Eleonora Dragotto
04 Giugno 2025
Indagine su una pratica che tra requisiti anacronistici, selezioni rigide e lunghe attese scoraggia molti aspiranti genitori adottivi.
“Ogni nostro gesto era sotto esame, da come la prendevamo in braccio a come le cambiavamo il pannolino”. Sara, che con il marito Paolo nel 2018 ha adottato una bambina di 20 giorni, ricorda così la paura di sbagliare mentre si trovava in ospedale con sua figlia per la prima volta. Una situazione che per qualsiasi neo mamma sarebbe considerata insopportabile, ma che lei ha dovuto affrontare, perché come ogni aspirante genitore adottivo si è esposta al giudizio di magistrati, psicologi e assistenti sociali.
Per adottare in Italia è infatti necessario ricevere un decreto di idoneità da un tribunale minorile, che si ottiene solo dopo un’indagine dei servizi sociali che, nell’interesse del minore, è il più dettagliata possibile. A essere valutati sono aspetti molto diversi dei candidati genitori, dalle possibilità economiche all’empatia, passando per la solidità della relazione di coppia. “Questi professionisti scavano molto a fondo e, giustamente, vanno a toccare i tasti dolenti, gli aspetti irrisolti di ciascun aspirante genitore e della coppia. Alcuni colloqui per noi sono stati molto pesanti”, spiegano Sara e Paolo, che pur desiderando altri figli hanno rinunciato a una seconda adozione proprio per le difficoltà dell’iter adottivo.
Anche i genitori ritenuti idonei possono peraltro vedere revocato il proprio abbinamento con un minore, ad esempio perché, nel caso di un neonato in ospedale, non sono riusciti a costruire un legame con lui. Questa eventualità, che è comunque rara, rimane emblematica della pressione a cui sono sottoposti gli aspiranti genitori – paradossale che ai corsi pre-parto venga detto alle future madri biologiche di non preoccuparsi troppo se fin dal principio il bimbo non appare come proprio: la relazione si costruisce nel tempo.
Perché l’adozione venga finalizzata deve poi trascorrere il periodo di affidamento preadottivo (della durata massimo di un anno, prorogabile a due e sempre revocabile in casi di grave difficoltà), durante il quale il minore è considerato collocato provvisoriamente al domicilio degli (ancora) aspiranti genitori. “Ricordo che in quella fase dovevamo chiedere l’autorizzazione per ogni vaccinazione e non potevamo battezzarla, visto che ancora non risultava nostra figlia”, afferma Sara.
” I genitori ritenuti idonei possono peraltro vedere revocato il proprio abbinamento con un minore, ad esempio perché, nel caso di un neonato in ospedale, non sono riusciti a costruire un legame con lui. Questa eventualità, che è comunque rara, rimane emblematica della pressione a cui sono sottoposti”.
Va detto che se in Italia si è tanto selettivi con chi vuole adottare è anche perché, al contrario di quanto si sente dire, il numero di minori adottabili è fortunatamente esiguo. Negli ultimi venti anni, secondo i dati del ministero della Giustizia, la media è di circa mille all’anno, con almeno sei coppie disponibili per ogni bambino. “Non è assolutamente vero che ci sono tantissimi bambini adottabili”, spiega Ivana Lazzarini, presidente e tra i fondatori di ItaliaAdozioni. “Questa è una delle più diffuse credenze errate legate all’adozione, di cui la nostra associazione ha redatto un decalogo. A essere numerosi sono semmai i minori in affido (intorno ai trentamila, di cui circa metà presso parenti della famiglia di origine o famiglia affidataria e metà in comunità residenziali), che però non sono adottabili perché hanno una famiglia d’origine, con la quale si sta lavorando, proprio perché il minore possa rientrarvi. Ogni bambino dovrebbe poter crescere con i propri genitori, l’adozione è l’estrema ratio per situazioni tanto gravi da comportare il decadimento della patria potestà”.
