sono ritrovati a fare un grosso balzo in avanti sul piano economico, e un quasi altrettanto violento balzo all’indietro alla fine del secolo. Io ho avuto un’educazione piccolo borghese, faccio parte della cosiddetta classe intellettuale.
Generalizzo, ma non poi tanto. Quella dei miei nonni era la generazione in cui le mogli votavano quello che volevano i mariti. Mia nonna materna ha sempre votato Democrazia Cristiana perché lo diceva mio nonno, e per molti anni non l’ha sentita come un’ingiustizia. Semplicemente, non riteneva di dover ragionare con la sua testa per ciò che riguarda la politica. Ragionava eccome, con la sua testa, ma su altre cose. Dava filo da torcere a mio nonno, ci litigava, a volte aveva la meglio, ma l’autonomia del voto era fuori discussione. Poi, a un certo punto, è diventato anche quello un motivo di litigio.
“L’ho frequentato per tutta la vita, quel maschio, l’ho visto durante la mia vita famigliare, in una parte della mia vita lavorativa e, da un momento in poi, l’ho visto nelle sue successive incarnazioni, nei suoi diversi aggiornamenti, nei progressivi disarmi che lambiscono anche me”.
Quella dei miei genitori, nel mio ambiente sociale (gli ex sottoproletari che diventavano commercianti, piccoli e meno piccoli imprenditori) era la generazione in cui le mogli votavano come pareva a loro – mio padre non si sarebbe mai sognato di dare indicazioni di voto a mia madre – ma non lavoravano se non lo volevano i mariti. Le donne studiavano, arrivavano magari anche a laurearsi, ma se i mariti non volevano che lavorassero diventavano casalinghe.
Ho visto moltissimi litigi scoppiare tra mogli che volevano lavorare e mariti che cercavano di impedirglielo con ogni mezzo. E perché i mariti non volevano che le mogli lavorassero? Perché erano terrorizzati dalla loro indipendenza. Gli sembrava un’anticamera del tradimento, quel tradimento (scopare fuori del matrimonio) che loro, i mariti, praticavano senza problemi e senza sosta, considerandolo un semplice sfogo fisiologico. Si riteneva che per le donne sesso e sentimenti andassero invece sempre assai d’accordo. Dunque, il tradimento di una moglie era più grave di quello di un marito.
Per i mariti l’indipendenza economica era in odore di libertà sessuale. E come facevano, i mariti, a impedire alle mogli di lavorare? In quanto parti forti sul piano economico, minacciavano le proprie mogli di lasciarle senza un soldo (senza protezione) se solo si fossero azzardate a lavorare. Ce li ho ancora negli orecchi, quei litigi. Vincevano quasi sempre i mariti. Le mogli, quando vincevano, la pagavano cara. Venivano subito circondate da un clima di disapprovazione sociale, non di rado alimentato da altre donne.
Per la mia generazione è inconcepibile che una donna debba votare ciò che vota suo marito o il suo fidanzato. È molto difficile, almeno nel mio ambiente, che si cerchi di impedire alla propria moglie o fidanzata di lavorare, di essere economicamente indipendente. Ma cosa succede se la propria fidanzata o moglie guadagna più di noi? Cosa succede se ha più successo?
Sembra che Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, fosse turbato dal fatto che la ex fidanzata potesse laurearsi prima di lui. Non ho bisogno di spingermi però così lontano con gli esempi. Sedici anni fa mi fidanzai con una ragazza di Piacenza. L’amavo molto. A un certo punto realizzai che guadagnava più di me. Sentii immediatamente il morso allo stomaco. Merda! Scattò qualcosa di automatico in me. Un turbamento che non riuscii a soffocare, e di cui mi vergognai subito dopo. Ebbi paura che ci fosse qualcosa che non andava in me, o in lei. Ci misi un paio di giorni per decostruire quel particolare sentimento. Non ci ho più pensato. Con la ragazza di Piacenza mi sono poi sposato.
Cosa voglio dire? Che la generazione dei miei padri non è geneticamente migliore rispetto a quella dei miei nonni (il voto), né la mia generazione (l’indipendenza economica) è geneticamente troppo diversa da quella dei miei padri. Non è cambiata la biologia o il testosterone (sono magari cambiati anche quelli, ma in modo troppo lento per sortire effetti dirompenti nel giro di due generazioni). È cambiata invece la cultura, il clima da cui siamo circondati, l’educazione che ci hanno dato. Cambia la cultura, l’educazione, e poi magari cambiano le leggi. Le disposizioni sul delitto d’onore, in Italia, sono state abrogate nel 1981.
Ovviamente tante altre abitudini prevaricatorie maschili mi sono rimaste dentro. A volte l’automatismo scatta, ha la meglio. Altre volte ha la meglio qualcosa di più evoluto.
