Lorenzo Monfregola
24 Gennaio 2024
Dal tentativo di censura della scrittrice Masha Gessen al divieto di alcune manifestazioni pro Palestina, l'appoggio a Israele come ragion di Stato ha chiuso la Germania in un cortocircuito paradossale, che affonda le proprie radici nella riparazione della colpa nazionalsocialista. Nel frattempo, il governo deve affrontare i timori di nuovo terrorismo islamista e l'ascesa dell'estrema destra. Che futuro aspetta la Germania?
Questi mesi di guerra a Gaza hanno fatto emergere in maniera lampante le molteplici contraddizioni e le complessità che la Germania – e più nello specifico lo Stato tedesco – esprime, da sempre, di fronte alla questione israelo-palestinese.
Il caso Gessen è forse quello più emblematico. L’intellettuale russa-statunitense Masha Gessen (persona transgender non binaria che usa, in inglese, i pronomi neutri they-them) aveva vinto il premio Hannah Arendt del 2023 per il pensiero politico. L’onorificenza, che include un compenso di 10 mila euro, è indetta dal 1994 dalla città di Brema e dalla fondazione Heinrich Böll, organizzazione che è espressione politico-culturale del partito dei Verdi tedeschi.
In seguito a un articolo di Gessen del 9 dicembre pubblicato sul «New Yorker», la fondazione Böll e la città di Brema si sono però, in un primo momento, ritirate dalla consegna del premio. Il passaggio incriminato del pezzo di Gessen – che è di famiglia ebraica che ha subito le persecuzioni naziste ed è stata vittima dell’Olocausto – era questo:
Come nei ghetti ebraici dell’Europa occupata, non ci sono guardie carcerarie: Gaza non è sorvegliata dagli occupanti ma da una forza locale. Presumibilmente, chiamarla con il termine più appropriato, ghetto, avrebbe fatto esplodere polemiche per il paragone tra la difficile situazione degli abitanti di Gaza assediati e quella degli ebrei ghettizzati. Ma ci avrebbe anche dato una parola per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza in questo momento. Il ghetto viene liquidato.
Come da comunicato della fondazione, l’elemento “non accettabile” era il fatto che che Gessen implicasse che “l’obiettivo di Israele è liquidare Gaza come un ghetto nazista”. Decisiva si è quindi rivelata l’equiparazione tra nazismo e azione dello Stato di Israele.
In Germania i paragoni con i crimini del nazionalsocialismo sono un tabù persistente e totalizzante: suggerire somiglianze del genere significa, nello Stato tedesco del dopoguerra, negare l’eccezionalità della colpa nazista. Il concetto di “Verharmlosung” (“minimizzazione” o anche “relativizzazione”) dei crimini nazisti può avere una natura legale nel Paese ed è stato utilizzato più volte per contrastare la propaganda dell’estrema destra e i suoi rigurgiti antisemiti.
Le prospettive del discorso di Gessen – che partono da una sua storia di impegno e critiche antitotalitari – hanno così finito per indignare anche dei suoi sostenitori. In Germania, era politicamente inevitabile. La potenziale censura di Gessen è stata innanzitutto un automatismo istituzionale che si è irradiato poi sul mondo culturale. La fondazione Böll ha reagito quasi automaticamente, anche perché l’attuale ministra tedesca degli Esteri Annalena Baerbock è una delle figure centrali dei Verdi tedeschi.
Dopo giorni di intense polemiche, alla fine la consegna del premio a Gessen è avvenuta, seppur con una cerimonia in forma ridotta. Ma negli ultimi mesi l’affaire Gessen non è stata è stata l’unica vicenda di questo tipo nel Paese, tanto che è nata una campagna internazionale di boicottaggio delle istituzioni culturali tedesche – denominata Strike Germany e la cui sostenitrice più nota è finora la Premio Nobel francese Annie Ernaux – che accusa Berlino di reprimere le voci pro-palestinesi.
Il caso Gessen è stato sicuramente il più emblematico di una certa tendenza dell’imposizione (diretta o indiretta) della ragion di Stato tedesca fino a conseguenze che possono essere interpretate come censorie. In fondo lo Stato tedesco fornisce un ordine di regole anche sulle questioni culturali: si può dire che la Germania sia ordoliberale anche in questo, specialmente nelle zone del dibattito pubblico in cui la cultura si interseca direttamente con l’azione e la responsabilità politica, oltre che con i finanziamenti statali.