Un percorso a ostacoli
Esistono poi requisiti precisi per potersi candidare all’adozione. Per quella nazionale (cioè di minori in stato di abbandono, anche di origine straniera, che si trovano in Italia) bisogna essere sposati, con una convivenza comprovata nei tre anni precedenti al matrimonio (al di fuori del matrimonio è consentita solo in casi speciali, come quelli di minori con disabilità o con i quali ci sia un rapporto di parentela o stabile e duraturo). I single sono ammessi unicamente all’adozione internazionale e soltanto dallo scorso 21 marzo, quando una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la parte dell’articolo 29-bis, comma 1, della legge numero 184 del 1983 (che disciplina l’adozione nel nostro Paese) che li escludeva da questa possibilità. L’idea diffusa tra giuristi e associazioni è che presto una nuova decisione della consulta potrebbe aprire anche le adozioni nazionali a chi non è sposato, vista la palese disparità di trattamento. Da notare che le coppie unite civilmente (Lgbtqia+ e non) restano escluse in quanto tali da entrambe le forme di adozione. Mamme e papà adottivi devono poi avere almeno 18 e non più di 45 anni rispetto ai minori adottati (ma sono previste deroghe nel caso il limite sia superato solo da uno dei due genitori e se l’esclusione dei candidati comporta un danno grave per il minore).
Il primo step del percorso adottivo è depositare la propria disponibilità (valida per tre anni e rinnovabile), con la possibilità di estenderla a più tribunali dei minori per aumentare le possibilità di successo. La documentazione richiesta, però, cambia di volta in volta a seconda della sede, facendo moltiplicare tempi e costi. “Tutto questo si potrebbe evitare se, come la nostra associazione ha chiesto alle due camere, queste procedure venissero uniformate e si creasse una banca dati nazionale degli aspiranti genitori (consenzienti), alla quale i giudici possano attingere”, dice Lazzarini.
Una volta ricevuta la disponibilità, il tribunale dà inizio ai colloqui conoscitivi, ai quali però non seguono comunicazioni nel caso in cui le coppie non vengano ritenute idonee: i feedback negativi non vengono dati. Per chi viene selezionato, le tempistiche per ricevere una proposta di abbinamento con un minore variano a seconda del tribunale di riferimento, con attese maggiori nei grandi centri. Sebbene la legge preveda lo svolgimento delle indagini sulle capacità della coppia entro 120 giorni (prorogabili solo una volta), il personale di tribunali e servizi sociali, oberato di lavoro, raramente riesce a rispettare questi termini. “È quanto mai urgente e necessario che la politica investa in questi settori, perché gli anni che i minori perdono nell’attesa di sentenze e decisioni non tornano più, con un costo incommensurabile per loro vite”, afferma Lazzarini.
L’adozione nazionale
Una volta ricevuta l’idoneità, può anche accadere che le proposte di abbinamento siano con minori con storie complesse alle spalle. Francesca Paini e Giacomo Chirico, oggi genitori adottivi di un bambino di 9 anni nato in Vietnam, inizialmente erano stati chiamati per l’adozione nazionale. “Era una situazione estremamente delicata e impegnativa che doveva essere gestita da una coppia in grado di farlo e noi non ce la siamo sentita”, ricorda la coppia. “La piccola aveva già avuto una mamma biologica e una affidataria e, in base a quanto si evinceva da alcuni suoi comportamenti, aveva assistito a degli abusi”.
Le adozioni nazionali presentano poi un rischio giuridico, perché la famiglia di origine dei minori può impugnare il provvedimento di adottabilità. Per i bambini non riconosciuti alla nascita, questo rischio dura due mesi, ma in altri casi è necessario attendere la sentenza della Corte d’appello, ed eventualmente della Cassazione, sul ricorso dei genitori biologici. “La nostra adozione risale al 2019, ma si è conclusa solo a dicembre 2024, perché il padre biologico di nostro figlio ha chiesto l’annullamento della propria limitazione genitoriale”, racconta Cinzia (nome di fantasia), che ha adottato un bambino di due anni. “Abbiamo dovuto aspettare che la legge facesse il proprio corso, era come avere una spada di Damocle sulla testa”.
