Non ce lo siamo meritati, Alberto Sordi - Lucy sulla cultura
articolo

Giuseppe Sansonna

Non ce lo siamo meritati, Alberto Sordi

15 Giugno 2025

Dietro la maschera dell’italiano medio, Alberto Sordi ha incarnato come pochi la deriva grottesca e tragica della modernità. Attore “insondabile”, come lo ha definito Franca Valeri, attraversò con ironia e terrore il lato oscuro del nostro carattere nazionale, portando la commedia all’italiana sul bordo dell’abisso.

“Te lo meriti, Alberto Sordi!”.

Così, in pieno 1978, in una sequenza di Ecce Bombo, l’alter ego morettiano Michele, nauseato dal qualunquismo di un avventore, scuoteva l’apatia serale di un bar romano, vomitando rabbia sul più nazionalpopolare degli attori italiani. L’accusa, intuibile sotto l’isteria, consisteva nell’aver offerto un’immagine dell’italiano medio  tanto meschina quanto autoassolutoria. Mostrandolo, a partire dai primi anni cinquanta, curiale, mammone, ferocemente opportunista ma in fondo sempre indulgente con sé stesso. Eppure questi, di Alberto Sordi, sono solo gli strati di superficie, la sua patina più ovvia. 

Un anno prima Moretti, in un celebre scontro televisivo con Mario Monicelli si era già allineato al conformismo pavloviano di tanta critica di sinistra, definendo il borghese piccolo piccolo un Charles Bronson all’amatriciana, esecrabile protagonista di un film reazionario. Opinione riduttiva: l’impiegato che crede di elaborare il suo lutto trasformandosi in assassino è in realtà un sintomo complesso e disturbante del proprio tempo, distante dalla monodimensionalità del giustiziere della notte. Incarnazione in celluloide di una creatura letteraria di Vincenzo Cerami, l’impiegato Giovanni Vivaldi galleggia acritico nella violenza quotidiana del ceto medio, consumata nel traffico urbano e nelle gerarchie da ufficio ministeriale, anche prima della tragedia che lo attende. Supino al cospetto di ogni potere ma nostalgico dell’uomo forte, e degli ardori giovanili in orbace, familista ma sprezzante nei confronti della moglie, vede accartocciarsi il suo grigio cielo di carta quando il proiettile vagante di un rapinatore ammazza il suo unico figlio. Cattolico per la stessa convenienza che lo aveva indotto a incappucciarsi da massone, si sente tradito dalle istituzioni, e segretamente anche da Dio. Accantonerà definitivamente ogni residuo di pietas cristiana, convertendosi alla legge del taglione.

Sordi affronta con coraggio, questo borghese così piccolo eppure così incarognito, degenerazione senile di tanti omarini incarnati in carriera. Imbevendo di terrore e follia il suo repertorio di entusiasmi striduli, indolenze ciniche, protervia e patetismo, diventa la versione apocalittica del ragionier Fantozzi, suo vicino di casa arrivato nei cinema solo due anni prima, nel ‘75. Ma se le finestre affacciate sulla circonvallazione, le due camere e cucina equo canone, i mesti arredi intrisi di soffritto sembrano proprio gli stessi, a casa Vivaldi si respira una cupezza irreversibile. La tragedia rende Vivaldi ancora più schizofrenico: dopo una vita intera passata a umiliarla, diventa infermiere pietoso della sua Pina Shelley Winters, semiparalizzata e ammutolita dal dolore. Rapisce e tortura con perizia l’assassino di suo figlio, ma si mostra per un attimo sinistramente paterno, quando scopre che il ragazzo non ha retto alle sue sevizie ed è morto anche lui, raddoppiando il suo lutto. Crolla in un pianto disperato, senza prendere nessuna coscienza di sé. Lo sguardo mortifero, assetato di nuove vendette, al volante della sua Seicento, chiude il film e depone una pietra tombale sulla commedia all’italiana, inaugurata nel dopoguerra dallo stesso Sordi e ormai inadeguata a farsi specchio dell’Italia livida di fine anni Settanta. 

Il vitellone cinico ma quasi innocuo, il mitomane parrocchiale e petulante, l’americano a Roma si allontana invecchiando dal sogno illusorio di Kansas City, perso in una Roma cupa come Providence. Basterebbe giocare con i tagli di luce sul suo volto, cambiargli pettinatura, per rilevare una certa somiglianza tra Sordi e Lovecraft; fisica, ma forse anche esistenziale. Dietro la versione turistica, visiera da baseball, occhio bovino e guance gonfie di spaghetti, buona come arredo per le inestinguibili trattorie fintoromanesche, palpita un enigma. 

