L’identità italiana non esiste, ma tra poco si studierà a scuola - Lucy
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Christian Raimo

L’identità italiana non esiste, ma tra poco si studierà a scuola

02 Luglio 2024

I testi a cui si ispira il Ministro Valditara sono un confuso e male argomentato elogio dell’identità italiana. Ma a preoccupare davvero è il fatto che gli autori di quei libri sono gli stessi che redigeranno le future "Indicazioni nazionali" per i docenti.

A cosa serve la scuola italiana? A educare? A istruire? A formare il pensiero critico? È una palestra di democrazia? Il suo obiettivo è dare corpo ai principi della costituzione? Costruire insieme la cittadinanza del futuro? Sono domande a cui è difficilissimo rispondere. Da docente, me le pongo tutti i giorni, conservando una cautela nel formulare risposte che è anche un senso di responsabilità, nei confronti sia della mia professione sia del senso politico della scuola. 

Ma c’è chi questa responsabilità non la sente. Loredana Perla ed Ernesto Galli della Loggia hanno scritto un libro insieme che è al tempo stesso un progetto didattico e un manifesto; lo è nelle premesse, persino nel titolo, Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo. Parliamo di un volumetto di un centinaio di pagine, pubblicato da Scholé nell’autunno 2023, che sarebbe passato assolutamente inosservato, e anzi è passato inosservato, se non fosse stato scelto come testo di riferimento del ministro Valditara, che spesso negli ultimi mesi ne ha ripreso, in dichiarazioni pubbliche e iniziative istituzionali, lo spirito e anche la lettera. 

Il libretto è diviso in quattro capitoli, i primi due a firma della Loggia, il terzo e il quarto a firma Perla, che condividono lo stesso obiettivo: orientare la scuola italiana intorno all’asse dell’identità italiana. Ma cosa vuol dire “identità italiana”? Della Loggia e Perla lo ripetono fino allo sfinimento, con un’insistenza autogiustificatoria che somiglia a una confessione malcelata: vuol dire distinzione, non esclusione. E per convincere il lettore di questa tesi riprendono in modo approssimativo e manipolatorio un po’ di bibliografia sull’identità, citando male o addirittura travisando classici contemporanei di antropologia (Francesco Remotti e Arjun Appadurai, per esempio) per arrivare a sostenere posizioni cretinamente paradossali e strapiene di fallacie: 

Se dico ad esempio che l’identità dei napoletani è cosa diversa da quella dei baresi, ne discende forse automaticamente che un napoletano non possa saltare alla gola di un barese o viceversa se i due si incontrano per strada? Voglio forse dire che tra le due identità debba esserci per forza la guerra? Sarebbe semplicemente assurdo.

Pensando di aver trovato, con questo sgangherato metodo sofistico, una definizione esemplare di identità, passano poi a sciorinare altre definizioni improprie, in una sorta di rebranding dell’apparato categoriale che viene generalmente considerato di destra. Dopo “identità” tocca a “tradizione”, categoria che viene riscritta con una serie di passaggi ridicoli da un punto di vista argomentativo. Nel primo si dice: 

In realtà la tradizione non è altro che il compendio di una storia, una specie di suo riassunto spesso rivestito di tratti più o meno inventati, per renderlo più convincente o più evocativo.

Per della Loggia e Perla, quindi, storia e tradizione vengono assimilate tout-court; e la prospettiva secondo  cui l’identità di una nazione o di un popolo sia  un’arena di conflitti in cui spesso è il potere a definire immaginario, riti, ideologia, viene mortificata  da un passaggio che sembra  una parodia del razzismo ottocentesco:

Una popolazione dell’Italia meridionale, ad esempio, sarà probabilmente più pronta a esprimere vicinanza e simpatia verso la Spagna, che, mettiamo, verso la Svezia; analogamente è facile immaginare che sarà più disposta ad obbedire senza problemi ad una disposizione dei pubblici poteri una comunità di cultura tedesca piuttosto che, mettiamo, una di cultura kossovara.

