Le parole non bastano più per raccontare quello che sta accadendo in Medio Oriente - Lucy
articolo

Nicola Lagioia

Le parole non bastano più per raccontare quello che sta accadendo in Medio Oriente

L’attuale governo di Israele si è messo fuori da ogni idea di legalità, di ragione storica o geopolitica. È, su altri piani, la stessa condizione in cui Hamas ha agito dal 7 ottobre. Erano diversi i percorsi verso la violenza di Hamas e del governo di Israele, ed erano diverse le linee di confine tra il concepibile e l’abominevole. Una volta varcate quelle linee, col favore delle tenebre, sia Hamas che il governo di Israele ci hanno fatto piombare in un orrore innominato. Dobbiamo farci i conti.

Non c’è bisogno di evocare un genocidio per rendere insopportabile l’uccisione di diecimila bambini, per renderla inammissibile. La disputa nominalistica che sta infuriando sulla guerra in Medio Oriente rischia di offrire metri in più, ogni giorno, all’avanzata dell’orrore. 

Non esiste parimenti sofferenza di un popolo che giustifichi le azioni orrende del 7 ottobre, i civili massacrati, gli stupri di gruppo, gli ostaggi usati (in questi stessi giorni) come sacrificio al dio della vendetta storica.

Per come abbiamo costruito la nostra idea di civiltà, non è ammissibile l’uccisione di cinquemila bambini, di mille bambini, di un solo bambino. “Se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all’acquisto della verità” dice Ivan Karamazov, “allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto”. Se il prezzo per entrare nel regno dell’armonia costasse la sofferenza dei bambini, allora, secondo il personaggio di Dostoevskij, avremmo delle buone le ragioni per restituire a Dio il biglietto d’entrata.

I deltaplani che oscurano il cielo del Nova Festival dando inizio ai massacri del 7 ottobre – l’uccisone dei ragazzi, la caccia all’uomo, le torture – non sono la conseguenza di una contingenza storica (fingono di esserlo, non lo sono), dunque non possiedono una spiegazione che regga una disputa né possiedono una giustificazione. Se l’avessero, saremmo costretti a rivedere non solo i parametri su ciò che è ammissibile e non ammissibile nelle crisi internazionali, ma su cosa crediamo che sia l’uomo, sul concetto di umano per come l’abbiamo faticosamente costruito lungo i secoli, per come credevamo di averlo fissato in modo stabile dopo la fine della II guerra mondiale.

“Non c’è bisogno di evocare un genocidio per rendere insopportabile l’uccisione di diecimila bambini, per renderla inammissibile”.

Non esiste una giustificazione storica per ciò che Hamas ha fatto con le azioni del 7 ottobre. Non esiste una giustificazione geopolitica per ciò che il governo di Israele sta facendo a Gaza. Se esistessero ai nostri occhi, cesseremmo di esistere noi per come ci autorappresentiamo quando proviamo a parlare di ciò che sta accadendo. È il motivo per cui diamo a volte l’idea, in questi mesi, di scomparire (come esseri razionali, morali) non appena prendiamo parola. È come se, parlando, ci autocancellassimo. Svanisce l’essere razionale, morale, politico. Al suo posto comincia a blaterare (e a bestemmiare) un ridicolo tribuno.

C’è un confine, superato il quale, l’attuale governo di Israele si è messo fuori da ogni idea di legalità, di ragione storica o geopolitica. È, su altri piani, la stessa condizione in cui Hamas ha agito dal 7 ottobre. Individuare con precisione il punto superato il quale l’ammissibile diventa proibito significa (disperatamente?) dare la caccia all’origine dell’incommensurabile quando ci si è ormai dentro. Quei confini sono stati fatti saltare col favore delle tenebre. Erano diversi i percorsi verso la violenza di Hamas e del governo di Israele, ed erano diverse le linee di confine tra il concepibile e l’abominevole. Una volta varcate, sia Hamas che il governo di Israele ci hanno fatto piombare in un orrore innominato dove le differenze rischiano di scomparire.