“Insondabile”: così ha definito Sordi quell’altro genio di Franca Valeri, sua partner ideale, simbiotico Super-io milanese in capolavori come Il vedovo. Commedia antiumanistica, diretta da Dino Risi nel 1959, vede un Sordi molto a disagio, in una Milano decollata verso il boom. Fallimentare imprenditore romano, viene tenuto al cappio da sua moglie, una Valeri antropologicamente più adatta al liberismo. Amorale come lui, ma dotata di un implacabile fiuto per gli affari. Intorno alla coppia, si agita una coralità aberrante, priva di pietà: i poveri fanno ribrezzo come i ricchi e chi progetta un omicidio e una ricca vedovanza, si troverà ammazzato, spinto in una tromba dell’ascensore da complici maldestri. Acuto entomologo di mostri, Risi ammetteva di non aver mai provato, né sul set né in privato, a sfilare a Sordi la sua maschera. A fermarlo era la paura di non trovare, sotto pelle, nulla di umano. Bisogna cercarla negli interstizi biografici, in frammenti sparsi di una filmografia sterminata, l’anima esoterica del paradosso sordiano, così lampante e così irrisolto.

“Lo sguardo mortifero, assetato di nuove vendette, al volante della sua Seicento, chiude il film e depone una pietra tombale sulla commedia all’italiana”.

Tracce utili vengono fornite da Rodolfo Sonego, tra i suoi sceneggiatori più assidui. Bellunese, ipercolto, pittore, ex partigiano, in apparenza è lontanissimo dall’attore a cui ha regalato più di cento vite. Eppure, a partire dai primi anni cinquanta, i due inaugurano un’intesa inossidabile. Sonego attribuisce a Sordi un’animalità mimetica, un intuito quasi preculturale, che gli consente di intravedere in quel gemello nordico, pieno di vita e letteratura, la sua parte mancante. “Il cervello”, suggerisce un po’ drasticamente Tatti Sanguineti in un libro dedicato al loro rapporto creativo, sodalizio intenso e lunghissimo, fatto di sole sedute di sceneggiatura, e nemmeno un momento privato. Di Sordi, a Sonego piace la follia, quella condivisa attrazione, molto imprudente nell’Italia paludata che li circonda, per i caratteri disturbanti.

Non sempre Sordi sposa le tesi di fondo dei film che interpreta, ma non sembra preoccuparsene troppo. Se intuisce una verità, nel copione proposto, accetta qualsiasi ruolo. Soprattutto i più spregevoli, lasciando sullo sfondo le motivazioni ideologiche e mirando all’essenza ambigua dell’umano. A ingolosirne il vampirismo sono i difetti e gli errori della gente: cattura tic con lo sguardo e assorbe posture fisiche, spie di carenze interiori, di devianze spesso lontanissime dalla sua esperienza personale, di cattolico praticante. Per Sonego, anche la fede sordiana è indecifrabile: gli sembra quasi un rituale apotropaico, un modo per esorcizzare il terrore del Giudizio universale. Titolo di un film corale di Vittorio De Sica, datato 1961, opera zavattiniana, tra neorealismo fiabesco e commedia nera, a cui Sordi porge il suo lato in ombra, spiccando su di una nutrita coralità di attori. Occhiaie malevole come il ghigno, è un abietto trafficante di bambini, sottratti alle famiglie numerose del sottoproletariato napoletano, per essere rivenduti a benestanti americani.

Ruolo orrorifico, più che comico, come la spiegazione fornita a Sonego, sulla sua renitenza al matrimonio: Sordi non vuole una donna al suo fianco, nel letto matrimoniale, perché teme che lei, durante il sonno “gli buchi il cuore con un ferro da maglia, infilato tra le costole”. Il citatissimo manifesto sordiano a difesa del celibato – “Che, me metto un’estranea in casa?” era dunque solo una copertura machista d’alleggerimento, un motto di spirito per nascondere un’angoscia reale.

Sordi, nella chimica dello schermo, appare fisiologicamente molto diverso, dagli altri colonnelli della commedia. Quasi inorganico, almeno quanto Ugo Tognazzi è carnale, denso di una corporeità verosimile. Se Manfredi sapeva indossare una sgradevolezza misurata, fatta più di tecnica che di istinto, ma sempre molto umana, Vittorio Gassman rovesciava nel comico il suo superomismo da mattatore alfieriano, eroe monumentale costretto a ingoffirsi, abbassarsi la fronte, balbettare artificialmente, per assomigliare un po’ agli italiani macilenti e in canottiera del dopoguerra. La sessualità scenica dei suoi tre colleghi è sempre nitida, percepibile. L’eros di Sordi è invece più sospeso, straniato, ai limiti dell’ipotetico. 

“Basterebbe giocare con i tagli di luce sul suo volto […] per rilevare una certa somiglianza tra Sordi e Lovecraft; fisica, ma forse anche esistenziale”.

