L’Europa è già fuori dalla corsa all’AI? - Lucy
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Andrea Daniele Signorelli

L’Europa è già fuori dalla corsa all’AI?

Macron e von der Leyen hanno annunciato miliardi di investimenti, ma il destino delle intelligenze artificiali sembra già scritto da Stati Uniti e Cina. I paesi dell’UE hanno ancora chance di competere? O sarà meglio ritagliarsi un ruolo differente?

Prima è stata la volta del presidente francese Emmanuel Macron. Inaugurando l’AI Summit che si è tenuto a Parigi lo scorso febbraio, il presidente francese ha annunciato di voler investire 109 miliardi di euro per la costruzione di un’imponente infrastruttura di data center e per lo sviluppo di chip specializzati, con il supporto cruciale del fondo degli Emirati Arabi Uniti e di quello canadese Brookfield. Macron avrebbe inoltre già identificato 35 siti che possono ospitare le nuove infrastrutture, che spera possano dare lavoro ad almeno 100mila persone nel giro di qualche anno.

Meno di 24 ore dopo, e sempre nel corso dell’AI Summit, è stata la volta della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, che ha annunciato il lancio di InvestAI: un’iniziativa finalizzata a raccogliere 200 miliardi di euro (50 dalla Commissione e 150 che dovrebbero giungere da privati) per investimenti nel settore dell’intelligenza artificiale e che comprende un fondo europeo di 20 miliardi di euro per le “gigafabbriche” (fondamentalmente, dei data center specializzati nello sviluppo e addestramento di modelli di intelligenza artificiale).

È un aumento enorme rispetto ai piani in vigore fino al dicembre scorso, quando si era parlato di un investimento da 1,5 miliardi di euro per costruire sette supercomputer ottimizzati per l’intelligenza artificiale, da affittare a startup e ricercatori. Ed è chiaramente una risposta al colossale progetto Stargate lanciato da Donald Trump subito dopo il suo insediamento – con il supporto, tra gli altri, di OpenAI e della holding giapponese Softbank – allo scopo di creare “l’infrastruttura cloud più grande della storia”. Un progetto che prevede un investimento immediato di 100 miliardi di dollari che dovrebbero diventare 500 nei prossimi quattro anni.

Come ha affermato l’investitore Christian Miele, finanziatore anche della startup francese MistralAI, Stargate “è più di una sveglia per l’Europa, è uno schiaffo in pieno volto”. Uno schiaffo che ha sicuramente colpito l’Europa nell’orgoglio, portando all’improvviso varo dei due citati progetti di data center e anche alle coraggiose – e plausibilmente improvvide – affermazioni della presidente della Commissione Europea: “Troppo spesso sento dire che l’Europa è in ritardo nella corsa all’intelligenza artificiale, mentre la Cina e gli Stati Uniti si trovano già in vantaggio. Non sono d’accordo, perché questa corsa è tutt’altro che finita. In verità, è appena iniziata e la leadership globale è ancora in gioco”.

Paradossalmente, le dichiarazioni e i progetti europei sono riusciti ad aumentare lo scetticismo degli analisti, rafforzando il sospetto che l’Unione Europea stia completamente sbagliando strategia, procedendo a casaccio e inseguendo gli Stati Uniti e la Cina in una competizione che non solo non possiamo vincere, ma nella quale non siamo nemmeno in grado di tenere il passo.

Andiamo con ordine: quali sono questi errori? Prima di tutto, colpisce come a 24 ore di distanza sia stato annunciato prima un piano esclusivamente francese e poi un piano europeo, confermando una volta di più la mancanza di coordinamento tra i paesi membri dell’UE e la tentazione delle nazioni europee tecnologicamente più avanzate di procedere in solitaria. La Francia può inoltre contare sulla propria elevatissima capacità energetica (produce tramite il nucleare oltre la metà del proprio fabbisogno), fondamentale in un settore energivoro come quello dell’intelligenza artificiale.

“Paradossalmente, le dichiarazioni e i progetti europei sono riusciti ad aumentare lo scetticismo degli analisti, rafforzando il sospetto che l’Unione Europea stia completamente sbagliando strategia, procedendo a casaccio e inseguendo gli Stati Uniti e la Cina”.

Una duplicazione che solleva parecchie domande ancora senza risposta: la Francia parteciperà all’iniziativa europea o si concentrerà soltanto sulla propria? I data center che Macron si è impegnato a costruire faranno parte del network di gigafabbriche promesso da von der Leyen? Davvero le 60 società che che hanno aderito all’iniziativa EU AI Champions forniranno 150 miliardi di dollari, quando anche il progetto Stargate sta faticando a trovare tutti i finanziamenti di cui necessita?