Dal caso Gessen è ugualmente emerso un dibattito intellettuale che ha tematizzato, in Germania, diversi aspetti cruciali del rapporto tra politica estera contemporanea e storia (e colpa) passata. In un’intervista con «Spiegel», Gessen ha in seguito dichiarato di non voler proporre un paragone diretto tra Stato di Israele e nazisti, puntualizzando che “naturalmente, un confronto 1:1 è assurdo. Ma se ci sono paragoni potenziali, dobbiamo chiederci cosa possiamo fare per evitare altre morti di civili. Chiunque faccia finta che l’Olocausto non sia paragonabile a nulla e quindi non possa ripetersi, non può impedire la catastrofe”. Gessen pensa che in Germania, sulla questione Israele-Palestina, “è emersa una forma di sorveglianza, soprattutto quando si tratta di paragoni con l’Olocausto. Il dibattito si trasforma rapidamente in una questione di relativizzazione. Trovo questa posizione storicamente, moralmente e politicamente problematica, perché pone l’Olocausto al di fuori della storia”. Gessen ha fatto poi notare sempre su «Spiegel» che “nelle attuali condizioni di dibattito in Germania, Hannah Arendt non avrebbe mai ricevuto il premio Hannah Arendt”. Il riferimento è alle critiche contro l’emergere di un neonazionalismo ebraico, che Arendt espresse a fine anni Quaranta.
“In Germania i paragoni con i crimini del nazionalsocialismo sono un tabù persistente e totalizzante: suggerire somiglianze del genere significa, nello Stato tedesco del dopoguerra, negare l’eccezionalità della colpa nazista”.
Le questioni aperte da Gessen restano ora da sviluppare. Ma bisogna essere consapevoli che parlare di Isreale e Olocausto in Germania vuol dire avvicinare il tema con una postura diversa, affrontarlo cioè nella specifica declinazione tedesca della colpa tedesca, che è poi la pietra angolare, oltre che l’essenza, stessa degli equilibri delle odierne istituzioni liberal-democratiche in Germania.
Nelle istituzioni e nella cultura tedesche c’è una fobica riluttanza a trasformarsi nel palcoscenico primario del dibattito sulla questione israelo-palestinese, per cui la Germania si sente lo spazio meno indicato in Occidente, oggi, per discutere del conflitto in corso, tema verso il quale le istituzioni di Berlino applicano infatti una viscerale cautela.
In questo senso si può interpretare anche il fastidio diffuso, in Germania, per lo slogan, non a caso in lingua inglese, “Free Palestine from German guilt”, [Liberate la Palestina dalla colpa tedesca] comparso diverse volte durante manifestazioni in città tedesche contro l’attacco israeliano a Gaza. Andare a toccare la colpa tedesca, andare a politicizzarne o depoliticizzarne gli effetti, è un processo che nessuno può pensare di poter gestire con una sensibilità distante dalla specificità tedesca.
È un’arma a doppio taglio, in un Paese in cui l’estrema destra cerca da tempo di tornare nelle stanze del potere e in cui proprio il superamento-accantonamento del “Schuldkult” (“culto della colpa”) nazionalsocialista è uno dei dispositivi essenziali utilizzati dal partito dell’ultra-destra AfD – Alternative für Deutschland. Smantellare e mutare le basi fondative della costituzione morale di un apparato statale è, insomma, un’idea che può pensarsi, o sognare di essere, progressista, ma che può rivelarsi eversiva. Nel frattempo, è utile cercare di ricostruire come e perché lo Stato tedesco (inteso innanzitutto come ordine razionale di un apparato) abbia sviluppato le sue attuali posizioni sul conflitto israelo-palestinese e su perché siano così specifiche.
1. La sicurezza di Israele come ragion di Stato tedesca
L’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre contro Israele – il più grande massacro di ebrei dall’Olocausto – ha colpito nel profondo la Germania. Berlino ha reagito immediatamente esprimendo qualcosa di più di un semplice sostegno a Israele. Il cancelliere Olaf Scholz ha dichiarato che “la sicurezza di Israele è ragion di Stato tedesca (Staatsräson)”. L’espressione riprende dichiarazioni già fatte da altri leader tedeschi, da Angela Merkel a Konrad Adenauer. Dai tempi del primo cancelliere tedesco-occidentale la nascita ed esistenza di uno Stato ebraico venne accolta come parte integrante (ed essenziale) della riparazione della colpa nazionalsocialista tedesca.
Questa impostazione è rimasta invariata nella tradizione dell’apparato diplomatico tedesco, al di là di qualsiasi considerazione e interpretazione storica sul periodo che va dal 1948 a oggi, o sulle varie forme di rivendicazioni nazionali, statali e territoriali del popolo palestinese negli anni. La ragion di Stato è qualcosa che esprime le razionalità prioritarie che uno Stato persegue per preservare se stesso, in maniera fondativa, e cioè necessariamente quasi dogmatica nella prassi.
In questo senso, a Berlino, l’esistenza dello Stato di Israele viene considerata come un requisito storico-morale necessario al mantenimento dell’esistenza stessa della Germania nel suo attuale ordine costituzionale liberal-democratico (“Freiheitliche demokratische Grundordnung”). Dall’ordine costituito di Berlino (prima a Ovest e poi nella Germania riunificata) viene da sempre rifiutata ogni prospettiva che metta in dubbio la sicurezza dello Stato di Israele. Lo stesso vale per qualsiasi tentativo di usare un vocabolario o una narrazione legata ai crimini nazisti per criticare o condannare le azioni politico-militari di Israele. Questo è un dato storico consolidato che, come già detto, potrà modificarsi solo con stravolgenti mutazioni portanti dell’attuale Berliner Republik.