Questa povertà dialettica va avanti a forza di “intendiamoci”, “lo sappiamo”, “è innegabile”, “non è così?” e altre  formule retoriche fiacchissime, fino a introdurre il tema del libro: l’identità italiana. Galli della Loggia ha scritto un testo dedicato all’argomento ventisei anni fa, intitolato proprio L’identità italiana, e da allora le sue posizioni si sono semplicemente sclerotizzate, mentre la sua capacità di confronto si è ridotta a poco più di paternali (“…modi ed esiti francamente inaccettabili come ad esempio di recenti fatti propri dalla cosiddetta cancel culture con i suoi processi retroattivi a Cristoforo Colombo o a Winston Churchill sulla base di sensibilità morali e criteri di giudizi storici attuali assurdamente applicate all’epoca in cui questi personaggi vissero”) o giudizi da pranzo in trattoria la domenica (“è certo innegabile la straordinaria varietà delle cucine locali di questo Paese, ma esiste un altro luogo al mondo dove si mangia dappertutto la pasta come da noi? Dove sono altrettanto presenti le verdure come sulle nostre tavole e sui nostri fornelli?”).

L’identità italiana non esiste, ma tra poco si studierà a scuola -

Le caratteristiche che secondo della Loggia connotano l’identità italiana sono un misto di geopolitica approssimativa – la conformazione del territorio che avrebbe portato a molte dominazioni straniere, per dire, o a una cultura agroalimentare che diventa distintiva – e una Storia polarizzata. Da una parte si ricorda il lato negativo del localismo e della mancanza di senso dello Stato; dall’altra, a supplire, il lato positivo dell’eredità dell’antica Roma (soprattutto quella dell’impero), la Chiesa e le forze dell’ordine, in particolare i carabinieri – con cui i bambini, secondo Galli della Loggia, si identificano. Sic. 

L’obiettivo di Insegnare l’Italia a questo punto è dichiarato: “la scuola deve certamente mirare a sviluppare nei suoi allievi una personalità completa e aperta al mondo ma che non può farlo che a partire da un’intima conoscenza della realtà italiana in tutti suoi più vari aspetti e dei legami che li tengono tutti insieme”. Acculturare, senza porsi nessuna domanda, senza nessun dubbio pedagogico, a questo feticcio dell’identità italiana. Ovviamente non si parla di ius soli, ma si ripete la stessa manfrina in un modo solo apparentemente problematico: 

Per quel che riguarda un certo numero di materie che cos’altro potrebbe mai insegnare la scuola italiana se non nozioni, saperi, stati d’animo che in un modo o nell’altro riguardino l’Italia o comunque abbiano l’Italia come loro principale referente.

Qui si sta davvero suggerendo che qualcuno possa immaginare un’educazione emotiva italiana? Galli della Loggia non teme di diventare via via meno autorevole e leggibile, infine ridicolo, quando fa affermazioni del tipo “la scuola deve perseguire l’obiettivo dell’inclusione, in che cosa dovranno essere inclusi i giovani immigrati o figli di immigrati se non in un ambiente italiano e per ciò stesso necessariamente in buona misura italocentrico?”.

È chiaro e un po’ spaventoso che discetti di scuola senza avere idea di cosa sia il concetto di inclusione. Ignora molte cose, la pedagogia quasi per intero. Ma – ed è questa la cosa più grave – le sue idee vengono raccolte e fatte proprie dal ministro Valditara. Capita per esempio che a quella polemica assurda di qualche mese fa sulla preistoria e i dinosauri si trovi origine e senso proprio nelle pagine di questo libretto. Perché l’insegnamento della storia sarebbe gravato, sostiene della Loggia (e con lui Valditara ovviamente), da un errore capitale: “il fatto di iniziare con i cosiddetti primordi dell’umanità. È da tempo, insomma, che i bambini prendono a studiare la storia cominciando dalla notte dei tempi. Il che vuol dire che un ragazzetto di sei-sette anni si trova come prima cosa a doversela vedere con quello che si chiama ‘il processo di ominazione’”. 