“Sedici anni fa mi fidanzai con una ragazza di Piacenza. L’amavo molto. A un certo punto realizzai che guadagnava più di me. Sentii immediatamente il morso allo stomaco. Merda! Scattò qualcosa di automatico in me. Un turbamento che non riuscii a soffocare”.
Ma voglio dire un’ultima cosa. Non sarei stato in grado di decostruire tanto facilmente il sentimento di minorità rispetto alla migliore condizione economica della mia futura moglie se non avessi frequentato – durante l’adolescenza – una speciale scuola che mi sono portato dietro poi per tutta la vita, e che, sono sincero, mi manca molto per la sua forza eversiva ed emancipativa. Si tratta del punk, o forse dovrei dire del post punk.
Tra i quattordici e i diciannove anni, a Bari, sono stato immerso in un contesto sottoculturale (c’entrava il punk, ma anche una certa particolarissima cultura mediterranea, molto aperta e libertaria) che ancora oggi mi sembra più evoluto di tanti contesti che ho frequentato dopo, nel mondo della cultura cosiddetta ufficiale e in apparenza più rispettabile, da editor, scrittore, gestore di grandi eventi culturali.
In questa comunità, fatta di ragazze e ragazzi di cui ho un ricordo bellissimo, era vitale opporsi al mainstream. La odiavamo, quella cultura di merda, di cui faceva parte anche la cultura patriarcale, che all’epoca chiamavamo maschilismo. Per sovvertirla linguisticamente prendevamo le parole offensive e le ribaltavamo, usandole su di noi come complimenti.
“Sono un ricchione!”, rivendicavano i ragazzi eterosessuali. “Sono una puttana!”, rivendicavano le ragazze. “Anche tu sei una puttana!”, dicevano le ragazze ai ragazzi. E i ragazzi: “sì, certo, sono una puttanella!” “Sei proprio un ricchione!”, dicevano gli eterosessuali agli omosessuali. “No, tu sei un ricchione!”, dicevano gli omosessuali agli eterosessuali. E gli eterosessuali: “sì! Sono un ricchione anch’io!” “Allora dimostramelo!”, dicevano gli omosessuali agli eterosessuali, “fatti inculare!” “Sì! Fatti inculare!”, gridavano le ragazze entusiaste, “fatti inculare da loro e poi da me!” E a quel punto, passando alle vie di fatto, poteva succedere, per chi aveva voglia, che si sperimentassero molte cose. Dovevamo decostruire dentro di noi i miti della cultura machista, maschilista, clericale e parafascista. È stata una scuola che ha contribuito a liberarmi di molti fantasmi.
Soprattutto, non ho visto nessuno smarrire la propria identità per essere passato attraverso quegli esperimenti. Tutto il contrario. Per pochi anni ho vissuto in una sottocultura in cui la prevaricazione di genere, il sessismo, il machismo, l’omofobia, la misoginia erano quasi annullati. Il maschio senza maschilismo non diventava qualcosa di neutro, diventava qualcosa d’altro: un maschio finalmente liberato.
“Il maschio senza maschilismo non diventava qualcosa di neutro, diventava qualcosa d’altro: un maschio finalmente liberato”.
Poi da Bari mi sono trasferito a Roma, e mi è sembrato di ripiombare nel Medio Evo. Le controculture erano finite. Dal mondo libero del punk mediterraneo mi sono ritrovato in quello iper-complessato dell’editoria italiana. Soprattutto, mi sono ritrovato in bocca (con esiti all’inizio comicamente catastrofici) tutto un armamentario di epiteti (“puttana”, “ricchione”, “inculata”) che non avevano più il valore eversivo e liberatorio a cui ero abituato, ma di nuovo un significato reazionario, sessista, prevaricatorio.
Ma come?, mi dicevo, dovrei essere in un mondo più evoluto, e qui siamo tornati indietro? Il problema era che l’editoria, anche quella indipendente, se confrontata al piccolo mondo punk da cui venivo, era già cultura mainstream.
Devo riconoscere che sono stato fortunato, ho vissuto per pochissimo tempo in un contesto felice, mentre adesso, come tutte e tutti, vivo in un mondo e in un contesto (il 2023, in Italia) decisamente più violento, retrogrado, annichilente e criptofascista. La mia piccola isoletta punk mediterranea non esiste più. Nicola, fattene una ragione. Fine delle confessioni private.
Spero che quelle del 25 novembre siano delle bellissime, potenti, partecipate manifestazioni. Spero che oltre a essere luoghi di lotta, siano anche luoghi di incontro, di confronto, di sperimentazione, la possibilità di stringere alleanze nuove, dare vita a nuove idee. Lo schermo per i buoni intenti. La piazza per la pratica.
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
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