2. L’azione diplomatica tedesca in Medio Oriente
Questa impostazione strutturale non significa che Berlino sia in queste settimane rimasta esclusivamente aderente alla linea del governo di Benjamin Netanyahu. Secondo le autorità sanitarie della Striscia controllata da Hamas, da ottobre sono state uccise a Gaza oltre 25mila persone: un dato sconvolgente anche in guerra, soprattutto se si considera che l’attacco israeliano è iniziato solo tre mesi fa. Con la progressiva crescita delle vittime dell’azione dell’IDF contro Hamas e della sempre più acuta crisi umanitaria a Gaza, Berlino si è potenzialmente avvicinata all’insofferenza nei confronti dell’esecutivo Netanyahu che provano oggi partner storici di Israele, inclusi gli Stati Uniti d’America. Nelle ultime settimane di dicembre e a inizio gennaio, anche il governo tedesco sembra aver iniziato a giudicare in scadenza il concetto cinico ma concreto della “finestra di tolleranza” di cui Israele ha beneficiato militarmente dopo lo shock dell’attacco subito il 7 ottobre.
Berlino ha sempre sostenuto il “diritto di difendersi” di Israele e continua a ribadire che spetta innanzitutto ad Hamas liberare gli ostaggi israeliani rapiti. L’attività e la possibilità di export militare tedesco in Israele restano attive. L’astensione tedesca rispetto a due specifiche risoluzioni ONU su Gaza, l’ultima del 12 dicembre 2023, è stata motivata dal fatto che le formulazioni scelte non esprimevano a sufficienza il diritto di Israele di difendersi da Hamas.
Sempre a dicembre la ministra tedesca degli Esteri, la già citata Annalena Baerbock dei Verdi, si è unita all’omologo britannico David Cameron in un articolo in cui viene dichiarata la necessità di “pause umanitarie”, ma in cui si sostiene anche che un “cessate il fuoco” immediato a Gaza non garantirebbe una “pace sostenibile” sul lungo periodo, visto che, in altre parole, permetterebbe ad Hamas di riorganizzarsi e tornare a colpire in linea con la propria dichiarata intenzione di distruggere Israele e con modalità simili al 7 ottobre.
Altre dichiarazioni e dialoghi diplomatici di Berlino con player del mondo arabo hanno però seguito prospettive diverse. Baerbock ha sottolineato in numerose dichiarazioni che le perdite civili a Gaza sono catastrofiche e devono smettere immediatamente, ha sempre risposto che “ogni civile morto è un morto di troppo” e ha inoltre dichiarato che “Israele deve proteggere meglio i civili di Gaza e adeguare la sua strategia militare”. Un riferimento alla necessità di modificare la strategia militare israeliana, se espresso da un ministro tedesco, è da leggere con una certa intensità critica. La quarta visita di Baerbock in Medio Oriente, nella seconda settimana di gennaio, ha segnato ulteriormente la crescita di critiche inedite verso Israele. Baerbock è andata personalmente in Cisgiordania, visitando un villaggio palestinese a sud di Nablus, dove ha condannato le azioni e le violenze dei coloni israeliani estremisti, dicendo: “quello che succede qui è illegale”.
“L’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre contro Israele – il più grande massacro di ebrei dall’Olocausto – ha colpito nel profondo la Germania. Berlino ha reagito immediatamente esprimendo qualcosa di più di un semplice sostegno a Israele”.
Baerbock si è poi recata al valico egiziano-palestinese di Rafah, dove ha nuovamente fatto appello a soluzioni umanitarie, ribadendo che “Gaza e la Cisgiordania appartengono ai palestinesi. Non devono essere né espulsi da Gaza né sfollati dai coloni in Cisgiordania”. Berlino aveva già fermamente condannato qualsiasi idea dell’ultra-destra israeliana di spostamento di popolazione da Gaza, di nuova occupazione o di ridimensionamento del territorio della Striscia. Negli stessi giorni, il governo di Olaf Scholz ha riaffermato il noto sostegno tedesco per una soluzione a due Stati del conflitto israelo-palestinese, che Berlino definisce “unica soluzione” possibile per la sicurezza di entrambi i popoli (al di là di quanto la prospettiva sia effettivamente vicina nell’orizzonte delle possibilità).
Nell’attuale intreccio tra attori regionali ed extra-regionali, iniziare un percorso concreto verso i due Stati è considerata da ampi strati diplomatici la sola strada realmente, e con urgenza, percorribile. Da parte tedesca, la sicurezza di Israele come ragion di Stato tedesca potrebbe in questo senso essere progressivamente ridelineata concettualmente da Berlino, sottolineando il fatto che attacchi sostanzialmente punitivi contro la popolazione civile palestinese e le ipotesi di suprematismo etnico israeliano non offriranno alcun tipo di futuro utile alla stessa sicurezza di Israele e, tantomeno, di tutta la regione mediorientale.