Forse, però, l’errore più macroscopico è proprio l’idea che la corsa all’intelligenza artificiale, come ha detto von der Leyen, “sia appena iniziata” e che la leadership globale sia “ancora in gioco”. Le cose, in realtà, sono molto diverse: la corsa all’intelligenza artificiale è partita ormai da più di dieci anni, da quel famoso 2012 che è considerato come l’anno del Big Bang del deep learning, quando questa tecnologia – in particolare nel campo del riconoscimento immagini – dimostrò per la prima volta di essere in grado di ottenere risultati fino a quel momento impensabili.

Nei successivi 13 anni , l’intelligenza artificiale ha cambiato il mondo. Gli algoritmi predittivi basati su deep learning sono oggi integrati in praticamente tutte le attività che svolgiamo, online e non solo: li impiega Amazon per suggerire gli acquisti, Spotify per consigliare cosa ascoltare, Instagram e TikTok per personalizzare le inserzioni pubblicitarie. Senza contare le molte altre società che ne fanno uso per il riconoscimento  facciale, per decidere a chi erogare mutui o finanziamenti, per selezionare i CV più adatti, per ottimizzare la logistica o la rete energetica…

Da un certo punto di vista, l’intelligenza artificiale predittiva è oggi diventata simile all’elettricità: talmente onnipresente che nemmeno ci accorgiamo più di utilizzarla. Nel 2017, con l’avvento dell’architettura transformer, abbiamo invece assistito alla nascita dell’intelligenza artificiale generativa, quella in grado di creare testi di ogni tipo (come ChatGPT), di produrre immagini (come Midjourney), video (come Veo), musica (come Suno) e altro ancora.

L’elenco dei colossi e delle startup protagoniste di questo settore non lascia spazio a dubbi: Meta e Alibaba, OpenAI e DeepSeek, Google e Tencent, Meta e Bytedance. Insomma: Stati Uniti e Cina. Con pochissime eccezioni (tra cui la francese Mistral o realtà più piccole come la tedesca DeepL), l’Europa è completamente assente dal panorama dell’intelligenza artificiale. Le cifre relative agli investimenti sono ancora più evidenti: tra il 2013 e il 2022, gli Stati Uniti hanno raccolto 249 miliardi di dollari, la Cina 95 miliardi, mentre le due più importanti nazioni UE – Francia e Germania – sono arrivate insieme a 14 miliardi di dollari (lasciando alle altre soltanto le briciole).

Altro che “appena iniziata”: la corsa all’intelligenza artificiale è già a uno stadio avanzato e le posizioni sono ben delineate, con gli Stati Uniti al primo posto seguiti da una Cina che sta gradualmente riducendo il distacco; mentre, lontanissime, troviamo le altre nazioni con cui la UE potrebbe competere: Regno Unito, Canada, India, Giappone, Israele e non solo.

L’Unione Europea non ha – al momento – i presupposti per raggiungere o superare gli Stati Uniti e la Cina sul piano dei modelli di intelligenza artificiale. Il panorama industriale e di ricerca avanzata, la disponibilità di dati e la presenza di un ecosistema di startup ampio e diversificato sono fattori che richiedono tempo per crescere e consolidarsi. Difficile pensare che un mastodontico progetto di gigafabbriche possa, da solo, colmare un gap che negli anni si è semmai sempre più ampliato.

E questo vale a maggior ragione se si considera lo spartiacque rappresentato da DeepSeek. Quando i modelli V3 e R1 di DeepSeek sono stati presentati tra il dicembre 2024 e il gennaio 2025, l’aspetto che più di ogni altro ha sorpreso gli addetti ai lavori – al punto da far momentaneamente crollare il titolo in borsa di Nvidia – è stato che la startup fondata da Liang Wenfeng avesse speso soltanto 6 milioni di dollari per la fase di addestramento (circa il 95% in meno di quanto speso per addestrare GPT-4, il modello alla base di ChatGPT), usando 2mila GPU di Nvidia dalle prestazioni ridotte laddove OpenAI e gli altri impiegano decine di migliaia delle più potenti.

È stato uno sviluppo talmente sorprendente che l’investitore Marc Andreessen l’ha definito il “momento Sputnik” del nostro secolo e il Guardian è arrivato a definire DeepSeek “una reale minaccia al dominio tecnologico occidentale”, aggiungendo che “lo sprint per vincere la corsa all’intelligenza artificiale sarà altrettanto competitivo – e forse ancor più – della corsa allo spazio degli anni Cinquanta e Sessanta. La Cina è infatti dotata di una potenza economica che l’Unione Sovietica non ha mai posseduto”.

Il punto, però, è un altro. E cioè che per sviluppare DeepSeek – per non parlare dei successivi e ancor più economici modelli che ne hanno replicato i meccanismi – non c’è stato bisogno né di Stargate né di un suo equivalente. DeepSeek ha infatti dimostrato che è possibile sviluppare sistemi di intelligenza artificiale generativa in grado di rivaleggiare con quelli di OpenAI anche senza avere a disposizione le risorse dei colossi tech. 