Giovane trasteverino, cullato a lungo dalla famiglia, adepto dell’Azione Cattolica, si divide da ragazzo tra le compagnie di rivista traboccanti di ballerine e le case di tolleranza. Quando interpreta Agostino, ultracattolico censore de Il moralista, segretamente dedito alla tratta delle bianche, condensa figure gesuitiche che ha visto da vicino, pervicacemente assetate di potere, scisse tra vizi privati e pubbliche virtù. Poi, da maturo, si trincera in un nido quasi pascoliano, allestito con le due sorelle, nubili eterne e vestali del suo culto. I tre Sordi, Savina, Aurelia e Alberto, connotati da una paurosa somiglianza fisica, condividono una villa, costruita negli anni trenta e appartenuta ad Alessandro Chiavolini, segretario particolare del Duce: una casa Usher incastonata nella Roma classica, a un passo dalle terme di Caracalla. 

Stando ai racconti di Carlo Verdone, dopo la morte di Savina, sorella maggiore, la dimora precipita in un silenzio claustrale: persiane andreottianamente sempre abbassate, cellophane a soffocare i mobili settecenteschi come i quadri, una piscina eternamente a secco, soprattutto d’estate. Unici posti vivi, i teatri domestici della finzione: la barberia sempre illuminata come un grande camerino e il cinema adibito alla proiezione dei suoi film, solo per gli intimi. Un Sunset Boulevard già museale, accarezzato dal ponentino, in cui la presenza del femminile, sorelle escluse, è avvolta in un mistero pudico, affiorante in una foto in salotto della principessa Soraya e una devozione quasi pasoliniana, madonnesca, per Silvana Mangano. Corre voce che la fisicità sia riservata a lande esotiche, a margine dei set, o addirittura agli abitacoli delle auto. Di certo, è sempre sfuggita ai paparazzi.

Non è banale nemmeno la romanità, di Alberto Sordi. Più che negli imparruccamenti da Marchese del Grillo, sempre citato per le battute più grevi, la sua vicinanza al ferale disincanto di Gioachino Belli si sente nella grana, e nella musicalità della voce. Così inequivocabilmente romana eppure così personale, assurdamente perfetta per doppiare un mito universale come Oliver Hardy. Suo tratto distintivo, come quella risata abissale, addio alla vita di uno dei suoi film titoli più tetri, La più bella serata della mia vita, tratto dal racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt. Imputato di un farsesco processo esistenziale, messo in scena in un isolato albergo svizzero da un collegio di magistrati in pensione, viene condannato a morte, per la sua vita da squallido arrampicatore sociale. Scopre sulla sua pelle che non si tratta di uno scherzo, una di quelle burle pesanti che amava da ragazzo, prima della celebrità. 

“Chi è, davvero, Alberto Sordi? L’epitome della medietà o una figura abnorme?”

Come un Man on the Moon situazionista, un Andy Kaufman piovuto dal futuro, nella Roma del dopoguerra, era già un comico eccessivo in pectore, amante delle performance solipsistiche, spesso mirate a divertire solo sé stesso. A volte girava per la città in gonna, con arrembante disinvoltura. In altre occasioni aggrediva alle spalle sconosciuti schiacciandogli le palpebre con violenza e urlando più volte: “Chi sono???”. Per poi fingere contrizione, millantando uno scambio di persona. Chi è, davvero, Alberto Sordi? L’epitome della medietà o una figura abnorme? Un eroe dei nostri tempi risponde Monicelli, scritturandolo come protagonista un film di metà anni cinquanta, dal titolo lermontoviano. Impiegato servile, celibe trentenne tenuto a balia da due perpetue, ipereccitato e paranoico, vive nel timore di apparire eversivo, nella militarizzata Roma scelbiana. Diventerà poliziotto, per passare dalla parte di chi la paura la incute. “Ci sarà pericolo?” è il suo interrogativo in divisa, a bordo di una jeep lanciata verso uno dei tanti conflitti sociali, nel finale del film. 

Il pericolo e la paura serpeggiano spesso, nelle peregrinazioni di Sordi. Barba ispida, capello scomposto, occhi vitrei e arrossati, sprofonda gradualmente in una pazzia irreversibile, durante l’ingiusta, kafkiana detenzione in attesa di giudizio, chiamato a un ruolo drammatico da Nanni Loy. In giro per il mondo, da borghese di provincia in cerca di esotismi o emigrante disperato, viene spesso deluso, emarginato, alienato dall’impenetrabilità londinese, svedese, degli Stati Uniti e dell’Australia. Ansiogeno è anche il suo viaggio in America in Mafioso, di Alberto Lattuada. Marco Ferreri e Rafael Azcona collaborano alla sceneggiatura, aggiungendo humour nero alla storia di un siciliano apparentemente integrato nella Milano ipertecnologica, ma richiamato ai suoi doveri di picciotto. Per onorare il boss del suo paese, artefice della sua fortuna professionale, si lascia chiudere in una cassa e spedire a New York, viaggiando clandestinamente nella stiva di un aereo. Crivellerà di colpi un nemico del suo clan, tornando subito in Italia, impacchettato come nel viaggio di andata, a garanzia di un alibi di ferro. Il Sordi sicario mafioso, prima esitante poi allucinato e feroce, ha una sua surreale, raggelante credibilità. Protagonista di un gangster movie così intenso da aver sedotto e influenzato anche Martin Scorsese.