Le dichiarazioni di Baerbock e del governo tedesco possono essere considerate come di circostanza. Ma è proprio la circostanza a essere qui cruciale, visto che gran parte delle dichiarazioni è stata espressa nel contesto di ripetuti colloqui e incontri diplomatici ufficiali in Medio Oriente. Sul piano diplomatico, l’attività tedesca non è certo influente come quella americana, ma anche Berlino dialoga da parte sua con i player che davvero contano oggi: oltre a Israele e Autorità Nazionale Palestinese, ci sono Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Qatar, Giordania, così come Emirati Arabi Uniti e Libano. Anche a Berlino, come a Washington e nella frammentata linea dell’UE, c’è viva preoccupazione per le conseguenze dell’attuale strategia del governo israeliano su Gaza e per il pericolo di un esplosivo allargamento del conflitto (di fatto già in atto).
Berlino non accetta tuttavia un ruolo di Hamas e, ancora di più, il ruolo di un sostenitore originario di Hamas come l’Iran (e suoi altri proxies). Per Hamas viene consentito solo che parlino, più o meno direttamente, le diplomazie qatarine e turche, ad esempio nelle trattative per gli ostaggi. Berlino condivide la necessità che il gruppo islamista venga smantellato nelle sue forme di potere come nei suoi piani futuri. Questo punto resta centrale e si aggancia alle strategie internazionali di antiterrorismo della Germania.
3. La parola “genocidio”
La posizione tedesca è quindi più eterogenea di quanto possa apparire a una prima analisi, sebbene resti sempre vincolata alla sua ragion di Stato pro-israeliana. In questo contesto va letto anche il rifiuto del governo tedesco di accettare la definizione di “genocidio” in Palestina. In merito al ricorso contro Israele presentato dal Sudafrica alla CIG – Corte internazionale di giustizia (organo ONU), che chiede lo stop di un “genocidio” contro i palestinesi da parte israeliana, il governo di Berlino ha dichiarato il 12 gennaio che “in considerazione della storia della Germania e del crimine umano della Shoah, il governo federale è particolarmente impegnato nella Convenzione contro il genocidio. Questa convenzione è uno strumento centrale del diritto internazionale per la realizzazione del ‘mai più’. Ci opponiamo fermamente a qualsiasi strumentalizzazione politica”, scrive il governo, aggiungendo poi: “sappiamo che i diversi Paesi hanno espresso valutazioni diverse sull’operazione di Israele nella Striscia di Gaza”, ma l’accusa di genocidio secondo Berlino “non ha alcun fondamento” e per questo il governo tedesco “intende intervenire come terza parte nell’udienza principale”. Per l’esecutivo l’iniziativa sudafricana è innanzitutto un’azione di lawfare, un tentativo di delegittimazione.
Dalla Germania è stata finora rifiutata l’indicazione di un’eccezionalità della guerra – e quindi dei morti di Gaza – rispetto ad altri conflitti dell’area (come la Siria, l’Iraq o lo Yemen) o del resto del pianeta. L’impostazione in questo senso è brutalmente realpolitik. La linea entra potenzialmente in conflitto con la forte attenzione della Germania per la guerra in Ucraina e per le vittime civili degli attacchi russi. Berlino rivendica, da parte sua, una distinzione essenziale tra le conseguenze di una guerra di aggressione come quella russa e una guerra nata dal “diritto di difesa” contro Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre e l’uccisione di oltre 1.200 persone da parte dell’organizzazione palestinese. Certamente, però, la Germania sta assumendo in questo modo posizioni sempre più simili a quelle di altre grandi e medie potenze del mondo multipolare, perdendo così, anche narrativamente, un’ipotetica innocenza recente.
4. Gaza e l’opinione pubblica tedesca
La posizione dell’opinione tedesca sull’attuale conflitto isrealo-palestinese sembra essersi sensibilmente modificata nelle ultime settimane, in maniera tendenzialmente trasversale, con il crescere delle notizie e delle immagini della devastazione di Gaza. Allo shock dei video dei massacri e dei rapimenti di Hamas (e gruppi subordinati) contro i civili israeliani il 7 ottobre si è progressivamente sostituito lo shock per le vittime civili, tra cui numerosi bambini, dell’attacco dell’IDF a Gaza.
Come riporta un sondaggio della tv pubblica ZDF del 12 gennaio, il 61% dei tedeschi non ritiene giustificata l’operazione di Israele a Gaza di fronte “alle tante vittime civili”, mentre solo il 25% la ritiene giustificata (il restante 14% non sa/non risponde). Secondo un altro sondaggio di Forsa per «Welt», subito dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre il 44% dei tedeschi rispondeva di ritenere che la Germania abbia un “obbligo speciale nei confronti di Israele”. A dicembre questa quota è scesa al 37%. Alla domanda se “l’azione militare di Israele nella Striscia di Gaza sia complessivamente appropriata”, i tedeschi sarebbero così divisi: il 45% risponde “sì”, mentre il 43% ritiene che l’azione sia “eccessiva” (il restante 12% non vuole esprimere una valutazione). Il 57% degli intervistati ritiene che Israele persegua “i propri interessi senza riguardo per gli altri popoli”, a ottobre era il 51%. Soltanto il 35% è d’accordo con l’affermazione che “Israele rispetta i diritti umani”. Solo il 9% dei tedeschi, dall’altro lato, ritiene che Israele “non abbia diritto di esistere in Medio Oriente”.