Il nostro mondo, il mondo laico, non ha parole adeguate per tutto ciò che ci circonda, non ha parole adatte a misurare tutto ciò che quello stesso mondo ha costruito. (Lo ha costruito ex novo? O ha contenuto vecchi miti?) È questo, al tempo stesso, una falla e una valvola di sicurezza, una forza e una debolezza. Abbiamo tracciato un perimetro entro il quale i nostri dispositivi, con più evidenza giuridici, funzionano riducendo sufficientemente l’approssimazione tra mappa e territorio. È la parte per così dire “in luce” del mondo in cui viviamo, il sistema di norme, diritti, doveri, incentivi, sanzioni che regola la nostra vita e su cui si basa la nostra civiltà. Non è la sua anima (che percepiamo e ci sfugge) ma il suo rassicurante scheletro. Su questa base costruiamo con coerenza, quotidianamente, il discorso pubblico, che sia politico, sociale, civile, giornalistico. È questo anche il terreno della normale disputa, del normale conflitto. È persino il terreno del crimine e della punizione comunemente concepiti. C’è però poi la parte “in ombra” di questo mondo. Fuori dalla città c’è un posto notturno, silenzioso, costruito da noi (o forse appunto solo fatto oggetto di “contenzione”), a cui noi stessi non riusciamo a dare nome. L’approssimazione tra mappa e territorio supera qui il livello di guardia. I parametri per leggere la storia vanno in sofferenza o verso il punto di rottura. Il diritto continua sì a disciplinare la vita del “territorio notturno”, ma è evidentemente inadeguato. È qui, ad esempio, che riposano le oltre 12.000 testate nucleari attualmente presenti sul pianeta. Quale sanzione potrebbe mai disciplinarne in modo adeguato l’uso, una volta che ne venisse fatto?

Hamas e l’attuale governo di Israele ci hanno portato in questa zona d’ombra dove i sistemi di misurazione saltano di continuo, e dove le nostre parole non riescono a contenere ciò che vorrebbero definire. Non dobbiamo farci trascinare lì dentro. Solo delle persone estremamente sagge, da lì dentro, potrebbero rischiarare il buio con la loro voce, e noi – mi pare evidente – non siamo quelle persone. Siamo condannati, da fuori, a ridurre l’approssimazione tra l’orrore e ciò che (nel tentativo impossibile di definirlo) può sedarlo.

La Shoah non è mai davvero del tutto definibile. Non sono definibili, fino in fondo, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Non sono definibili i gulag dell’Unione Sovietica. Non è definibile la pulizia etnica in Bosnia. Non è commensurabile il genocidio del Ruanda. Forse le pagine più preziose di Primo Levi sono quelle in cui, ne I sommersi e i salvati, lo scrittore si spinge, con la forza della ragione, in territori posseduti da una logica completamente diversa, che con la ragione non c’entra nulla, come a voler tradurre l’intraducibile, o far parlare l’alieno. È talmente ispirata ed efficace, la scrittura di Levi, che nella forzatura di quel confine tra luce e tenebra rivela un elemento trascendente. Non ha a che fare con la religione. Non ha a che fare nemmeno con il mondo laico.

Le parole non bastano più per raccontare quello che sta accadendo in Medio Oriente -

Josif Stalin diceva che una morte è una tragedia mentre un milione di morti sono una statistica. È un’affermazione perversa che (intorbidita dalla comicità che Stalin non usava mai a solo scopo ornamentale) andrebbe ribaltata su diversi piani. Il primo ribaltamento è di tipo numerale. Esiste un numero di morti non entro ma oltre il quale nessuna ragione storica (o geopolitica) è ammissibile? Una risposta affermativa è necessaria, ma da sola ci farebbe rimanere nel territorio del pervertimento storico (significherebbe fissare un numero preciso di bambini bruciati, di giovani squartati, di ragazze e donne stuprate che soddisfi la ragion di Stato). A questo ribaltamento deve seguirne un altro. Esiste una modalità, nell’esercizio della violenza (nei conflitti tra popoli, eserciti, stati), che renda questa violenza inammissibile, qualunque siano le ragioni che la scatenano? La risposta è sì, ed è chiaro che sia Hamas che il governo di Israele questo limite (non numerale) lo hanno infranto.