Eppure oggi, sulla scena italiana, il miglior Sordi forse non troverebbe spazio.

Nell’Italia attuale il cinema è anemico, sostanzialmente innocuo. Dopo lo slittamento spettacolare accelerato dal berlusconismo, sono i politici a travestirsi da mattatori, in un selfie permanente. Il loro compiaciuto, triviale istrionismo, copertura dell’inadeguatezza al ruolo, viene puntualmente amplificato dagli imitatori televisivi, alimentando uno show al ribasso, mirato a distrarre l’uditorio dalla complessità dello scenario politico ed economico, polarizzandolo in opposte tifoserie. Sordi, a metà anni settanta, punta molto più in alto. Come ha raccontato il saggista Luca Martera, ambisce a portare sul grande schermo, in una storia di sosia e attentati mancati, la faccia più sinistra dell’imperialismo americano, quell’Henry Kissinger a cui somiglia in maniera imbarazzante. Lo vede come una proiezione del suo eterno personaggio, una sintesi della sua galleria di uomini, omoni, omini, schiavi e vittime del potere. Sembra che a dissuaderlo, dopo anni di lavoro, siano stati comuni amici autorevoli, come Agnelli e Andreotti. Gli lasciano intuire l’inopportunità del progetto, e lui finisce per rinunciare.

L’unica maschera cinetelevisiva rilevante, degli ultimi vent’anni, vagamente accostabile a Sordi, è Checco Zalone. Homer Simpson fattosi carne in salsa pugliese, è dotato di grande forza comica e intelligente qualunquismo. Nei suoi film dosa scientificamente battute e situazioni perfettamente reversibili, interpretabili in modi opposti a seconda dell’orientamento di chi ascolta. Non a caso, ha sempre ricevuto tentativi di appropriazione più o meno indebiti dall’intero arco costituzionale, galleggiando in divertente superficie e non ferendo nessuno. Sordi, tra capolavori, film passabili e passaggi a vuoto, ha invece finito per mostrare uno sguardo sul suo tempo, lambendo spesso il perturbante, il freddo profondo del comico. Illuminando l’anima nera, non solo la mediocrità, di un tessuto antropologico, fatto di imprenditori in crisi disposti a vendere una cornea, a cedere fuor di metafora un occhio della testa, per mantenersi all’altezza del boom, e delle pretese coniugali.

“Sordi ha invece finito per mostrare uno sguardo sul suo tempo, lambendo spesso il perturbante, il freddo profondo del comico”.

Contagiati dalla stessa mortifera frenesia dei borgatari che non riescono a smettere di perdere la dignità, in uno scopone più irrazionale che scientifico, allegoria del Piano Marshall, contro la miliardaria strega americana Bette Davis.

Ruoli proibitivi per chiunque, come il piazzista d’armi di Finchè c’è guerra c’è speranza, diretto e interpretato da Sordi nel 1974. Un mercante di morte costretto a misurarsi con l’orrore di sé, con il bilancio di una vita spesa a mantenere il consumismo vorace dei familiari, imbarazzati dalla consanguineità, ma esattori implacabili dei suoi fatturati. Nel finale spiega ai figli che per mantenere il loro benessere, “qualcuno deve pur essere depredato: ecco perché si fanno le guerre”. Rozzo nella messinscena, didascalico nei contenuti, eppure terribilmente umano, sanguinosamente attuale mezzo secolo dopo, Sordi sembra davvero coinvolto in ciò che urla, consapevole del suo peso mediatico. Il mostruoso uomo medio, razzista e colonialista, stigmatizzato da Pasolini, si immerge in una seduta di autocoscienza, alla fine di un film popolare.

No, forse non ce lo siamo meritati, Alberto Sordi.

Giuseppe Sansonna

Giuseppe Sansonna è autore e regista di Rai Cultura e ha firmato diversi libri e documentari. Dal 2019 scrive recensioni cinematografiche e saggi per la rivista «Linus». Il suo ultimo libro è Hollywood sul Tevere. Storie scellerate (Minimum Fax, 2016).

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