Certo, sono solo di due sondaggi, ma è chiaro, in generale, che l’opinione pubblica tedesca abbia potenzialmente un’impostazione ben più eterogenea rispetto a quella dello Stato.
5. Il fronte interno: lo Stato tedesco e l’islamismo radicale
Considerazioni a parte, tuttavia, vanno fatte sulle proteste pro-palestinesi sul territorio tedesco. Questo è un punto su cui l’opinione pubblica potrebbe effettivamente rivelarsi più aderente all’impostazione delle autorità di sicurezza tedesche (dello Stato federale o dei 16 Länder), che hanno affrontato la questione della piazza innanzitutto da un punto di vista interno: l’attenzione massima è rivolta alla repressione di segmenti islamisti sul territorio tedesco e di ogni situazione valutata come potenziale pericolo in questo senso.
“La posizione dell’opinione tedesca sull’attuale conflitto isrealo-palestinese sembra essersi sensibilmente modificata nelle ultime settimane, in maniera tendenzialmente trasversale, con il crescere delle notizie e delle immagini della devastazione di Gaza”.
Sul fronte interno, infatti, l’impostazione dello Stato sulla questione israelo-palestinese non è unicamente radicata nella colpa dell’Olocausto e del nazionalsocialismo. Fondamentale è anche l’esperienza del massacro delle Olimpiadi di Monaco di Baviera 1972, quando il gruppo palestinese Settembre Nero attaccò la squadra israeliana nel villaggio olimpico bavarese. Le Olimpiadi che per la Germania Ovest dovevano segnare la resurrezione tedesca dagli orrori hitleriani si trasformarono allora in un nuovo massacro di ebrei sul territorio tedesco, anche a causa della drammatica incompetenza e impreparazione della polizia.
Per capire quanto Monaco 1972 abbia plasmato la ragion di Stato delle autorità di sicurezza tedesche, basti pensare che solo 20 giorni dopo l’assalto contro le Olimpiadi, la Germania occidentale creò le squadre speciali antiterrorismo dette GSG 9. Le stesse squadre GSG 9, nell’ottobre 1977, furono poi protagoniste della liberazione dei passeggeri del volo Lufthansa 181 Landshut a Mogadiscio, che erano tenuti ostaggio proprio da quattro membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Tutte queste vicende si incrociarono in più punti con le vicende del gruppo armato tedesco RAF – Rote Armee Fraktion – e con il cosiddetto Autunno Tedesco, in un mix di azioni-reazioni da cui originarono alcuni dei capisaldi degli attuali metodi interpretativi, operativi e repressivi delle autorità di sicurezza tedesche.
Le intersezioni storiche tra lotta armata e terrorismo tedeschi e palestinesi sono un elemento cruciale per comprendere oggi la gestione interna tedesca nei confronti della piazza pro-palestinese. Non solo, c’è da considerare un secondo passaggio fondamentale: negli ultimi venti anni l’impostazione delle autorità di sicurezza su questo tipo di dossier si è ulteriormente modificata, come reazione al processo di islamizzazione dei gruppi egemoni di lotta armata e terrorismo filo-palestinesi.
Ne consegue che oggi l’attenzione operativa-repressiva dello Stato tedesco verso movimenti filo-palestinesi sul territorio tedesco sembra vincolata in modo prioritario alla lotta contro l’islamismo radicale in Germania e al contenimento dei suoi ispiratori ideologici o sponsor internazionali. Questi ultimi sono tradizionalmente realtà eterogenee e diverse tra loro: realtà provenienti da paesi del Golfo, gruppi legati ai Fratelli Musulmani, regime iraniano e suoi proxies, derivazioni statali turche e dell’ultranazionalismo turco.
È innegabile che in Germania questa attenzione sia stata rivolta negli ultimi mesi al ruolo delle comunità d’immigrazione arabe (tra cui una consistente comunità palestinese) e turche nelle manifestazioni pro-Palestina. Manifestazioni che hanno raggiunto un’intensità e un’ urgenza diversa dalle quelle organizzate durante la guerra in Siria o, ad esempio, in difesa del popolo curdo o yazida.
“Per capire quanto Monaco 1972 abbia plasmato la ragion di Stato delle autorità di sicurezza tedesche, basti pensare che solo 20 giorni dopo l’assalto contro le Olimpiadi, la Germania occidentale creò le squadre speciali antiterrorismo dette GSG 9”.