È giusto sottolineare che non tutte le storie adottive sono così complicate. Quella di Luana e Federico, ad esempio, si è conclusa felicemente nel lasso di una gestazione, nove mesi. “Sicuramente ci sono lungaggini dovute ad aspetti burocratici, ma talvolta le coppie aspettano perché non sono ancora pronte”, racconta lei, mamma adottiva di una bambina di 40 giorni. “Noi, ad esempio, prima di presentare la domanda di adozione, ci siamo preparati frequentando l’associazione Famiglie in cerchio e facendo volontariato in una comunità residenziale per un anno. Attraverso queste attività anche mio marito, che inizialmente aveva dubbi sul diventare genitore adottivo, si è aperto persino all’affido e alle adozioni con rischio giuridico, perché il suo focus si è spostato dal suo desiderio di genitorialità alle necessità dei bambini di ricevere l’amore di una famiglia”.
L’adozione internazionale
A differenza delle adozioni nazionali, i cui numeri sono stabili da vent’anni, come si evince dai report della Cai (Commissione per le adozioni internazionali della presidenza del Consiglio dei ministri), quelle internazionali negli ultimi 13 sono crollate, passando dalle circa 2500 del 2012 alle circa 500 del 2024. Le ragioni di questa crisi vanno dalla più diffusa consapevolezza dei bisogni speciali dei bambini adottati all’estero alla preferenza accordata alla procreazione medicalmente assistita. Diversi Paesi, inoltre, si sono chiusi alle adozioni internazionali perché coinvolti in conflitti o interessati da scandali che hanno portato a galla gravi crimini nelle pratiche adottive – con, nei casi peggiori, bambini sottratti alle famiglie di origine senza consenso, per motivi economici – come avvenuto ad esempio in Cile, Corea del Sud e Svizzera.
In generale, i genitori che adottano all’estero devono superare una serie di ostacoli aggiuntivi, tra cui leggi e procedure diverse per determinare la loro idoneità. E a scoraggiare sono anche i lunghi tempi di attesa, che in media oscillano tra i due e i quattro anni da quando si dà mandato all’ente autorizzato (che fa da intermediario tra la coppia e il bambino nel suo Paese di origine), ma che possono anche allungarsi per varie ragioni.
Pietro Nicodemo e Domenica Cosentino hanno aspettato dieci anni prima di riuscire ad adottare la loro bambina in Cina. Dopo i due iniziali per ottenere il decreto di idoneità, quattro sono passati aspettando l’abbinamento, perché il Paese intanto aveva centralizzato, e quindi rallentato, la gestione delle pratiche. Poi, nel 2020, la pandemia ha congelato le adozioni. “Dopo aver visto nostra figlia in foto, quegli ultimi quattro anni di attesa sono stati drammatici”, dice Pietro. Arrivata finalmente in Cina nel 2024, la coppia ha fatto anche i conti anche con un’aperta ostilità nei confronti degli occidentali e con la reazione della figlia, che non avendo mai visto prima dei bianchi e non riuscendo a comunicare con loro, era molto spaventata e arrabbiata. “Piangeva disperatamente, si distraeva solo colorando”, ricorda Pietro. La bimba, adottata a dieci anni, non era mai andata a scuola prima e da alcuni suoi comportamenti, come l’attenzione al pianto dei neonati e la dimestichezza con mestoli e pentole, si intuiva che in orfanotrofio le facevano accudire i più piccoli e cucinare.
Anche Lidia, che con il marito ha adottato due bambine in Vietnam quando avevano dieci mesi, ha dovuto far fronte a numerose difficoltà tra cui un blocco temporaneo delle adozioni. “La normativa lì è cambiata per favorire, giustamente, le adozioni nell’ambito nazionale, cosa che però ha allungato la nostra attesa”, racconta, lamentando anche l’incertezza sulle condizioni di salute della figlia maggiore, che nei primi anni di vita si è ammalata spesso, tra polmoniti e crisi convulsive.