Superato il confine oltre cui si apre la “zona notturna”, nulla è commensurabile a nient’altro. Dunque, ha ragione chi sostiene che non si debba evocare la Shoah per raccontare (e condannare) un altro massacro. Ma se quel massacro (gli oltre diecimila bambini palestinesi uccisi) ha superato il confine oltre cui siamo nella parte indicibile del mondo, allora non ha bisogno né di un accostamento alla Shoah né della parola genocidio per dover essere fermato. Non esiste una classifica degli orrori, superato quel confine. 

Non abbiamo esperienza della guerra. Non abbiamo vagamente idea di cosa significhi vivere in una città bombardata. Non sappiamo, per fortuna, cosa significhi essere cacciati come prede per il fatto di appartenere a un popolo, o a una religione. Proviamo a immaginare i bambini palestinesi bruciati vivi a Gaza dall’esercito israeliano e non ci riusciamo, non abbiamo la forza emotiva né morale per essere all’altezza di ciò che vorremmo rappresentarci. Proviamo a immaginare cosa può aver significato, per le ragazze e i ragazzi israeliani presenti al rave il 7 ottobre venire trasformati in animali braccati, inseguiti, uccisi, rapiti, stuprati dai massacratori di Hamas, e parimenti non riusciamo a reggere il pensiero. Siamo manchevoli. Ma come stiamo reagendo a questa impotenza, a questo deficit immaginativo che è la conseguenza di un deficit morale? Stiamo reagendo nel peggiore dei modi, ovvero trasformandoci in tifosi. Illuderci di empatizzare con le vittime di una parte, ci rende più indifferenti alle sofferenze delle vittime dell’altra. È quello che vediamo succedere sulle pagine dei quotidiani, nei dibattiti televisivi, nelle risse e tra gli insulti dei social. Sprovvisti delle necessaria levatura morale, ci accusiamo gli uni con gli altri, ci rifugiamo nelle retoriche identitarie, non ci mettiamo in gioco (oppure ci facciamo ricattare dalla bolla, dal giornale, dall’area di riferimento, noi ricattabili!, nelle nostre case sicure e tiepide), dilapidando le occasioni di confronto. Siamo in una situazione tragica, non riusciamo a riconoscerlo.

“Hamas e l’attuale governo di Israele ci hanno portato in questa zona d’ombra dove i sistemi di misurazione saltano di continuo, e dove le nostre parole non riescono a contenere ciò che vorrebbero definire”.

Tra le conquiste della modernità c’è quella di arrivare a considerare sacra ogni vita umana. È una condizione che precede il rivestirsi, questa vita, di una nazionalità, di una cultura, di una religione, di un insieme di opinioni, e che permane nonostante le opinioni, la religione, la cultura, l’appartenenza a un popolo che andrà a caratterizzare questa stessa vita. Conciliare il sentimento del sacro con la contingenza storica è la nostra sfida impossibile, ma è la sfida dentro cui dobbiamo stare se non vogliamo che la nostra civiltà collassi.

Anche io come credo sia evidente, in questa situazione sono inadeguato, in una simile congiuntura sento l’insufficienza della mia cultura, della mia educazione, della mia coscienza, della mia stessa persona. La mia parte migliore è già la parte peggiore. Dovrebbe esserci un’immediata cessazione del fuoco, un’immediata restituzione degli ostaggi, la fine della violenza, della barbarie. Questo credo lo vogliano in tanti. La parte difficile, quella in cui sento al tempo stesso la mia fallacia e la mia tensione, riguarda invece il metodo attraverso cui, storicamente, ci siamo spesso tirati fuori dalla zona notturna prima che fosse troppo tardi. Questo metodo ha a che fare con il rituale sacrificale, che da un punto in poi della sua avventura l’umanità sta giustamente cercando di portare (non potendone fare a meno, quando non ne può fare a meno) verso una sublimazione. Non si possono sacrificare i popoli. Non i tedeschi sotto il nazismo. Non gli italiani sotto il fascismo. Non i palestinesi, non gli ebrei. È necessario dunque che salti, immediatamente, il governo di Netanyahu. È necessario dunque che saltino, immediatamente, i vertici di Hamas. Bisogna abbandonare loro, nelle tenebre, dove tutto è possibile, per poter tirare fuori tutto il resto.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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