Per riuscire in questa impresa, DeepSeek ha sfruttato la tecnica della distillazione, che permette a un modello linguistico più piccolo (lo “studente”) di assorbire la conoscenza di uno di grandi dimensioni (ribattezzato “insegnante”), mantenendo prestazioni simili ma con minori costi computazionali. Il modello più piccolo viene esposto alle risposte del modello più grande invece che ai soli dati grezzi, apprendendo più rapidamente anche schemi complessi.

Come ha scritto Michael Schuman su «The Atlantic», DeepSeek avrebbe bombardato ChatGPT di un migliaio di domande, tracciato le risposte e utilizzato questi risultati per addestrare i propri modelli. Il successo di DeepSeek ha alimentato dubbi sulla necessità di progetti mastodontici come Stargate, dimostrando che è possibile ottenere risultati eccellenti con una frazione delle risorse impiegate dai giganti del settore. In realtà le cose non sono così semplici: attraverso la distillazione è possibile soltanto ricreare le capacità di modelli già esistenti (e al massimo dotarli di nuove capacità), mentre per sviluppare nuovi e più avanzati sistemi di intelligenza artificiale sono comunque necessarie le enormi risorse a disposizione soltanto dei protagonisti del settore.

Per l’Europa, però, DeepSeek rappresenta l’esempio da seguire: un piccolo miracolo di efficienza, creatività e ottimizzazione delle risorse che mostra come il Vecchio Continente – alla luce dell’impossibilità di fare concorrenza alla pari alla Silicon Valley – potrebbe sviluppare modelli linguistici dalle prestazioni elevate senza rischiare di impantanarsi in progetti troppo ambiziosi per le nostre reali capacità e risorse.

Come ha spiegato, parlando con «Politico», Giorgos Verdi, esponente dello European Council for Foreign Relations, “non abbiamo le Big Tech che hanno gli Stati Uniti; non abbiamo il lusso di lavorare con loro al fine di mobilitare capitale privato. Quand’è che accetteremo di non essere in grado di competere con loro?”.

“Altro che ‘appena iniziata’: la corsa all’intelligenza artificiale è già a uno stadio avanzato e le posizioni sono ben delineate, con gli Stati Uniti al primo posto seguiti da una Cina che sta gradualmente riducendo il distacco”.

L’Unione Europea dovrebbe forse accettare il suo ruolo secondario e cercare di trarre il massimo da esso. C’è una ragione per cui l’UE negli ultimi dieci anni – dal regolamento sulla privacy (GDPR) all’AI Act, passando per il Digital Services e il Digital Markets Act – si è concentrata sulla regolamentazione invece che sullo sviluppo delle nuove tecnologie.

Nonostante le tante critiche relative al rischio che un eccesso di regolamentazione possa ostacolare l’innovazione (critiche non sempre condivisibili, alla luce dei tantissimi abusi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, generati soprattutto da una carenza normativa), fino a oggi l’Europa è stata un faro globale nella protezione della privacy, nella difesa degli utenti dai pericoli posti dall’intelligenza artificiale (in materia di sorveglianza e non solo) e nel contrasto allo strapotere dei colossi tecnologici.

E se fosse questo il nostro ruolo sullo scacchiere tecnologico globale? Nelle ultime settimane, la strategia che per almeno un decennio ha guidato l’azione europea sembra essere diventata un’eresia, come dimostra la parziale marcia indietro promessa da von der Leyen (“Il nostro obiettivo è promuovere l’innovazione e gli investimenti”, ha affermato di recente, sconfessando implicitamente la “furia normativa” di Bruxelles) e da Macron (che ha usato parole praticamente identiche).

Siamo sicuri che sia la strada da seguire? E se davvero – come molti temono – l’intelligenza artificiale è una bolla destinata a esplodere, su cui sono state caricate aspettative eccessive e impossibili da mantenere? E se i potenziali abusi di questa tecnologia – dalla disinformazione ai deepfake, dalla sorveglianza al taglio dei costi da parte delle aziende – si rivelassero superiori ai benefici? 

Difficile ci sia qualcosa da guadagnare in questa rincorsa all’entusiasmo statunitense. Soprattutto se la voglia di tenere il passo ci spinge a rinunciare a quelle norme che, se la scommessa si rivelasse sbagliata, potrebbero salvarci dal disastro.

Dal 4 aprile in libreria Simulacri digitali di Andrea Daniele Signorelli (add editore).

Andrea Daniele Signorelli

Andrea Daniele Signorelli è giornalista e collabora a diverse testate tra cui: «Domani», «Wired», «Repubblica», «Il Tascabile». È autore del podcast Crash – La chiave per il digitale.

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