Da sottolineare è poi il fatto che l’adozione internazionale, a differenza di quella nazionale che è gratuita, prevede costi per la permanenza all’estero e per le pratiche svolte dall’ente autorizzato, che investe anche in iniziative a sostegno dell’infanzia nei Paesi in cui opera. La spesa media è di 20-30mila euro, che sono parzialmente rimborsati dallo Stato e al 50% deducibili, ma di cui comunque molti aspiranti genitori non dispongono. “Per me e mio marito, che siamo due impiegati normali, con un reddito non altissimo, è stato impegnativo”, spiega Teresa, mamma di due bambini sudamericani adottati attraverso Ai.Bi. “Già per la prima adozione avevamo dovuto creare un fondo paracadute”. In alcuni Paesi è inoltre previsto un lungo soggiorno obbligatorio, che, ad esempio, in Perù e Colombia dura 42 giorni. Silvia e Richard, che hanno adottato una bambina in Ghana, sono rimasti nel Paese addirittura tre mesi e mezzo. “È previsto un mese obbligatorio di ‘bonding’, durante il quale bisogna stare tutto il tempo all’interno di una casa affittata, se non per un’uscita settimanale, con l’obiettivo, appunto, di creare un legame con il minore”, racconta lui, che ha dovuto chiedere al lavoro un periodo di aspettativa non pagata. Anche se spesso adottare un bambino all’estero porta i genitori a costruire una connessione profonda con il suo Paese di origine, non mancano le difficoltà legate alle differenze culturali e sociali. Silvia e Richard, rimasti ammirati dell’ospitalità e cortesia del popolo ghanese, hanno però rilevato le contraddizioni di una società “con forti disparità sociali, dove coesistono ricchezza e povertà assoluta e dove gli apparati amministrativi si muovono con enorme lentezza e i poveri sono costretti a stratagemmi pur di sopravvivere”.
I problemi che l’adozione internazionale può presentare sono molteplici, ma ampiamente controbilanciati da momenti di grande gioia, tanto che persino le coppie con i trascorsi più difficili dicono di essere contente di aver perseverato, anche perché in ogni caso si tratta di un percorso scelto consapevolmente. Diverso è il discorso per gli adottati, come sottolinea Giacomo Chirico, papà di un bimbo vietnamita: “Questi bambini vengono presi e portati dall’altra parte del mondo, sono loro a dover fare il salto più grande cambiando tutto: clima, lingua, odori e sapori”. Il passaggio, indubbiamente positivo, da un istituto a una famiglia richiede sempre un processo di adattamento, che per chi viene da un altro Paese (o continente) può essere piuttosto lungo.
Il post adozione
Le difficoltà dei genitori adottivi, sia in Italia che all’estero, non finiscono infatti con l’arrivo del bimbo o della bimba che hanno tanto desiderato e aspettato. Persino i neonati, vissuti in ospedale fino al momento dell’adozione, possono accusare il cambiamento. “Per un mese nostra figlia ha pianto tantissimo, non era abituata ai rumori di una casa né a dormire di notte”, ricorda Luana, mamma di una bambina che ora ha cinque anni. “Lei conosce la sua storia, che abbiamo anche scritto insieme, e ora si interroga su quello che le è successo. Quando mi ha chiesto a chi assomigliasse, ho risposto che ha preso dalla sua mamma biologica che deve essere molto bella. La trasparenza e la comunicazione su questi temi sono fondamentali”.
“I problemi che l’adozione internazionale può presentare sono molteplici, ma ampiamente controbilanciati da momenti di grande gioia, tanto che persino le coppie con i trascorsi più difficili dicono di essere contente di aver perseverato, anche perché in ogni caso si tratta di un percorso scelto consapevolmente”.
Le difficoltà degli adottati possono emergere anche dopo il periodo di sostegno dei servizi sociali, limitato a uno-due anni dopo l’adozione. Così, molte coppie, in assenza di adeguato supporto, sono costrette a cercare aiuto privatamente (se possono permetterselo) o attraverso associazioni per la tutela di famiglie adottive.
Trattandosi di un percorso del tutto facoltativo, sono molti i genitori che si trovano ad affrontare le esigenze dei propri figli da soli e, spesso, con strumenti inadeguati.
A pesare a mamme e papà è anche la scarsità di informazioni che ricevono dal tribunale sull’origine dei bambini. Alcuni adottati, infatti, già da piccoli vorrebbero sapere di più sulla propria storia, ma la legge prevede che possano accedere al proprio fascicolo, presentando richiesta in tribunale, soltanto compiuti i 25 anni.