Complessivamente, però, in queste manifestazioni pro-Palestina in Germania emergono espressioni eterogenee, che includono movimenti di sinistra, anticoloniali, queer, spontanei, pacifisti, gruppi religiosi musulmani e di altre fedi, associazioni per i diritti umani, altro. Tutti gruppi che hanno finora subito una certa reductio all’islamismo radicale da parte delle autorità e di ampi strati della percezione pubblico-mediatica tedesca, che non sono state quindi capaci di cogliere e interpretare diverse urgenze espresse nelle proteste, come gli appelli per un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza.
Sul piano della realpolitik, per le autorità di sicurezza tedesche i movimenti “altri” pro-palestinesi in Germania, a partire da quelli di sinistra, vengono considerati come più o meno consapevolmente funzionali a dimostrazioni di forza di attori islamisti. In questo meccanismo si può vedere un processo di umiliazione dei gruppi di sinistra, soprattutto quelli che ritengono di poter attraversare o affiancare temporaneamente le espressioni di lotta islamiste come una fase dell’anticolonialismo: dalle autorità tedesche emerge il messaggio che la loro impostazione sia in verità illusoria, minoritaria e subordinata.
E in effetti alcuni pezzi di sinistra – radicale o meno – non sembrano più materialmente e tatticamente protagonisti della piazza. Possono agire solo a costo di un profondo snaturamento delle proprie prospettive ideologico-progettuali. (Per complicare ulteriormente il quadro, bisogna ricordare poi che un segmento di sinistra radicale in Germania è tradizionalmente e attivamente pro-israeliano, seppur, oggi, non in linea con l’attuale governo Netanyahu).
6. La Wehrhafte Demokratie: la democrazia combattiva
Dopo il 7 ottobre, con l’inizio delle manifestazioni contro l’attacco israeliano a Gaza, le autorità tedesche hanno cercato di rimuovere più o meno chirurgicamente le occasioni in cui le proteste contro Israele potessero essere usate come dimostrazioni di forza di elementi islamisti, soprattutto quando identificati come antisemiti. La tattica è stata applicata con particolare determinazione nelle prime settimane, ma le maglie si sono allargate con l’estendersi o assestarsi della protesta.
La linea statale tedesca in merito, o meglio quella dei singoli Stati tedeschi, è stata spesso mal riportata all’estero, talvolta in maniera propagandistica. Basti qui segnalare che in Germania non sono mai state vietate manifestazioni pro-Palestina tout court: sono state però di volta in volta vietate manifestazioni di questo tipo, inclusa l’esibizione-espressione di determinate bandiere, simboli, slogan. È stata approvata, è vero, un’ordinanza a dir poco estrema che prevedeva di poter eventualmente vietare a Berlino le kefiah nelle scuole (lasciando la decisione alla discrezionalità della polizia in caso di disordini). Ma non è corretto dire, come si è invece letto, che le kefiah siano state vietate in piazza, dove compaiono come simbolo identificativo imprescindibile. In altri casi ancora, poi, i divieti tedeschi hanno mostrato maglie larghissime, come quando a Essen c’è stato un corteo accusato di aver celebrato la costituzione di un califfato islamico e in cui uomini e donne hanno sfilato separati.
Nota e significativa è invece la posizione delle autorità tedesche sullo slogan “From the river to the sea, Palestine will be free” (che viene comunque ripetutamente cantato nei cortei tedeschi), così come su rappresentazioni della Palestina in cui non sia contemplato lo Stato di Israele nel territorio che va dal fiume Giordano al mare Mediterraneo (visto che – hic et nunc e al di là di ogni altra valutazione – questo significherebbe che siano milioni di israeliani a restare senza Stato).
“Dopo il 7 ottobre, con l’inizio delle manifestazioni contro l’attacco israeliano a Gaza, le autorità tedesche hanno cercato di rimuovere più o meno chirurgicamente le occasioni in cui le proteste contro Israele potessero essere usate come dimostrazioni di forza di elementi islamisti”.
Su questi distinguo, per lo Stato tedesco, si gioca de facto la distinzione tra l’antisemitismo e una critica del sionismo come fenomeno storico-politico. E qui si ritorna alla ragion di Stato tedesca rispetto a Israele, quella che l’hard power berlinese non considera negoziabile negli attuali equilibri istituzionali della liberal-democrazia tedesca. Su questo aspetto è utile però ribadire come da Berlino siano arrivati anche stop a qualsiasi espulsione di palestinesi o nuova riduzione del territorio della Striscia di Gaza o della Cisgiordania. E come, nel dibattito tedesco, di fronte a uno scenario qualsiasi di nuovi spostamenti forzati di persone in Medio Oriente, possa pericolosamente inserirsi ed essere sdoganata la narrazione dell’ultra-destra tedesca, che parla sempre più apertamente di piani di “ri-migrazione” (cioè deportazione) etnoseparatista dalla Germania.