“Sembra uno scherzo. Ma è il progetto pedagogico principale a cui il ministro dell’Istruzione e del Merito dà credito in questo momento, ispirandosi al quale vuole riformare la scuola italiana. Sembra una distopia fascionazionalista in salsa agrodolce”.

Secondo della Loggia e Perla – e quindi secondo Valditara, e quindi secondo la commissione che dovrebbe rivedere le Indicazioni nazionali (ci arriviamo nel paragrafo successivo) – questo “ragazzetto” di fronte alla preistoria si troverebbe spaesato, “scaraventato nell’abissale vortice del tempo”, in cui dovrebbe avere a che fare con Sumeri e Assiri, civiltà micenea… e altri mostri. Questo rischio viene chiamato “prospettiva globalista”. E “quale valore pedagogico, e prima che pedagogico civile e umano, può mai avere, mi chiedo, una scelta siffatta?”. 

A pag. 46, poi, si scoprono le carte, scrivendo  esplicitamente che l’obiettivo sono le Indicazioni nazionali (“i programmi, per scrivere come si parla”). Le Indicazioni nazionali sono una sorta di carta costituente della scuola italiana. Quelle del 2012 sono state redatte da una commissione molto ampia, a cui hanno contribuito in vario modo una cinquantina di docenti, coordinata da Giancarlo Cerini e Italo Fiorin, facendo tesoro di decenni di  riflessioni della scuola democratica italiana e degli esperti più autorevoli delle didattiche delle discipline; non a caso vengono ringraziati per “gli autorevoli suggerimenti” anche i linguisti Tullio De Mauro e Francesco Sabatini. L’aggressione di della Loggia e Perla a quel documento è brutale. 

Chi è convinto che si possa far capire ad un bambino di otto-nove anni che sia “la custodia e la trasmissione del sapere” ovvero “il sorgere e l’evoluzione del sentimento religioso e delle norme”, come pretenderebbe il gruppo di scervellati che ha redatto i programmi attualmente in vigore mostra di non avere la minima idea della realtà.

Quindi, con cosa i due propongono di sostituire l’orizzonte pedagogico delle Indicazioni nazionali?

Nella scuola primaria, insomma, sarebbe assai meglio cominciare lo studio della storia con le vicende storiche italiane. Ho detto non a caso storiche italiane, al plurale, e non già storia d’Italia, perché penso che a questo livello iniziale la storia debba essere presentata al bambino essenzialmente come una serie di racconti di singoli episodi. Anche cronologicamente slegati tra di loro, se si vuole, ma capaci di colpire la sua immaginazione (qualcosa di simile sia pure molto alla lontana ai racconti mensili di Cuore).

Sembra uno scherzo. Ma è il progetto pedagogico principale a cui il ministro dell’Istruzione e del Merito dà credito in questo momento, ispirandosi al quale vuole riformare la scuola italiana. Sembra una distopia fascionazionalista in salsa agrodolce, e uno potrebbe sperare che questa proposta resti almeno nel vago, per l’imbarazzo di vederla articolata. Ma no. Della Loggia e Perla vogliono puntualizzarla: anno per anno, su scuola primaria e media. 

L’identità italiana non esiste, ma tra poco si studierà a scuola -

I capitoli a firma Loredana Perla, il terzo e il quarto, non sono meno inquietanti, soprattutto perché Perla è docente ordinaria di pedagogia a Bari. Sostiene che insegnare al bambino l’identità italiana gli tolga l’angoscia della polidentità, qualunque cosa significhi. Usando in modo casuale altri riferimenti storiografici che anche qui non padroneggia (fa di Gramsci un precursore del sovranismo), Perla arriva a presentare un vero monstrum pedagogico. 