In generale il diritto degli adottati a conoscere dettagli del proprio passato è in contrasto con l’esigenza del tribunale di tutelarli e, nel caso di non riconoscimento alla nascita, con il diritto alla riservatezza delle madri. Per i casi di parto in anonimato la cosiddetta ‘legge dei 100 anni’ impediva di conoscere la propria origine fino, appunto, al compimento del 100° compleanno. Dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte costituzionale hanno condannato questa norma, i figli possono attivare le ricerche della propria madre biologica in tribunale e – solo dietro suo consenso – far revocare l’anonimato. Tuttavia, trattandosi di sentenze, le procedure da seguire in queste situazioni dipendono dai singoli tribunali.
Il punto di vista dei figli adottivi
“Il patto di segretezza che una donna ha fatto con lo Stato deve essere rispettato, allo stesso tempo ogni adottato dovrebbe poter conoscere la sua storia e avere più informazioni possibili sulla sua salute”, sostiene Graziella di Torino, nata con parto in anonimato 55 anni fa e adottata quando aveva dieci mesi. “Queste due esigenze sarebbero conciliabili creando un procedimento che consenta alle due parti di comunicare attraverso il tribunale, per tramite, ad esempio, di un giudice”. Molto spesso, infatti, l’esigenza sentita non è tanto quella di incontrare i propri genitori biologici, ma di conoscere meglio la propria vita pre adottiva e, magari, i motivi dietro l’abbandono.
Anche tornare nei luoghi dove si è nati o dove si sono trascorsi i primi mesi o anni di vita in alcuni casi è sufficiente per rappacificarsi con il proprio passato. Francesca Satragno quando aveva 22 anni è tornata ad Haiti, dove era stata adottata da neonata. “Mio marito, all’epoca mio fidanzato, mi aveva molto incoraggiato a partire. E in effetti solo il fatto di vedere quei posti mi ha permesso di chiudere il cerchio, risolvendo molte conflittualità interiori, ero tornata felice”, ricorda. Mentre era incinta di sua figlia le è però dispiaciuto non poter contribuire all’anamnesi familiare, dal momento che non aveva nessuna informazione su possibili patologie congenite. “Venendo da uno dei Paesi più poveri al mondo, non mi stupisce che ogni traccia del mio passato sia andata persa. Per gli adottati di oggi, però, credo sarebbe giusto poter accedere a queste informazioni”.
Maria, studente universitaria adottata in Russia quando aveva 7 anni, sottolinea come conoscere la propria storia dovrebbe essere un diritto. “È un bisogno fondamentale per la costruzione dell’identità, per questo trovo assurdo che l’accesso al proprio fascicolo sia a pagamento, senza che peraltro sia previsto alcun servizio di accompagnamento, cosa che il quel momento delicato, a volte fatto anche di scoperte traumatiche, sarebbe fondamentale”.
A complicare le cose per i figli adottivi sono anche le domande scomode alle quali spesso si trovano esposti, come “dove sono i tuoi veri genitori?” (implicando che quelli adottivi siano falsi), che in generale rivelano una scarsa conoscenza della realtà adottiva. Lo stesso contesto scolastico non è esente da discriminazioni nei loro confronti, che possono anche sfociare in episodi di bullismo. Proprio per combattere stereotipi e pregiudizi, l’associazione Italia Adozione ha lanciato il concorso nazionale “L’adozione tra i banchi di scuola” invitando studenti e insegnanti a parlare di questo tema nella modalità che preferiscono, dal disegno al racconto.
Secondo Maria, per far sì che figli e genitori adottivi siano accolti e accettati, bisogna innanzitutto diffondere la cultura dell’adozione, facendo capire che quello tradizionale non è l’unico riferimento possibile. Perché i modi di essere famiglia sono tanti e diversi.
Eleonora Dragotto
Eleonora Dragotto è una giornalista freelance. Dopo anni dedicati a occuparsi di cronaca milanese, scrive di temi sociali e persone ai margini.
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