Tornando al tema della gestione delle proteste di piazza, dal punto di vista operativo-burocratico, le decisioni sul divieto di alcune manifestazioni e di particolari simboli in Germania sono basate su chi richiede l’autorizzazione per una manifestazione o sui gruppi considerati come dominanti in un corteo, valutati spesso in base all’esibizione già conclamata di simbologie giudicate come ostili alla Costituzione (che si chiama formalmente Legge fondamentale della Repubblica Federale).
A questo punto, bisogna comprendere che tutta questa serie di contenimenti burocratico-operativi da parte della forza statale in merito a parole, simboli, specifici gruppi, slogan, è una tradizione delle varie autorità tedesche per arginare o erodere la presenza e l’affermazione sociale dell’estrema destra in Germania, dal neonazismo a gruppi estremisti come i Reichsbürger.
Il principio ispiratore di un simile atteggiamento e modus operandi è quello della “Wehrhafte Demokratie” o “Streitbare Demokratie”: democrazia combattiva, cioè una democrazia che sia pronta e capace di difendersi. Si tratta di un paradigma costituzionale tedesco essenziale secondo cui la difesa dell’ordine liberal-democratico vada sempre perseguita attivamente, anche preventivamente, quindi, anche limitando anticipatamente la libertà di espressione di forze considerate come potenzialmente anti-democratiche.
L’origine di questo approccio è chiaramente, e di nuovo, quello della resurrezione tedesca dai crimini del nazionalsocialismo (e dal trauma di un regime nazista che si impose inizialmente con le dinamiche di una maggioranza formalmente democratica). In questo contesto assumono in Germania un’importanza primaria le valutazioni dell’Ufficio federale per la protezione della Costituzione (BfV – Bundesamt für Verfassungsschutz) e di tutti i responsabili o uffici per la protezione della Costituzione di ogni Land (LfV – Landesbehörde für Verfassungsschutz). Si tratta dei servizi di intelligence interni tedeschi, federali e statali, le cui funzioni sono decisamente più analitiche che operative e le cui valutazioni sono in parte trasparenti e comunicate pubblicamente con vari passaggi formali.
Questo intero ecosistema di intelligence sul territorio nella difesa della Wehrhafte Demokratie tedesca è fondamentale per capire l’approccio dello Stato tedesco a fenomeni politici valutati come potenzialmente estremi o anche solo destabilizzanti. Non può stupire allora che questo sistema – applicato per anni contro l’estrema destra (seppur con risultati spesso discutibili), contro l’estremismo di sinistra o contro altre realtà politiche – venga oggi applicato contro l’islamismo, contro il potenziale antisemitismo e, attualmente, contro fenomeni che si muovono all’interno del confronto politico in Germania sul conflitto Israele-Palestina.
È inoltre fisiologico che da questa proattività sistemica emergano decisioni e comportamenti giudicati in maniera discordante nel corpo sociale, soprattutto con uno Stato come quello tedesco che definisce e afferma costantemente se stesso formalizzando apertamente e in occasioni pubbliche cosa sia ostile o pericoloso per il proprio stesso ordine costituito. Come abbiamo visto con il caso Gessen, questo approccio dello Stato tedesco si ripercuote anche nel mondo delle istituzioni culturali, con risultati talvolta eccessivi e paradossali.
7. La fobia di una neo-Weimar tra estrema destra e islamismo
Tornando a Masha Gessen, nella sua intervista con «Spiegel», l’intellettuale ha parlato anche dell’uso che l’ultra-destra tedesca fa dell’accusa di antisemitismo, che utilizzerebbe “impropriamente per fomentare il sentimento contro gli immigrati o contro l’islam, sebbene in fondo la base di AfD sia antisemita come l’ultradestra negli Stati Uniti. L’antisemitismo è un ottimo strumento per qualsiasi obiettivo politico, perché può essere usato per mettere a tacere gli avversari…”
È innegabilmente vero che AfD utilizzi l’accusa di antisemitismo per scagliarsi contro le comunità immigrate musulmane in Germania, parlando ad esempio di “Importierter Antisemitismus”, cioè di “antisemitismo d’importazione”. Altrettanto vero è che l’antisemitismo autoctono tedesco, così come l’anti-liberalismo, sia in realtà elemento ideologico strutturale e costituente di realtà come AfD. Tuttavia, la presenza di un antisemitismo in segmenti di comunità immigrate non è un allarme che arriva esclusivamente da AfD, ma anche da analisti, partiti e realtà socio-culturali ampiamente inseriti nella democrazia tedesca. Ciò avviene con intensità eterogenee, ad esempio da posizioni più occidentaliste (area cristiano-democratica) o laico-repubblicane (area socialdemocratica).
Dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre, la comunità musulmana tedesca è stata invitata più volte a esprimersi con maggiore energia sulla natura intrinsecamente antisemita dell’aggressione di Hamas. Un appello simile è arrivato anche dal presidente della Repubblica federale tedesca, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier. Il capo dello Stato ha sempre ribadito che i musulmani in Germania non devono essere colpevolizzati collettivamente, e ha sempre cercato di esprimere una netta divisione dall’impostazione dell’ultra-destra, che è invece direttamente e apertamente etno-suprematista e islamofoba.