A mio parere gli insegnanti hanno, per così dire, il “dovere” di ricercare e proporre concetti interdisciplinari in ragione della profonda e costitutiva unitarietà della coscienza dello studente e della sua esigenza di raggiungere, nel corso del suo apprendimento e nell’analisi della realtà, un senso complessivo e unitario dell’oggetto, dell’argomento, dell’esperienza che sta svolgendo. L’identità italiana risponde esattamente a questa esigenza della mente che apprende. Essa dà ordine concettuale agli apprendimenti delle singole discipline, connette gli elementi semplici nelle maglie di uno sfondo integratore.

Come volevasi dimostrare, l’identità italiana è la soluzione a qualunque questione pedagogica. È un concetto “ordinatore”. Addirittura diventa una categoria ermeneutica per l’intero scibile. 

Apprendere cosa voglia dire “l’identità italiana” aiuterebbe lo studente a comprendere i rapporti con l’altro e a discernere concetti astratti quali differenza e scarto che sono decisivi per arrivare a capire chi siamo e da dove veniamo.

Il livello di disonestà e sciatteria intellettuale di questi passaggi è tale che l’unico commento che si può fare è ricordare la necessità non solo educativa ma politica di contrastare questo progetto, la cui mancanza di clamore è proporzionale all’allarme che suscita. Le restanti pagine di Insegnare l’Italia sono interessanti da leggere per capire come questo disegno revisionistico venga applicato, con la stessa incompetenza, anche alla letteratura italiana. In un articolo pubblicato su Domani, Matteo Di Gesù è riuscito a sintetizzare meglio di quanto potrei fare io il delirante progetto di riprendere Cuore e Le avventure di Pinocchio come viatico, quasi un obbligo, per l’apprendimento di questo culto dell’identità italiana. 

Come ci si poteva aspettare, dai due romanzi la pedagogista ricava un florilegio di spunti e suggestioni a sostegno delle sue tesi: l’istruzione come apprendimento dell’italianità (“Cuore è un dispositivo didattico perfetto per insegnare le ‘coordinate di popolo’, quelle che ogni bimbo bimba italiani dovrebbero in interiore homine maturare”), il ripristino dell’autorità genitoriale (paterna, per lo più) e magistrale, la rimozione delle differenze (di classe, di genere…), la liquidazione della pedagogia “sessantottina” e di “una intera stagione che ha lasciato in eredità ai suoi posteri mille e una mela avvelenata”.

La disamina di Insegnare l’Italia potrebbe proseguire. Soprattutto andrebbe analizzata la rete di riferimenti bibliografici che vengono presi in considerazione, e anche la ricezione che questo libro ha avuto presso il Ministero. Ma il livello spesso surreale del testo rischia di far sembrare questo articolo il resoconto di una storia inventata, in cui un gruppo di scombiccherati educatori decide di stravolgere il sistema scolastico italiano e obbliga gli studenti a studiare l’aneddotica della patria: una puntata di South Park ambientata in Italia, con Stan, Kyle, Cartman e Kenny fra centurioni romani, carabinieri, Garibaldi e Mussolini che sventolano il tricolore in un cortile scolastico. 

Purtroppo non è così. È del 23 giugno la notizia che la commissione per la revisione coordinata da Loredana Perla ha già cominciato a riunirsi. E nonostante l’opposizione di docenti e sindacati, sta tirando dritto. Chiunque non voglia trovarsi in una distopia a basso budget, dovrebbe trovare tempo e modo per opporsi a questo massacro del sistema scolastico, se non vuole restare con l’unica opzione di morire in un mesto hara-kiri, come potrebbe fare Kenny alla fine di questa assurda puntata filopatriottica.

Christian Raimo

Christian Raimo è insegnante, saggista, scrittore. Il suo ultimo libro, in collaborazione con Alessandro Coltré, si intitola Willy. Una storia di ragazzi (Rizzoli, 2023).

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