Il tema di un antisemitismo tra le comunità immigrate tedesche – sfruttato spesso da agende islamiste e anche diffuso o esacerbato nel dibattito sul conflitto israelo-palestinese – sembra quindi destinato a essere determinante, in futuro, nelle relazioni interne tedesche. Al tempo stesso, la lotta all’antisemitismo è stata in questi anni anche strumentalizzata per affrontare in maniera solo approssimativa la ben più complessa realtà della società multiculturale che sta emergendo in Germania, un processo storico che buona parte della politica tedesca ha impattato con poca preparazione e scarsa lungimiranza.
Ma i cortocircuiti non finiscono qui. Perché la Germania deve effettivamente guardarsi da un altro pericolo molto specifico: il reciproco nutrimento tra estremismo islamista ed estremismo suprematista di destra. Negli ultimi mesi ci sono stati diversi allarmi sulla crescita dell’antisemitismo in Germania in relazione al conflitto israelo-palestinese, e le segnalazioni sono giunte anche da parte del già citato BfV, l’Ufficio federale per la protezione della Costituzione, e del suo presidente Thomas Haldenwang.
La figura di Haldenwang è molto utile da citare: nell’ultimo biennio ha rilasciato dichiarazioni formali durissime sul pericolo posto da AfD e dall’estrema destra ed è diventato per questo bersaglio delle accese critiche dell’ultra-destra tedesca. È da notare che Haldenwang è diventato presidente dell’intelligence interna BfV nel novembre 2018, andando a sostituire Hans-Georg Maaßen, considerato nelle sue funzioni troppo tenero proprio con AfD e con l’ultra-destra (e oggi, infatti, Maaßen sembra apprestarsi a fondare un partito ultra-conservatore aperto a collaborare proprio con AfD). Con la sostituzione di Maaßen con Haldenwang, l’Ufficio federale ha invece messo in moto e accelerato pubblicamente diverse tappe del processo di “osservazione” verso una possibile “classificazione” di AfD come forza di “estrema destra” formalmente ostile alla Costituzione. Questo sta avvenendo anche tramite i LfV di diversi singoli Länder tedeschi.
“Ma i cortocircuiti non finiscono qui. Perché la Germania deve effettivamente guardarsi da un altro pericolo molto specifico: il reciproco nutrimento tra estremismo islamista ed estremismo suprematista di destra”
Al di là dell’attività dell’intelligence interna e degli strumenti legali-burocratici della Wehrhafte Demokratie, AfD viene oggi ugualmente stimata nei sondaggi come potenziale seconda forza politica del Paese (fino al 24%) e punta a un consenso di oltre il 30% in diversi Länder e aree della Germania orientale. Chiaramente, il contrasto tra un’intelligence che si dichiara garante irremovibile della costituzione e l’elettorato di AfD è potenzialmente incendiario. Le grandi manifestazioni anti-AfD degli ultimi giorni, che hanno raccolto centinaia di migliaia nelle città tedesche, dimostrano ancora di più la centralità del tema.
Nell’applicazione della ragion di Stato interna di fronte alle manifestazioni pro-palestinesi nelle città tedesche è quindi da considerare con attenzione anche il timore di una reciproca escalation tra una visibilità e prova di forza di piazza dell’islamismo radicale, da un lato, e il beneficio tattico che ne possono avere le posizioni islamofobe e razziste di AfD e di gruppi ancora più di estrema destra.
Tra i garanti della sicurezza nazionale interna tedesca sembra aleggiare un worst case scenario: quella che la piazza tedesca (fisica, culturale, virtuale, sociale, politico-ideologica) possa diventare una nuova repubblica di Weimar incapace di mettere un freno all’ islamismo radicale diffuso nelle comunità immigrate e all’estremismo di destra suprematista (attualmente, il secondo resterebbe numericamente più forte). Un worst case scenario che è invece proprio l’obiettivo tattico primario di nuovi segmenti accelerazionisti di estrema destra.
Che si tratti di una fobia eccessiva o meno, la paura di questa polarizzazione conflittuale sembra destinata a interessare nei prossimi anni le politiche di sicurezza della Wehrhafte Demokratie. Il fatto che il dibattito in Germania su Israele e Palestina sia stato negli ultimi mesi ampiamente caratterizzato proprio dal fantasma di questa polarizzazione non fa che confermare la sua centralità contemporanea. E se l’approccio tedesco su Israele e Palestina non può sottrarsi al passato, sarà comunque sempre più urgente e necessario il supporto di Berlino per una reale e concreta pacificazione del conflitto in Medio Oriente, sia sul piano della realpolitik e sia su quello umanitario, visto che le prossime evoluzioni avranno anche effetti considerevoli sul futuro interno della Germania.
Lorenzo Monfregola
Lorenzo Monfregola è giornalista e scrittore. Lavora da Berlino per l’agenzia Ansa e scrive per diverse riviste. Il suo ultimo romanzo è Gli annegati (Il Saggiatore, 2021).
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